innovazione digitale

Chi è il Chief Digital Officer, “maestro” del rinascimento digitale

La missione del Chief Digital Officer è portare innovazione su tutti i processi gestionali e liberare la capacità di evolvere in un periodo di profonda trasformazione. In Italia è una figura ancora pressoché sconosciuta. Ecco cosa fa, qual è il percorso formativo e quali metodologie, tecnologie e principi utilizza

Pubblicato il 19 Feb 2020

Alessandro Lavarra

IPway - Network and Cybersecurity Provider

digital tranformation2

Chi è e cosa fa il Chief Digital Officer? Parliamo di una figura, forse poco conosciuta, ma strategica che risponde direttamente al CEO dell’azienda.

La sua missione è portare innovazione su tutti i processi gestionali e liberare la capacità dell’organizzazione di evolvere in un periodo di profonda trasformazione. Non è un tecnico, non sostituisce le figure IT, e non è un Innovation Manager, più orientato invece alla innovazione di prodotto.

Spesso il punto di ingresso per il suo ruolo è la gestione dei canali di vendita online o la necessità di sviluppare offerte commerciali legate a temi della trasformazione digitale, per esempio nel settore bancario dove i modelli di business si stanno evolvendo rapidamente.

Chief digital officer, chi è: una figura orientata ai risultati e al mercato

Negli Stati Uniti i  Chief Digital Officer sono professionisti ben pagati che siedono al fianco degli amministratori delegati delle big company per traghettarle nel futuro o fuori dalle sabbie mobili. I CDO fanno sì che business apparentemente solidi non finiscano per offrire un’alternativa alla solita Blockbuster negli esempi di società travolte dalla digital transformation.
In Italia a parte qualche eccezione virtuosa è un profilo quasi del tutto sconosciuto.

Un interessante report internazionale di Egonzhender, società di consulenza e recruiting per figure executive, ha analizzato le sfide e le aspettative molto ambiziose della prima generazione (l’84% degli intervistati ricoprono un ruolo prima inesistente nella loro azienda) di questo nuovo manager della trasformazione digitale. Dallo studio emerge che le caratteristiche del CDO sono più legate alla cultura dell’innovazione, alla leadership  e ai principi del management snello più che alla tecnologia. La maggioranza degli intervistati dichiara infatti che ha investito il proprio tempo soprattutto per evangelizzare e spingere per l’accettazione del cambiamento rispetto all’esecuzione della strategia. (CDO Decoded: The First Wave of Chief Digital Officers Speaks – Egonzehnder)

Il percorso formativo dei Chief Digital Officer 

Ma qual è il percorso formativo di elezione per questi nuovi professionisti dell’innovazione? Non esistono università che preparino i CDO, sia perché si tratta di una figura molto recente sia perché bisogna possedere una preparazione trasversale articolata. I CDO sono infatti un mix di competenze, sono manager con visione strategica, senso pratico, sensibilità umanistica, innamorati della tecnologia ma non fissati con una in particolare.

Non è facile formare un professionista simile che, tra l’altro, fa dell’incertezza il proprio ambiente naturale e il cui orientamento all’innovazione lo porta sempre un passo oltre il già noto. Alcune società di formazione si stanno attrezzando: il Digital Transformation Master di Talent Garden, corso di specializzazione che ho avuto il piacere di frequentare, è molto attuale e ben progettato e sta ricevendo segnali incoraggianti in Italia e in Europa.

I CDO, maestri di un moderno rinascimento digitale

I CDO hanno alcuni prerequisiti di partenza ma sostanzialmente crescono sul campo. Si formano nelle botteghe dell’innovazione, maneggiano molte discipline come dei maestri di un moderno rinascimento digitale. E come nel rinascimento sono sperimentatori multidisciplinari guidati dalla centralità dell’uomo.

