Il Piano Industria 4.0 rappresenta uno dei provvedimenti di politica pubblica di rilancio del lavoro più efficace degli ultimi 20 anni. Gli incentivi messi in campo nella precedente legislatura hanno avuto l’effetto di rimettere in moto gli investimenti sui macchinari, svecchiando e modernizzando gli impianti produttivi e gli effetti sulla competitività del paese non hanno tardato a manifestarsi.
Ma tutti i benefici fin qui ottenuti rischiano di essere vanificati dalle misure contenute nel documento programmatico di bilancio inviato dal governo a Bruxelles che, salvo auspicabili modifiche, dimezzerà gli incentivi e taglierà di netto il credito d’imposta sulla formazione 4.0.
I rischi di una politica ostile a industria e infrastrutture
Il 52% dell’export e gran parte dei 47,5 miliardi di surplus commerciale che il nostro paese ha realizzato lo scorso anno vengono dall’industria metalmeccanica. Si può dunque sostenere che buona parte della ricchezza prodotta in Italia dipende dalle sorti delle manifattura. Cito questi dati perché, sempre più spesso, nel dibattito pubblico, si dimentica – o forse si ignora – che l’Italia è la seconda manifattura in Europa e la settima potenza industriale del mondo. Posizioni che rischiano di deconsolidarsi con una politica ostile all’industria e alle infrastrutture.
Da questa mancanza di consapevolezza deriva la scarsa attenzione verso le politiche di sviluppo che pure sarebbero necessarie per costruire un habitat favorevole alle imprese e al lavoro: dalle infrastrutture, materiali e immateriali, agli investimenti su Industria 4.0 e banda larga, alla formazione, allo snellimento burocratico, al sistema del credito, fino ad un sistema giuridico efficiente e veloce etc… Si tratta in realtà di problemi noti, sui quali a parole c’è un vasto consenso, parole che faticano però a tradursi in azioni concrete. Una delle ragioni è che ci lasciamo dominare dal ricatto di breve termine, un vizio dal quale pochi sono immuni nella nostra società, men che meno una classe politica che pensa e agisce come se fosse in un’eterna campagna elettorale.
Lavoro e industria, un ritorno al passato
Il documento programmatico di bilancio inviato dal governo a Bruxelles non si discosta da questo modus operandi. Anzi, l’esecutivo del “cambiamento” si sta rivelando però, alla prova dei fatti, più conservatore di quelli che lo hanno preceduto. La cartina di tornasole di questa attitudine a rifugiarsi nel passato mentre si declama il futuro in chiave esclusivamente retorica è costituita proprio dalle misure su lavoro e industria. Per quanto riguarda Industria 4.0 è previsto, salvo modifiche che sono il primo ad auspicare, il dimezzamento degli incentivi messi in campo dal precedente governo con il Piano nazionale impresa 4.0: si passa da 896 a 377 milioni nel primo anno e da 1.7 miliardi a 779 nel secondo. Il taglio è operato soprattutto sull’iperammortamento per l’acquisto di beni digitali, che passa dal 250% al 175%, un dato medio che è la risultante d tre aliquote : 250% – come la norma attualmente in vigore – solo per investimenti fino a 2,5 milioni; 200% fino a 10 milioni; 150%,fino a 20 milioni, tetto massimo per accedere al beneficio.
Ancora più grave, in prospettiva, la cancellazione del credito d’imposta per la formazione 4.0, che l’ultima legge di bilancio aveva introdotto in via sperimentale per il 2018 (solo per le spese incrementali fino ad un milione di euro). Per non parlare di quanto avviene sul 5G, solo teoricamente a vantaggio di blockchain e intelligenza artificiale.
E’ chiaro che scelte di questo tipo disegnano un orizzonte politico che non va oltre le prossime elezioni e finiscono col mettere in secondo piano le esigenze della crescita. Al suo posto si intravede solo un surrogato a base di assistenzialismo (vedi reddito di cittadinanza) e laissez faire fiscale (vedi condono) in un paese che primeggia per evasione e lavoro nero. L’innovazione non farà parte del quadro.
A rischio i benefici del piano Impresa 4.0
Se fossero confermati i tagli, verrebbero vanificati in gran parte i benefici prodotti dal piano Impresa 4.0. Alcuni di questi benefici, tra l’altro, sono già visibili, dunque il governo farebbe bene a tenerne conto. Nei giorni scorsi il World Economic Forum ha stilato la classifica delle economie più competitive. Pur restando la nostra tra le ultime dei paesi sviluppati, abbiamo recuperato alcuni posti in classifica, passando dal 43° al 31°esimo posto. Il progresso si deve proprio all’innovazione trainata dai sistemi locali più aperti e dinamici, che conquistano addirittura il 4° posto su 140 paesi.
