Foundation Model e Large Language Model (LLM) fanno intravedere lo sviluppo dell’AGI, Artificial General Intelligence: una tecnologia capace di generare la disruption di settori industriali e dell’intera società. Che differenza c’è tra l’Intelligenza Artificiale con cui oggi ci relazioniamo e l’Artificial General Intelligence? Chi la sta costruendo? Di quali tecnologie, competenze e infrastrutture devo dotarsi le imprese per restare al passo con l’innovazione? Quali sono i percorsi che le imprese dovrebbero attivare per cogliere le opportunità di una piattaforma tecnologica sempre più pervasiva?
Proviamo a rispondere a queste domande per inquadrare la tecnologie e comprenderne la portata.
Perchè tutti parlano di Artificial General Intelligence
Dal novembre 2022, con il lancio di ChatGPT, l’intelligenza artificiale è diventata la tecnologia per eccellenza che catalizza speranze e paure. Gli algoritmi transformer alla base dei Large Language Model (LLM) mostrano capacità talmente avanzate che per la prima volta alcuni studiosi ed esperti si spingono a parlare di Intelligenza Artificiale Generale (Artificial General Intelligence o AGI).
Allo sviluppo dei modelli alla base dell’intelligenza artificiale generativa stanno contribuendo anzitutto le Big Tech, quelle imprese che recentemente Guido Maria Brera nel suo podcast Black Box (Episodio 55 – Elon Musk e le magnifiche sette) ha definito “tecno-feudatari”, riprendendo concetti espressi più estesamente dall’economista ed ex ministro greco Yanis Varoufakis nel suo “Tecnofeudalesimo. Cosa ha ucciso il capitalismo”, tradotto e pubblicato in Italia nel 2023 da La Nave di Teseo.
Le Big Tech (Microsoft, Alphabet-Google, Meta-Facebook, Apple, Amazon, Tesla, Nvidia) competono non solo nella realizzazione dei principali foundation model, ma anche nell’individuare, finanziare e infine acquisire quando possibile le principali startup artefici dello sviluppo spettacolare dell’IA di questi anni e soprattutto nella ricerca e nello sviluppo della futura killer application in grado di sbancare il mercato.
Rispetto a quando e se le macchine intelligenti saranno mai in grado di raggiungere performance comparabili con quanto ci aspettiamo da un’intelligenza artificiale generale e perfino sulla definizione stessa di Artificial General Intelligence, le Big Tech hanno visioni differenti.
Secondo Sam Altman, CEO di OpenAI, l’AGI è la tecnologia più potente che l’umanità abbia mai inventato e che per vederla davvero in azione dobbiamo aspettare non più di 5 o 10 anni. D’altro canto, Microsoft, in un suo recente paper, ha affermato che GPT-4 mostra “scintille” di AGI. Ossia: per Microsoft l’AGI è (quasi) già realtà. Un’opinione simile è stata espressa da Shane Legg, fondatore e guida di Google DeepMind, secondo il quale abbiamo il 50% di probabilità di vedere l’AGI all’opera entro il 2028.
Viceversa, Yann Le Cun AI Scientist di Meta sostiene invece che non vedremo all’opera l’intelligenza artificiale generale almeno per i prossimi 50 anni.
La definizione di AGI è piuttosto duttile, ma tutti concordano sulle sue caratteristiche principali: si può parlare di AGI per quei sistemi di intelligenza artificiale che sono capaci di svolgere un’ampia varietà di compiti con una capacità comparabile a quella umana. L’AGI è messa in questo senso in contrapposizione all’intelligenza artificiale ristretta o debole (narrow AI o weak AI), che è poi quella con cui conviviamo oggi, ovvero l’intelligenza di sistemi con capacità anche molto elevate, ma in una gamma ristretta di compiti: robot precisissimi in un set di movimenti specifici, un sistema (quasi) infallibile nella previsione delle frodi bancarie, un chatbot in grado di guidare le scelte dell’utente all’interno di un catalogo o di un sito web molto complesso, e così via.