Mi piace molto l’espressione “Rinascimento”, richiama molto più ottimismo che non “trasformazione” o “rivoluzione” ed è molto evocativa. Immagino artigiani delle tecnologie che danno vita a “capolavori”. Prodotti, applicazioni, strumenti e servizi che ieri erano semplicemente impensabili e che da un giorno all’altro stravolgono gli stili di vita delle persone e riscrivono radicalmente i canoni del nostro tempo.

 Le competenze dei chief digital officer

Ma quali sono le arti dei CDO? Provo, elencando a braccio un po’ di buzzword di questo mondo, a fissare qualche concetto in una lista casuale e disordinata di metodologie, tecnologie e principi, con lo scopo di sentire, attraverso le parole, che aria si respira nelle botteghe del rinascimento digitale.

Agile e Lean

Il manifesto Agile, con le persone al centro, il superamento delle gerarchie e dei processi, che fanno tanto burocrazia, lo spiccato senso pratico e l’abbattimento di qualsiasi barriera tra ruoli clienti/fornitori/dipendenti/management,  è il soffio vitale. Umanità, senso pratico, rapidità, adattamento sono i requisiti dell’azione del CDO. Il pensiero snello con il coinvolgimento delle persone, il miglioramento continuo, il focus sul risultato completano il quadro. Tutto è agile e snello nel mondo del CDO: dallo sviluppo del software, ai contratti, ai rapporti interpersonali. SI guarda alle persone e alle attività che portano Valore. E del Valore con la V maiuscola parleremo specificatamente.

Change management 

Rivoluzioni e trasformazione, inutile dirlo, vanno governate con competenza. La digitalizzazione richiede una cultura di impresa nuova e coraggiosa per il governo dei processi gestionali e produttivi, delle relazioni con clienti e fornitori e, importantissimo, nella gestione delle persone. Non a caso il ruolo dell’HR è uno dei più coinvolti in questo cambiamento. Tutto deve tendere al superamento di inefficienze e freni per liberare creatività e innovazione. Niente burocrazia e cura delle necessità del personale, anzi più propriamente, delle persone.

Startup thinking

I processi gestionali e operativi anche delle aziende più grandi e articolate devono avere le dinamiche proprie delle startup. Nel caso di organizzazioni complesse saranno individuati settori, progetti o servizi specifici in cui poter sperimentare come fossero aziende innovative dentro l’azienda. Tutto quello che si dimostrerà vincente, man mano scalerà a tutta l’organizzazione. Ma esistono anche esempi di multinazionali che con coraggio hanno affrontato pericolose stasi ridisegnando in toto l’intera compagnia, grazie ad approcci innovativi a problemi complessi. Uno dei testi che racconta bene i processi fluidi e veloci dello Startup thinking è il celebre “Partire leggeri: Il metodo Lean Startup” di Eric Ries.

Design Thinking

Fare le cose belle, innovative, funzionali e con la persona al centro ha da sempre rappresentato lo scopo del design. Nel digitale non c’è differenza. Così che si parla di Design per tutto, Design dei servizi, delle procedure, dell’informazione… tanto che possiamo direttamente parlare dell’approccio o del pensiero in stile Design. Il Design Thinking appunto.

Dalle modalità collaborative per far emergere idee nuove, alla cura del dettaglio estetico e funzionale, tutto nella Trasformazione Digitale richiama i principi del Design, in particolare, la centralità delle persone destinatarie del valore che intendiamo produrre.

Mappe e Canvas

Il CDO deve capire i fenomeni, far emergere idee e ipotesi, illustrare e stimolare i contributi di gruppi di lavoro eterogenei.

Niente di meglio degli strumenti analogici. Visivi, pratici ,veloci e collaborativi, i rotoli di carta, i Canvas, post-it e pennarelli danno vita a colorate riunioni attorno a Blue print, User Story, Business Model, e l’elenco potrebbe continuare aprendo un mondo di strumenti e metodi. Sono strumenti di lavoro insostituibili, semplici e immediati,  alcuni sono veri e propri standard riconosciuti, come il Business Model Canvas di Alexander Osterwalder fondatore di Strategyzeer, altri, metodi creativi più di nicchia come l’Event Storming messo a punto dall’italiano  Alberto Brandolini.

