Puntare sulla manifattura è oggigiorno ancora fondamentale, anche e soprattutto per quei paesi industrializzati europei, che, nel corso degli ultimi 20 anni, hanno visto aumentare il peso dei servizi, anche per via della concorrenza feroce di paesi del far-east a basso costo della manodopera.
Il valore della manifattura in Europa
Non possiamo infatti dimenticare che la manifattura in Europa[1]:
- genera un fatturato di oltre 7.000 miliardi di euro;
- pesa per il 15,5% del valore aggiunto totale;
- acquista beni e servizi per oltre 5.400 miliardi di euro all’anno;
- occupa il 14,2% della forza lavoro;
- genera il 74,6% delle esportazioni;
- assorbe il 65% degli investimenti privati in Ricerca e Sviluppo;
- genera il 60% dei posti di lavoro nel settore dei servizi;
- contribuisce al 65% della produttività continentale.
Complessivamente, secondo i dati della World Bank, nel 2015 il manifatturiero ha inciso per circa il 15% del PIL globale, a fronte del 20% del 2000. Tale decrescita, sebbene enfatizzata dalla crisi economico-finanziaria del 2008, non deve essere considerata un prodotto della crisi medesima, essendo iniziata molto tempo prima. Altro elemento di interesse è il valore aggiunto generato dalle attività manifatturiere: secondo dati Ambrosetti, tra il 2000 e il 2014 esso è cresciuto circa del 20%, contro il 34% di quello statunitense. Inoltre, la produttività del lavoro in Europa è cresciuta del 2,1%/anno tra il 2000 e il 2014, quella USA del 3,2%.
Il valore della manifattura in Italia
Anche in Italia il settore manifatturiero sta vivendo dinamiche simili:
- il peso della manifattura è pari a circa il 16% del PIL, a fronte di un valore prossimo al 20% nel 2000. Considerando però anche i servizi direttamente riconducibili alla manifattura (quelli cioè che non esisterebbero senza di essa), tale valore cresce fino a superare il 50% del PIL.
- Rispetto a paesi come Germania, Francia e USA in cui la produttività del lavoro (Apparent Labour Productivity) è cresciuta dagli inizi degli anni 2000 di un fattore compreso tra il 5% e il 15%, in Italia è rimasta sostanzialmente invariata.
Le ragioni di questa perdita di competitività vanno ricercate (anche) nell’assenza di misure specifiche volte a favorire lo sviluppo e a promuovere gli investimenti nel settore manifatturiero. Non è un caso che gli investimenti in macchinari e attrezzature nell’ultimo lustro si siano ridotti di circa il 5% rispetto a quello precedente, a fronte invece di (moderate) crescite in altri paesi quali Germania, Francia e Spagna[2]. Inoltre, secondo dati UCIMU, il 20% del parco macchine installato ha più di 20 anni di anzianità ed il 79% non risulta avere una piena integrazione informatica.
A fronte quindi di una rilevanza ancora molto significativa delle attività manifatturiere sull’economia del nostro paese, appare fortemente auspicabile rilanciare la manifattura con una serie di misure che possano riportare i livelli di competitività delle aziende italiane in linea con quelli dei principali concorrenti esteri. Stimolare la (ri)crescita del settore manifatturiero è diventata quindi una priorità di quasi tutti i paesi industrializzati e la leva chiave si chiama Industria 4.0.
Quanto sono pronte le aziende italiane a Industry 4.0
Assodato che Industria 4.0 è la leva chiave per rilanciare la manifattura a livello globale, occorre chiedersi: “Quanto sono pronte le imprese Italiane ad abbracciare concretamente la rivoluzione 4.0?” A questa domanda principale e ad una serie di quesiti di maggiore dettaglio abbiamo provato a dare risposta con la seconda edizione della ricerca targata RISE – Università degli Studi di Brescia, che ha coinvolto 105 aziende manifatturiere, eterogenee sia in termini di dimensioni, sia in termini di comparti industriali.
