Ad un osservatore attento non sarà certo sfuggito come termini quali “big data“, “machine learning” e “intelligenza artificiale” abbiano ormai invaso il campo dei media tradizionali, uscendo dallo spazio riservato alle riviste specializzate. L’utilizzo di queste definizioni non è casuale, tutt’altro. Il diffondersi di queste parole è frutto di un cambio di paradigma del contesto competitivo con cui le imprese italiane dovranno sempre più confrontarsi.
Questo nuovo scenario rappresenta un’occasione preziosa per quelle imprese che vogliono affermarsi come leader di mercato o per mantenere la posizione conquistata. I “big data”, e lo sviluppo di nuove tecnologie capaci di sfruttarli ed analizzarli in tempo reale, divengono un asset che permette la creazione di soluzioni capaci di influenzare il funzionamento dei mercati e dunque, le imprese che vogliono crescere devono fare propria l’opportunità presentata dal diffondersi delle tecnologie di “advanced analytics”.
Dati e conoscenza del contesto
Al di là dei termini ricorrenti, la potenzialità dei dati si riassume in un concetto chiave: assicurare la conoscenza del contesto in cui la propria azienda si muove.
In questo senso i “big data”, e gli strumenti che ne permettono la loro analisi, non sono solo caratteristica propria di giganti tecnologici come Google o Facebook. Secondo l’Osservatorio di Big Data Analytics & Business Intelligence del Politecnico di Milano, nel 2017 gli investimenti delle imprese in analytics hanno raggiunto un valore complessivo di 1,1 miliardi di euro e, sebbene sia predominante il ruolo delle grandi imprese, le PMI determinano il 13% del totale dell’investimento di mercato, registrando un aumento del 18% rispetto all’anno precedente (Fonte: Osservatorio di Big Data Analytics & Business Intelligence della School of Management).
Vantaggi da big e open data anche per le PMI
Dunque anche le realtà imprenditoriali di dimensioni più ridotte possono sfruttare i vantaggi competitivi che queste tecnologie offrono, per motivazioni che di seguito e proviamo ad inquadrare.
Quando si legge che una qualsiasi impresa può trarre vantaggio da un miglior sfruttamento dei dati immediatamente disponibili, di quali dati si sta parlando?
Per le aziende non saranno sconosciuti esempi relativi ad anagrafiche clienti, dati di vendite, rimanenze di magazzino, turnover del personale. Spesso queste informazioni sono usate come KPI aziendali oppure come elementi riportati in dashboard destinate al top management.
Se adeguatamente sfruttati questi dati possono rivelarsi come una risorsa importante per l’azienda, ancor più quando letti in correlazione tra loro.
E qualora i dati a disposizione e la loro correlazione non bastassero a rispondere alle domande del business, per l’imprenditore attento sarà importante valutare le potenzialità dei cosiddetti “dati open”, ovvero quei dati che sono resi disponibili per una loro fruizione pubblica.
È così che un decisore, se guidato nella direzione del business da esperti di dominio, potrà ottenere degli insight utili per l’azienda utilizzando fonti immediatamente disponibili. Ad esempio, qualora l’azienda intenda sviluppare un piano di investimento verso l’estero, un esperto di open data potrebbe verificare quali dati di export esistono relativamente a settori merceologici di interesse e valutare se il mercato target sia davvero attrattivo oppure se risulti già saturo.
Parlando di informazioni rilevanti per il business, è doveroso ricordare che il sistema camerale mette a disposizione i dati certificati di tutte le imprese italiane, un asset informativo di rilevanza nazionale per comprendere la natura delle imprese con cui si fa business e che rende accessibili i dati di circa 6 milioni di imprese, di 10 milioni di di persone che ricoprono cariche o possiedono quote in società italiane, e circa 950 mila bilanci depositati ogni anno.
Il valore dei “dark data”
Ma non solo dal mondo esterno possono provenire le informazioni di interesse per il business Spesso le aziende dispongono di una grande quantità di dati ma poche sono le imprese sanno farne buon uso: sono i cosiddetti “Dark Data”, ovvero dati di cui l’azienda non è pienamente consapevole e che anche per questo non vengono adeguatamente valorizzati. Una conferma a questo fenomeno arriva dall’Istat, secondo la quale in Italia solo il 3% delle imprese analizza i dati provenienti da dispositivi intelligenti e sensori o big data di geolocalizzazione derivanti da dispositivi portatili, percentuale che scende al 2,6% se si considerano le imprese che analizzano i dati provenienti dai social media o fonti di altra natura (fonte: Istat, Rilevazione sulle tecnologie dell’informazione e della comunicazione nelle imprese).