Ipotesi e ipotesi verificate

Per immaginare qualcosa che non esiste è necessario formulare delle ipotesi e per non lavorare su ipotesi campate in aria è necessario metterle alla prova. L’innovazione si fonda sulle idee e sulle intuizioni, è vero, ma il business si fonda solo su quelle che poi saranno utilizzate. Le persone saranno disposte a pagare molto più di quanto facevano in passato per ascoltare musica senza possederla quando ormai possono averla gratis o quasi? Questa era l’ipotesi di Spotify, è stata verificata e poi, beh la storia la conosciamo. Tanto più l’ipotesi è innovativa tanto più non avrà riferimenti per essere analizzata e richiederà quindi un’attenta fase di verifica e i corretti strumenti per farlo.

Prototipi 

Figlia del meccanismo ipotesi e verifica appena raccontato, la prima preoccupazione dell’innovatore è di avere in mano un artefatto da mettere nelle mani di persone in carne ed ossa, i veri destinatari del prodotto.

Non si tratta di dettagliare o elencare caratteristiche, fare presentazioni in power point o realizzare prodotti dalla gestazione lunghissima. Si tratta di realizzare qualcosa da far provare. Dal prototipo di carta e cartone (letteralmente) a quello che simula fedelmente il reale funzionamento di un intero applicativo c’è un mondo di fantasia e strumenti. Più azzardata è la cosa da testare più economico e veloce sarà il prototipo.

Minimum Viable Product (MVP)

Oggi la velocità con cui cambia lo scenario in cui ci muoviamo impone di arrivare sul mercato con un’idea il più presto possibile. Presto per non veder invecchiare il nostro prodotto prima che sia realizzato, presto prima di spendere capitali per cose che nessuno vuole. La risposta a questo bisogno è l’MVP, il prodotto minimo funzionante. Niente prodotti minuziosamente ingegnerizzati, niente eterne raccolte di specifiche destinate ad essere sempre incomplete o lunghissime attese per qualcosa di definitivo, bensì  il prodotto funzionante con le funzionalità minime per soddisfare i bisogni degli early adopter. Un buon MVP permette di iniziare a generare ricavi, testare le ipotesi, raccogliere i feedback e indirizzare lo sviluppo sulle reali aspettative delle persone. (L’MVP è alla base della strategia Lean Startup di Ries citato prima).

Minimum Lovable Product

Il Minimum Viable Product (MVP) che abbiamo appena visto ci permette di testare in fretta e a basso costo le funzionalità più critiche con un platea di utenti disponibili e tolleranti, i così detti Early Adopter. Ma per un prodotto non è sufficiente essere funzionante e usabile per essere effettivamente usato da grandi numeri di utenti. Perché si diffonda è necessario che possieda quella caratteristica in più da renderlo “amabile” e quindi garantirne un’adozione virale. Per far questo, alle caratteristiche minime di funzionalità dell’MVP, sarà necessario aggiungere una spruzzatina di emotional design per ottenere quello che un tempo si chiamava effetto wow. La teoria del MLP è stata descritta da Scott Hurff nel suo “Designing product that people want”.

Fallimento

La famosa battuta “fail fast” non è un’esortazione a lanciarsi in imprese spregiudicate e non è la cultura smaliziata con cui gli startupper statunitensi aprono e chiudono società. Il principio del fallimento veloce si ricollega agli strumenti raccontati sopra (prototipi, MVP, MLP). L’idea è quella di anticipare il più possibile l’eventuale verdetto del mercato su una nostra ipotesi. Tanto prima l’ipotesi fallisce tanto prima io potrò cambiare strada ed evitare investimenti in tempo e denaro per una un’idea fallimentare. Fallire si ma avendo investito solo il minimo indispensabile grazie ai prototipi, MVP o qualsiasi altro stratagemma.