Le imprese di fronte all’AGI
Occorre fare immediatamente una distinzione tra le grandi imprese tech leader nella ricerca nel campo dell’IA – Microsoft con OpenAI, Amazon con Anthropic, Meta con HuggingFace, Google DeepMind, Apple con le sue soluzioni, la galassia di Elon Musk con xAI, Nvidia con lo sviluppo di GPU fondamentali per offrire la capacità computazionale che l’allenamento di modelli con miliardi di variabili necessitano – e tutte le altre; imprese che devono tuttavia trovare la propria strada, il proprio modo di utilizzare l’IA per non perdere la prossima generazione tecnologica ed essere messe rapidamente fuori mercato.
La creazione e l’addestramento dei foundation models è affrontabile da poche imprese che abbiano a disposizione competenze ed esperienza anzitutto, ma soprattutto milioni o miliardi necessari per sviluppi costosissimi in presenza di modelli di business e di revenue tuttora incerti.
Tuttavia, attraverso progetti di machine learning e deep learning “tradizionale”, oppure attraverso lo sviluppo di propri RAG (Retrieval-Augmented-Generation) o fine-tuning di modelli esistenti, tutte le organizzazioni oggi sono chiamate a innovare e cambiare sfruttando i dati e le possibilità offerte dall’AI.
Occorre anzitutto comprendere che l’IA è una “tecnologia piattaforma”, in grado di ospitare e di gemmare numerose altre innovazioni, come lo sono state l’elettricità e la rete internet con la diffusione del world wide web a metà anni 1990.
Le opportunità per le imprese sono enormi. Per citare solo le più macroscopiche, i sistemi di intelligenza artificiale permettono di:
- accrescere le capacità di intelligence, raccogliendo, analizzando e correlando moli di dati sempre più ampie e variegate;
- favorire un decision-making più accurato e insight-driven, capace di considerare in maniera analitica numerosi scenari contemporaneamente e facendo complessi calcoli probabilisistici e di correlazione se non di causalità;
- estendere e rendere capillare l’automazione dei processi, permettendo personalizzazione di massa anche sui servizi più complessi, minimizzando i costi per attività ripetitive, generando contenuti e assistendo le persone nello svolgimento di attività sempre più informate e consapevoli;
- espandere e valorizzare le competenze delle persone, assegnando alle macchine le attività più basiche e ripetitive e lasciando alle persone le attività creative, complesse, basate sulla relazione e l’intuizione.
Se questi sono alcuni dei molti possibili vantaggi, le imprese hanno ben presenti anche i rischi, quali:
- incertezza rispetto ai modelli di business, di revenues, di stima degli investimenti;
- problemi legati alla compliance normativa;
- rischi legati a tematiche di privacy e sicurezza;
- rischio di errori (allucinazioni) dei sistemi di ultima generazione;
- rafforzamento dei bias cognitivi e scarsa esplicabilità dei risultati;
- sviluppo di deep fake e in generale perdita di distinzione tra ero e falso;
- possibilità che un sistema AGI molto potente si renda autonomo dai propri creatori e controllori (come un novello Frankenstein);
- …
Farsi trovare impreparati al momento della disruption è il rischio più grande
Tra tutti i rischi, tuttavia, il rischio più grande è “restare fermi senza fare nulla”.
Dal 1995, grazie al fondamentale paper “Disruptive Technologies. Catching the Wave” di Clayton Christensen e Joseph Bower, abbiamo trovato le parole e la cornice concettuale per confrontarci con tecnologie e innovazioni capaci di sconvolgere in profondità la struttura di interi settori. Una lezione che le Big Tech hanno imparato molto bene: collaborando con startup, laboratori e centri di ricerca, provano ad anticipare l’innovazione prima che i propri modelli di business oggi di successo e le proprie piattaforme tecnologiche leader incontrastate siano spazzate via da nuovi attori portatori di nuovi paradigmi tecnologici e di business. Vent’anni più tardi, nel 2013, Larry Downes e Paul Nunes hanno codificato un ulteriore tipo di innovazione disruptive, la cosiddetta Big Bang Disruption, portatrice di effetti ancora più distruttivi rispetto a quelli dell’elaborazione originale e per certi versi ancora più adatto al contesto dell’innovazione trainata dall’AI.
Come rispondono le imprese all’enormità di queste sfide
Per restare al passo, le imprese devono dotarsi di strumenti e approcci in grado di inserire l’innovazione tecnologica in una cornice di senso, comprendendo gli impatti sui modelli di business e di revenue, sulla relazioni con i clienti, sulla gestione delle operation e delle persone.