Non intendo dire con questo, che tutto quanto è stato fatto negli anni scorsi sia stato fatto bene. Né voglio sottovalutare i ritardi che sono evidenti a chiunque si occupi della materia. Nell’insieme, infatti, molti dei problemi che affliggono il nostro tessuto industriale sono lungi dall’essere risolti e in alcuni casi si sono perfino aggravati. Segnalo a titolo d’esempio il dualismo tra Pmi e grandi imprese e il divario tra Nord e Sud del Paese.
Secondo i dati di un’indagine pubblicata dal MiSE-Met (“Imprese e tecnologie 4.0”) a luglio, su un campione di 23.700 imprese appena l’8,4% utilizza una tecnologia 4.0. Inoltre solo il 4.7% ha in programma investimenti specifici nel prossimo triennio, mentre una maggioranza schiacciante (86,9%) afferma di non avere in programma di utilizzare tecnologie 4.0 (parliamo di robot interconnessi, manifattura additiva, simulazioni, realtà aumentata, materiali intelligenti, cloud, Big Data, sistemi di cyber security) nel prossimo futuro. L’indagine evidenzia come il processo di trasformazione 4.0 per il 56% delle imprese è avvenuto utilizzando almeno una misura di sostegno pubblico. Un dato, quest’ultimo, che dovrebbe spingere a riflettere il governo sull’inopportunità di tagliare gli incentivi.
Il Piano Industria 4.0 rappresenta uno dei provvedimenti di politica pubblica di rilancio del lavoro più efficace degli ultimi 20 anni, benché sia arrivato in ritardo rispetto agli altri paesi europei, Germania in testa. La dotazione di risorse messa in campo su un arco di sette anni (13 miliardi di euro di investimenti pubblici in innovazione e incentivi fiscali, tra superammortamento, iperammortamento, nuova Sabatini) è stata rafforzata da un’ulteriore dote di 10 miliardi per quelle che nel piano sono indicate come “direttrici di accompagnamento”. Ovvero: salario produttività (1.3 miliardi nel quadriennio 2017-20), diffusione della banda ultralarga tra le imprese (6.7 miliardi già stanziati) ,rifinanziamento del Fondo di garanzia per le pmi (900 milioni), catene digitali e internazionalizzazione del made in Italy (100 milioni ), contratto di sviluppo con focus su industria 4.0 (1 miliardo). Un capitolo a sé è dedicato alla ricerca, con la costituzione di Innovation hub e Competence center inseriti in una struttura “a rete” con l’obiettivo dichiarato di valorizzare le eccellenze del nostro sistema universitario.
Gli incentivi hanno avuto l’effetto di rimettere in moto gli investimenti sui macchinari, svecchiando e modernizzando gli impianti produttivi che nel 2016 avevano secondo, i dati Ucimu, un’ anzianità media di 13 anni. Ciò ha permesso il rilancio non solo della produzione di beni strumentali e robot, di cui il nostro pese è tra i primi produttori ed esportatori al mondo, ma ha determinato anche un aumento della competitività di lungo periodo per molte aziende.
Chiaramente non dobbiamo confinare le politiche pubbliche su Industria 4.0 in una nicchia. La cosa più importante, infatti, è tenere sempre davanti ai nostri occhi il quadro d’insieme.
Innovazione di portata sistemica
La trasformazione che digitale, Intelligenza Artificiale e nuove tecnologie stanno apportando al sistema produttivo è di portata sistemica. L’impatto sul lavoro è già oggi notevole e lo sarà ancor più in futuro. Non solo cambieranno le modalità di organizzazione del lavoro nella fabbrica, ma è probabile, per non dire sicuro, che l’idea stessa di rappresentanza vada ripensata, dando sempre più spazio alla centralità della persona. Tutto il contrario della vulgata, cara anche ad alcuni esponenti della maggioranza, secondo cui in futuro il lavoro sarà solo per pochi, mentre la gran parte delle persone starà in panchina e vivrà di sussidi.
Sul tema della formazione credo che dai metalmeccanici sia venuto un importante contributo con l’ultimo contratto nazionale. L’introduzione di un vero e proprio diritto soggettivo è un passo importante perché chiarisce che la formazione, insieme al salario e alla sicurezza, rappresenta il diritto al futuro.