Iterazioni, Continuous innovation (Continuous delivery, learning, design…)

Il processo di innovazione lo abbiamo già capito è fatto di ideazione, realizzazione, test, feedback, implementazione. Ad ogni ciclo di rilascio al mercato si raccoglieranno feedback, spunti e nuove idee per il suo miglioramento in un ciclo potenzialmente infinito.

Non abbiamo neanche idea con che rapidità – decine di cambiamenti al giorno! – i grandi servizi online rilasciano e testano funzionalità facendo evolvere le piattaforme in modo a volte impercettibile.

Tutto nell’innovazione è in movimento veloce e il principio del continuous pervade tutto. Il mondo cambia, gli utenti cambiano, le abitudini cambiano, le leggi, le tecnologie … è quindi necessario, ma è anche un’opportunità, continuare a raccogliere dati, fare ipotesi, testarle e innovare.

Disruptive

Disruptive, dirompente. Il risultato di un processo innovativo vincente risulterà dirompente per tutti i portatori di interesse del suo mercato e spesso anche per i mercati confinanti. Niente evoluzione incrementale di prodotto, il pensiero innovativo punta a far uscire dal cilindro qualcosa di completamente inaspettato e improvvisamente necessario a tutti. Le innovazioni disruptive fanno crescere i profitti rapidamente e altrettanto rapidamente tolgono mercato ai business tradizionali che sono colpiti dal cambiamento. Uber e i taxi, airbnb e l’ospitalità tradizionale, Spotify e il mercato musicale, Google Maps e i navigatori portatili. Ma gli esempi sono moltissimi e non è ancora finita, nessuno è al sicuro, un prodotto disruptive potrebbe travolgere chiunque con un preavviso davvero minimo.

(Proprio mentre rileggo la bozza di questo articolo apprendo della morte di Clayton Christensen l’economista che ha inventato il termine Disruptive Innovation).

Cynefin e la gestione del “complesso”

Il framework “Cynefin” messo a punto da tal Dave Snowden aiuta a valutare la situazione che siamo chiamati a gestire e a scegliere gli approcci più adatti. Secondo il framework un sistema può essere complesso, complicato, semplice, caotico o, quando non si capisce dove stia, disordinato,  Ognuno di questi stati richiede un determinato approccio. In particolare il “complicato” può essere affrontato attraverso un processo di Valutazione, Analisi e Risposta mentre il Complesso richiede di Sperimentare, Valutare e Rispondere. Sperimentare e poi valutare è l’approccio corretto per l’innovazione digitale dove i sistemi in gioco sono complessi e non semplicemente complicati. Non deve ingannare l’apparente ossimoro. Il complicato può essere studiato e analizzato e quindi decodificato, il complesso è un sistema più imprevedibile e le soluzioni non determinate. Tutti i cicli di ideazione e validazione, prototipazione e test si rifanno a questo bisogno.

Valore

Se chiederete ad un CDO con che metrica giudica un prodotto, un’azione, una qualsiasi iniziativa dirà senz’altro in base al valore che genera. Ma che cos’è questo valore? Non sicuramente e soltanto il mero valore economico.

Il valore è il beneficio, il vantaggio, è qualcosa che accorcia le distanze da dove sono a dove vorrei essere. Tanto più qualcosa mi avvicina all’outcome atteso tanto più alto sarà il suo valore. Quindi il valore è misurabile solo se abbiamo chiaro qual è il beneficio atteso. La Value Proposition è l’esatta identificazione e sintesi del valore che intendo portare alle persone che compongono il mio mercato target.