Si pone un problema di consapevolezza e dunque di cultura aziendale nell’utilizzo del dato: dataset per cui non esiste una documentazione, spesso noti solo a poche persone in azienda e su cui non si è ancora fatta una riflessione in termini di possibile utilizzo possono rappresentare una vera e propria “liability” informativa che l’impresa porta con sé. Ecco perché è necessario “far ordine in casa”, prima di investire in risorse analitiche evolute.
Accessibilità dei metodi di advanced analytics dei big data
D’altra parte i metodi di “advanced analytics” dei big data sono più accessibili di quanto si pensi. È vero che fino a pochi anni fa la possibilità di utilizzare tali tecniche era appannaggio di pochi specialisti ma oggi, anche grazie agli sforzi di diverse comunità open source, gran parte dei principali algoritmi di analisi sono fruibili da persone con competenze di dominio, anche solo iniziali. Ci si riferisce, ad esempio, ad algoritmi che permettono di raggruppare i propri clienti in relazione alle caratteristiche richieste da un decision maker, oppure alla capacità di predizione dei volumi di vendite di un sistema produttivo, o ancora alla possibilità di verificare costantemente l’impatto di una campagna di marketing sulle scelte di acquisto dei propri clienti.
La conoscenza tecnica richiesta per implementare queste analisi diviene sempre più accessibile e sebbene non si possa affermare che chiunque oggi è in grado di sviluppare cruscotti di analisi evoluta del dato, sicuramente queste capacità possono e devono essere integrate nelle migliori pratiche di governance delle decisioni di una azienda.
Per intraprendere questa direttrice, per sfruttare le potenzialità dell’analisi dei big data, è necessario definire e perseguire una “analytics roadmap”, che preveda di ripensare i propri processi aziendali ed i ruoli nell’impresa, al fine di identificare, catalogare e valorizzare l’informazione disponibile.
Big data e aumento della produttività
Tale roadmap richiede cambiamenti tecnologici (almeno in parte) e, soprattutto, culturali, diventando un’occasione per intervenire nelle dinamiche del business e per generare opportunità che ancora non siano state esplicitate. I vantaggi di questo processo possono essere significativi, non solo per i risparmi che ne potrebbero derivare ma anche in termini di maggior produttività.
In tal senso, secondo uno studio realizzato da Nomisma, il 71,4% delle imprese che introducono l’utilizzo dei big data riescono ad aumentare la produttività o il fatturato e a sviluppare nuovi processi e prodotti.
Nel perseguire la roadmap sopra indicata va certamente considerato come, in particolare per le PMI, il principale ostacolo alla digitalizzazione sia la scarsa diffusione di competenze digitali fra il personale incaricato di gestire i processi di innovazione (Fonte: Osservatorio di Big Data Analytics & Business Intelligence della School of Management).
Secondo i risultati del sistema informativo Excelsior, realizzato da ANPAL ed Unioncamere, nel 2017 le competenze digitali (i cosiddetti e-skills) sono state tra le più ricercate dalle imprese, con una percentuale del 63% su di un totale stimato di oltre 4 milioni di posizioni di lavoro previste dalle imprese stesse (Fonte: UnionCamere, progetto Excelsior, competenze digitali 2017).
Investire nei big data risparmiando tempo e risorse
Agli imprenditori che decidono di investire nei big data è opportuno segnalare che avvalersi dell’esperienza e delle competenze di chi ha già un buon grado di maturità su questi temi può evitare di dover attendere almeno due o tre anni per completare la formazione di personale interno all’azienda. Superare atteggiamenti di diffidenza e affidarsi a società esperte per sviluppare dei progetti pilota da introdurre in azienda potrebbe far risparmiare del tempo prezioso, minimizzando i costi dell’investimento. Vanno, inoltre, considerate altre soluzioni come lo sviluppo di partnership con università, start-up o “hub” di talento che si vanno diffondendo nel mondo degli advanced analytics, così da accelerare la creazione di profili esperti interni all’azienda per assicurarsi la capacità di generare una profonda conoscenza delle informazioni disponibili nella propria impresa e trasformarla in vantaggio competitivo.
È evidente che la scelta di investire in competenze di analisi evoluta del dato deve essere una scelta avvalorata da una vision di lungo periodo, consapevoli che un cambiamento di questo tenore non avverrà dall’oggi al domani, che le aspettative dei propri stakeholders saranno elevate e che le difficoltà tecniche non tarderanno a mancare.
Eppure, lo dico nuovamente, l’impatto di questo cambiamento potrebbe essere esponenziale: ce lo dicono i dati…