Già oggi chi entra nel mondo del lavoro sa che con molta probabilità nell’arco della sua vita professionale sarà più volte chiamato a cambiare. Chi ai miei tempi, negli anni ’90 del secolo scorso, frequentava l’università sapeva che la metà delle nozioni apprese attraverso la formazione accademica sarebbero state modificate nell’arco dei successivi 15 anni. Questo lasso di tempo si è ridotto a 4 – 6 anni ed è sempre più disallineato rispetto ai lavori emergenti. Dobbiamo riflettere se non sia allora preferibile un approccio alla conoscenza “just in time”, cosa che implica una profonda revisione dei metodi di insegnamento. La tecnologia ha infatti la potenzialità di insegnare in modo personalizzato e adattabile alle esigenze dei singoli, anche se resto convinto sostenitore del fatto che serva una conoscenza umanistica diffusa che formi le persone a una visione integrata e aperta, cui poi affiancare piani formativi personalizzati e continui just in time.
I tagli alla formazione
Il taglio netto del credito d’imposta sulla formazione 4.0 va esattamente nella direzione opposta. Tra l’altro in questi giorni, a poche settimane dal termine delle agevolazioni previste per le spese sostenute nel periodo d’imposta successivo al 31 dicembre 2017, stanno emergendo problemi legati alle modalità di certificazione delle spese ammissibili per la formazione 4.0 e la ricerca e sviluppo. Mancano infatti le indicazioni relative alle modalità di certificazione delle spese. Un problema che andrebbe risolto al più presto.
Magari insieme a quello dei Competence Center, il cui lancio è rimasto intrappolato oltre due anni tra le maglie della burocrazia. Adesso che questo iter, con la pubblicazione della graduatoria, si è chiuso potremo valutare sul terreno se il sistema sarà in grado di produrre quel trasferimento di competenze in vista del quale è stato pensato. La Fim è l’unico sindacato inserito stabilmente in uno dei Competence Center, quello milanese, che dovrebbe partire a metà 2019.
Tornando alla manovra, i tagli previsti potrebbero arrestare lo slancio impresso dagli incentivi alla ripresa degli investimenti e ampliare il ritardo che abbiamo accumulato nei confronti di paesi come Stati Uniti, Germania, Francia e soprattutto Cina, il gigante asiatico che con i tedeschi ha avviato un piano di collaborazione proprio su Industry 4.0 (“Made in China 2025″).
Se l’Italia vuole mantenere la seconda piazza tra le potenze industriali europee è evidente che deve puntare le sue carte sul sistema formativo e su quella parte del tessuto imprenditoriale che in questi anni ha fatto dell’innovazione tecnologica e organizzativa il suo punto di forza. Lo spazio c’è, ma serve una visione. Una visione in grado di far maturare il Paese sotto il profilo sia politico che culturale, di metterlo nelle condizioni di “fare sistema”, magari prendendo a modello quanto di buono hanno realizzato altri paesi (l’esempio è sempre la Germania) in questo campo, ma seguendo una propria strada.
Visioning e programmazione per gestire la transizione
Oggi i paesi che stanno investendo di più in tecnologia e formazione (Germania, Corea del Sud, Giappone) hanno tassi di disoccupazione bassissimi e un’occupazione di alta qualità che si concentra maggiormente sulle mansioni cognitive ad alto valore aggiunto. Serve quindi capacità di visioning e programmazione. Nei megatrend di scenario sul lavoro per i prossimi 100 anni, infatti, entrano in ballo moltissime variabili: non esiste un futuro predeterminato ma più “futuri” possibili. Lavorare alla transizione tecnologica, comprendere le competenze che serviranno nel futuro, ripensare tempi e spazi di lavoro, lavorare ad un nuovo sistema educativo e ad un nuovo sistema di rappresentanza e dei diritti sarà fondamentale per il futuro del nostro paese e della nostra democrazia.
Non dobbiamo difendere ad oltranza l’esistente, bensì progettare il futuro come se dovessimo scrivere su un foglio bianco, sperimentando e trovando soluzioni inedite, esplorando le potenzialità connesse alla blockchain, come gli smart contract.
Esiste sicuramente una parte del lavoro che sarà tagliata fuori dalla trasformazione tecnologica, specie nell’ambito delle mansioni ripetitive. Questa transizione dovrà essere gestita, ma sappiamo anche che ne verrà creato di nuovo a più alto valore aggiunto e umanamente più appagante.
Il nostro compito, allora, deve essere quello di gestire questo processo e accompagnare le persone più fragili non lasciandole indietro, cogliendo le opportunità che la rivoluzione digitale sta portando nel mondo. Investire sull’innovazione è la chiave per non farci trovare impreparati a questa svolta. Se si sceglie di tagliare e di chiudersi in difesa, scegliendo l’assistenzialismo allo sviluppo, si vinceranno le elezioni, ma prepariamoci a pagare un conto sociale ben più salato in termini di occupazione, salari e sviluppo.
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