Quindi: quante sono le aziende che stanno già abbracciando il paradigma 4.0, e a che punto sono quelle che ancora non lo hanno fatto?
Incrociando il numero delle tecnologie conosciute con quelle effettivamente implementate, è stato possibile posizionare le aziende all’interno della matrice illustrata nel seguito.
- RITARDATARI (48%): sono le aziende più lontane dalla configurazione 4.0, che di fatto non hanno ancora svolto alcuna azione empirica, limitandosi a superficiali valutazioni di carattere teorico;
- PRATICONI (11%): a questa categoria appartengono le aziende che hanno deciso di lanciare almeno 2 progetti pilota. Sono, più nello specifico, realtà che hanno deciso di “imparare facendo”, privilegiando la pratica rispetto alla teoria;
- TEORICI (2%): in questo cluster si posizionano al contrario le aziende che stanno approcciando tutte (o quasi) le tecnologie disponibili, senza però avere (ancora) realizzato progetti implementativi;
- FOCALIZZATI (32%): le aziende di questa categoria sono certamente “in cammino” verso il paradigma 4.0. Non disdegnano la teoria, ma la sanno anche applicare concretamente, pur all’interno di un limitato sotto-insieme di tecnologie;
- POLIVALENTI (3%): sono simili ai focalizzati, ma guardano ad un set di tecnologie più ampio, consapevoli che per diventare delle imprese 4.0 devono saper impiegare in modo armonico tutte o quasi le leve a disposizione;
- STELLE (5%): sono le (poche) aziende già oggi 4.0, perché conoscono ed impiegano gran parte delle tecnologie digitali abilitanti, con benefici concreti. Sono di fatto i modelli a cui ispirarsi per intraprendere il proprio percorso di digitalizzazione.
Nella sostanza, una buona metà del campione di indagine non sta muovendo alcun passo verso il paradigma 4.0, se non qualche limitato carotaggio teorico del tutto preliminare. Per fortuna, dall’altro lato, c’è un 35% di aziende che al contrario sono già “in cammino”, attraverso quantomeno dei progetti pilota. Pochissime (5%) sono infine le imprese già oggi a tutti gli effetti 4.0, capaci di far convivere diverse tecnologie all’interno di un ecosistema, spesso allargato in ottica di filiera a clienti e fornitori.
In definitiva, essere 4.0 non significa abbracciare puntualmente 1-2 tecnologie digitali per rispondere a specifiche esigenze, magari di singoli reparti o aree di business, senza una vera integrazione / interconnessione. Essere 4.0 vuol dire applicare in modo pervasivo all’interno dei propri processi diverse tecnologie digitali, in grado di comunicare e scambiare dati e informazioni per prendere decisioni rapide e consapevoli, gestire in tempo reale cambiamenti improvvisi del contesto, essere flessibili nell’applicare le modifiche necessarie, nonché garantire livelli di efficienza e sostenibilità (sempre più) elevati.
Dalla Figura 1 emerge un messaggio per certi versi quasi scontato ma non per questo poco importante: anche in industria (o impresa) 4.0, le dimensioni contano. Delle imprese facenti parte le classi dei RITARDATARI, dei PRATICONI e dei TEORICI, cioè le più lontane dal paradigma 4.0, il 75% sono PMI. In altri termini, le PMI appaiono meno pronte alla trasformazione 4.0, non solo in termini di risorse investibili, bensì anche e soprattutto in termini culturali. Dall’altro lato però ciò non significa che le PMI non possano accedere alla rivoluzione 4.0 in atto: per definizione tutte le aziende possono approcciare la trasformazione digitale delle proprie attività. La riprova sta nel fatto che 1 delle 5 stelle del campione è proprio una PMI!