Gli elementi fondamentali da considerare sono:
- dotarsi di una cornice interpretativa dell’innovazione portata dall’IA;
- sviluppare una propria data strategy;
- identificare e prioritizzare i casi d’uso nel proprio contesto di mercato e operativo;
- sviluppare una cultura data-driven e coerente con la rapidità dell’innovazione attuale.
Rispetto al primo punto, il modello della disruptive innovation costituisce un framework in grado di interpretare l’innovazione tecnologica attuale e sviluppare un set di macro-iniziative di risposta. Un assetto mentale che spinge verso l’innovazione aperta, per la creazione di relazioni permanenti con startup e centri di ricerca. Come si è detto, un approccio abbracciato ampiamente dalle Big Tech (nonostante l’incredibile patrimonio cognitivo, tecnologico e finanziario di cui dispongono) che hanno trovato nella relazione con le startup più innovative il modo di “occupare” il mercato dell’AI: si vedano I casi le collaborazioni e le cap-table di Anthropic, Databricks, HuggingFace, OpenAI, solo per citare le più rilevanti.
Il secondo aspetto fondamentale è dotarsi di una propria data strategy, ovvero codificare il modo in cui si intendono sfruttare i dati per realizzare la business strategy. Un passaggio spesso trascurato dalle imprese più piccole e meno esperte; tuttavia una tappa fondamentali di cui parliamo diffusamente in questo recente articolo.
L’identificazione dei casi d’uso coerenti con i propri modelli di business, i mercati e i clienti di riferimento, i processi e le operation, valutati e prioritizzati solo dopo lo sviluppo di business case strutturati costituisce il terzo elemento fondamentale per declinare la propria strategia di sviluppo AI in wave di innovazione via via più articolate e complesse.
Le imprese da cui trarre spunto
Da questo punto di vista, si possono imparare molte cose dalle imprese che di più e per prime in diversi settori usano l’IA per trasformare sé stesse e il proprio business.
Tra queste, certamente Netflix, per la capacità di valorizzare ogni singola informazione e personalizzare in maniera estrema ogni fase dell’esperienza, in particolare per quanto riguarda la ricerca all’interno del proprio sterminato catalogo.
Un altro caso notevole è rappresentato da Duolingo, l’app che sta trasformando la formazione e ha incorporato GPT-4 nella realizzazione ed erogazione dei corsi e del servizio, inclusa la personalizzazione delle proposte, degli alert, delle notifiche, dell’orchestrazione dell’intera esperienza.
Siemens è un’altra impresa che sta utilizzando in maniera pervasiva l’IA per migliorare i processi produttivi; attraverso una partnership con Microsoft la sperimentazione sta portando alla realizzazione di applicazioni avanzate di Generative AI alla produzione industriale.
Tornando al mondo delle startup, si parla tantissimo dopo l’ultimo CES di Las Vegas, della startup Rabbit Inc. che ha realizzato Rabbit R1, un dispositivo portatile in grado di interagire con lo smartphone svolgendo compiti complessi e potendo essere allenato su compiti specifici e ripetitivi. Una soluzione che ci permette di intravedere la possibile relazione uomo-macchina nel prossimo futuro.
Si potrebbero fare tantissimi esempi, citando imprese come Ford e Volvo che stanno investendo e accelerando nel campo della guida autonoma, come mote altre che mostrano tanti casi di eccellenza nello sfruttamento dell’intelligenza artificiale.
Se si vuole fare il conto con la realtà, occorre guardare i dati e conoscere meglio il contesto italiano: secondo Cisco, solo l’8% delle imprese italiane è oggi pronta a sfruttare appieno le opportunità portate dall’intelligenza digitale. Il Cisco AI Readiness – l’indicatore sintentico che prende in considerazione strategia, infrastruttura, dati, competenze, governance, cultura delle imprese – mostra un ritardo che le imprese italiane rischiamo di pagare molto caro.
Un possibile percorso delle imprese: verso l’impresa autonoma
Le imprese non possono certamente pensare di sviluppare dalla sera alla mattina le competenze, i processi, le infrastrutture tecnologiche e di business per sfruttare appieno i dati, oppure per applicare con successo l’intelligenza artificiale, meno che mai le più recenti versioni, per certi versi già così vicine all’AGI, prossima ventura.