Come sboccia il 4.0 nelle aziende italiane
Chi è lo sponsor dei progetti 4.0 in azienda? Nella metà dei casi, è direttamente il vertice aziendale, nel più classico dei processi top-down. Essendo una rivoluzione abilitata si dalle tecnologie, ma con impatti soprattutto sul modo di lavorare delle aziende e delle persone, è più che ragionevole che sia l’imprenditore, o il top management nelle imprese più grandi e strutturate, a “committare” la trasformazione digitale, vincendo così sul nascere le resistenze interne al cambiamento e definendo da subito la nuova identità organizzativa aziendale. Nel 20% dei casi rimanenti la responsabilità è affidata a capi funzione e per un altro 20% il ruolo è affidato all’IT, nella visione, un tantino datata, che tutto ciò che riguardi l’innovazione digitale debba necessariamente transitare dai sistemi informativi.
È possibile identificare dei pre-requisiti per diventare 4.0? Assolutamente si, ed in particolare:
- La volontà di cambiamento deve nascere direttamente dal vertice, che deve essere in grado di tracciare la vision e pilotare le persone al conseguimento degli obiettivi prefissati;
- A fronte di questa guida decisa e sicura, è strettamente necessario che l’intera organizzazione aziendale abbracci il paradigma 4.0, rivedendo i propri processi e i propri ruoli, eventualmente riqualificando le competenze di quelle risorse che non risultassero essere allineate con le nuove tecnologie;
- Infine, perché questo cambiamento possa avvenire nel minor tempo possibile, è strettamente necessario che un’azienda abbia già intrapreso il percorso per poter essere quantomeno 0, cioè dotata di processi adeguatamente informatizzati e integrati tra di loro.
L’informatizzazione delle attività di business, grazie all’utilizzo di sistemi quali ERP, MES, CRM, BI, APS, WMS, PLM/PDM, …, è quindi un pre-requisito per le aziende che vogliono abbracciare il paradigma 4.0. Non è pensabile infatti interconnettere in reti intelligenti macchinari, attrezzature, linee produttive, persone, stabilimenti, aziende e intere filiere logistiche e coordinarne le attività in modo armonico, senza che ognuna di queste entità sia stata prima opportunamente informatizzata.
Come sono le aziende 4.0 italiane
In poche parole, per diventare 4.0, le aziende è bene che siano già 3.0. Tale pre-requisito di natura tecnologica influenzerà la velocità con la quale le imprese potranno divenire 4.0. Coloro che ad oggi hanno già svolto il percorso di informatizzazione, disporranno delle fondamenta grazie a cui potersi dedicare alla trasformazione digitale dei propri processi; per quelle aziende che, invece, non hanno ancora completato il proprio percorso di informatizzazione, la strada verso il paradigma 4.0 sarà più lunga e articolata, dovendo in prima battuta terminare la costruzione delle fondamenta per questa trasformazione.
Le aziende italiane, storicamente molto orientate all’innovazione di prodotto, come si posizionano rispetto all’informatizzazione dei propri processi? E soprattutto, c’è relazione tra il livello di informatizzazione (alta, media, bassa) e la propensione alla trasformazione digitale?
Muovendosi da sinistra verso destra all’interno della figura 4 emerge molto chiaramente che all’aumentare del livello di informatizzazione, aumenta la maturità digitale delle imprese. In altre parole, le imprese più informatizzate (e da più tempo), sono quelle già oggi più orientate alla configurazione 4.0. Non è un caso che tutte le stelle manifestino un elevato livello di informatizzazione dei propri processi: una volta consolidata la configurazione 3.0 dell’azienda, ci si è potuti concentrare sull’evoluzione verso il paradigma 4.0. Al contrario, la maggior parte delle aziende in ritardo si segnala per un basso livello di informatizzazione: non solo l’obiettivo è lontano, ma mancano le basi per poterlo raggiungere rapidamente.
LEGGI INDUSTRY 4.0, IL QUADRO COMPLETO
Come sviluppare Industry 4.0
La strada verso il paradigma 4.0 non è certo un rettilineo da percorrere alla massima velocità. Diventare imprese 4.0 comporta numerosi cambiamenti di diversa natura e entità, da integrare in modo armonico.
LEGGI COME PUO’ FARE INDUSTRY 4.0 UN’AZIENDA ITALIANA
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