Alla ricerca di un proprio percorso, le imprese potrebbero apprendere molto leggendo un libro di qualche anno fa – The Sentient Enterprise di Sawhney Mohanbir e Oliver Ratzesberger – in cui gli autori hanno tracciato un percorso di sviluppo e di trasformazione delle imprese, da un modello tradizionale a quello che definiscono un modello autonomo (Autonomous Decisioning Platform), passando attraverso 4 stadi evolutivi intermedi in cui crescono le capacità di intelligence, automazione, valorizzazione dei dati: Agile Data Platform, Behavioral Data Platform, Collaborative Ideation Platform, Analytical Application Platform.
L’Autonomous Decisioning Platform
L’Autonomous Decisioning Platform rappresenta una fase in cui l’impresa è talmente compenetrata da algoritmi di advanced analytics da essere di fatto costituita da un sistema autonomo (simile a quello di un organismo senziente) in grado di prendere la maggior parte delle decisioni operative autonomamente, senza l’intervento umano. Un’impresa autocosciente, proattiva, capace di rilevare anche i più microscopici segnali di contesto, anticipando le crisi e sviluppando strategie e piani operativi in grado di portare il cambiamento e ottimizzare le performance nel nuovo contesto tecnologico e di mercato.
Gli step verso l’impresa autonoma
L’impresa autonoma prevista dagli autori è certamente di là da venire (se mai avverrà e se mai sia auspicabile); quello che pare interessante in questa modellizzazione è il percorso, che costringe le imprese a fissare una serie di sviluppi concreti da realizzare per adattarsi al nuovo contesto di innovazione e disruption permanenti.
L’Agile Data Platform
Il primo stadio è quello dell’Agile Data Platform, di un’impresa in grado di reinventare se stessa e di sviluppare la sua prossima versione in maniera agile, cogliendo le opportunità di modelli di business e tecnologie valide per intervalli temporali sempre più brevi. In pratica, si tratta di un’impresa che si sviluppa appieno nel contesto degli advanced analytics con un approccio compiutamente agile, auto-distruttivo e generativo.
La Behavioral Data Platform
Il secondo stadio è quello della Behavioral Data Platform, in cui l’impresa deve sviluppare e mettere a regime un sistema integrato di rilevazione e utilizzo dei dati comportamentali di clienti, stakeholder, dipendenti, collaboratori, sviluppando soluzioni iper-personalizzate e portando alle estreme conseguenze il concetto di intelligence, applicato al mercato, ai clienti, a dipendenti e collaboratori.
La Collaborative Ideation Platform
Il terzo stadio prevede la costruzione di una Collaborative Ideation Platform: una meta-piattaforma di collaborazione interno-esterno per valorizzare competenze diverse, favorire lo scambio, la sperimentazione, la generazione di POC in maniera continua, in un contesto fortemente multidisciplinare come quello dell’IA nelle sue ultime evoluzioni.
L’Analytical Application Platform
Il quarto stadio è quello dell’Analytical Application Platform, in cui l’impresa vede la presenza capillare e pervasiva di sensori attraverso l’organizzazione, lungo i diversi processi, nei singoli touchpoint, tra le diverse unità organizzative. Una struttura in grado di alimentare un sistema di intelligence capace di fornire insight e indicazioni su tutte le più rilevanti decisioni che l’impresa e il suo management dovranno prendere. Con una consapevolezza molto maggiore rispetto al passato.
Conclusioni
Anche se l’AGI non è compiutamente realizzata, le imprese devono iniziare da subito a prepararsi al suo avvento, anche e soprattutto se sono leader nel proprio mercato e non vedono applicazioni dell’IA in grado oggi di insidiare la modalità consueta di creare e distribuire valore: proprio in questi casi la disruption potrebbe essere dietro l’angolo.
Per affrontare la trasformazione in maniera sistematica occorre intraprendere un percorso, adottando anzitutto approcci agili, pronti alla self-disruption e in grado di reinventare l’impresa più volte nel corso del tempo, costruendo sistemi di rilevazione dei comportamenti attraverso gli analytics, reti interne di collaborazione tra data scientist, personale operativo e decision makers, e infine realizzando un sistema di intelligence pervasivo e in grado di alimentare un processo decisionale consapevole e data-driven.