Focus sull’outcome e non sull’output

Output e Outcome alla traduzione letterale potrebbero sembrare sinonimi. Sono entrambi “risultati” ma di tipo profondamente diverso. Output rappresenta il risultato di una determinata azione o processo, la diretta conseguenza di un input, Outcome descrive invece l’esito, il cambiamento impresso dall’azione al sistema. Per fare un esempio, l’output di un corso di lingue sono le ore di lezione erogate, l’outcome sarà la capacità ottenuta dagli studenti di comunicare in un’altra lingua, o ancora, l’output della biglietteria di Trenitalia è il biglietto del treno, l’outcome sarà il fatto che tra qualche ora mi ritroverò in un’altra città. L’innovazione non deve pensare al prodotto che realizza (output) ma agli esiti che genera (outcome), del resto  all’utente interessa ottenere il proprio outcome (andare a Roma) non la sequenza di output (come avere tra le mani il biglietto) che sono solo risultati intermedi.

Star with “Why”

La motivazione che ci spinge all’azione è sempre la più preziosa benzina.

Chiederci “il perché” è rilevante nell’innovazione, per questo questa celebre esortazione di Simon Sinek è qui. Per intraprendere trasformazioni e rivoluzioni che trascinino anche gli altri è necessario sapere il perché lo facciamo. Non dobbiamo raccontare cosa e come vogliamo fare qualcosa, tra l’altro non sempre lo sappiamo a priori visto che stiamo innovando, ma dobbiamo essere spinti dal perché vogliamo farlo. Il mondo dell’innovazione è ricco di risposte alla domande “perché” è sono sempre risposte ambiziose. Tipo “lo faccio perché intendo cambiare il mondo”.

Anche i Designers del Team Digitale del governo italiano, per esempio, hanno deciso di aprire il loro sito con l’ambiziosa risposta al why? e descrivono così il loro lavoro: “Disegniamo servizi digitali semplici per risolvere i problemi dei cittadini e restituire il buon umore” e se non è ambizioso questo trattandosi di servizi della PA!

Tecnica dei 5 whys

Di fronte a un problema siamo portati a prendere in considerazione solo l’istanza con cui il problema ci viene raccontato. Per esempio un utente potrà dichiararsi insoddisfatto per l’uso di un applicazione, ma questo non ci suggerisce nessuna causa precisa. Sfoderando il nostro primo perché possiamo capire qualcosa di più e l’utente potrà dirci quale azione nell’uso dell’applicazione non funziona, continuando potremmo sapere esattamente quale aspettativa o bisogno l’applicazione non soddisfa e perché. Lo scopo è individuare l’esatto punto in cui intervenire che potrebbe essere anche al di fuori dal contesto e su cui sarà possibile rimisurare la soddisfazione dell’utente. Fermarsi alle prime risposte ci farà concentrare su funzioni specifiche e sui loro output e non sugli esiti disattesi, i nostri famosi outcome. Chiedere perché, può sembrare banale invece è una abitudine mentale molto efficace. Non per nulla il primo teorico dei 5 perché fu Sakichi Toyoda fondatore di quella Toyota celebre per essere stata la culla del pensiero Lean.

Big Data e Data Science

La Trasformazione Digitale ha generato una proliferazione di dati inimmaginabile. Non possiamo nemmeno descrivere quale sia il ritmo produzione al secondo in tutto il mondo di tutti i dati generati da utenti e sistemi. E questi dati crescono senza sosta.

Siamo nell’epoca in cui i dati sono paragonati al petrolio, giacimenti sterminati di informazioni in continuo incremento che attendono solo un modo di essere interpretati, elaborati, utilizzati.

In questo mare nuotano i Data Scientist, matematici un po’ creativi e un po’ sociologi. Tutto oggi produce e si nutre di dati, per mappare la realtà, come il marketing, o proprio per funzionare, come per l’intelligenza artificiale, che ha bisogno di nutrirsi letteralmente di informazioni, dati e casi.

Oggi più che mai le big company del tech raccolgono dati e sono disposte a offrire servizi gratuiti pur di garantirsi fonti inesauribili.

Data driven, KPI

Senza lasciarsi stordire dall’onda travolgente dei Big Data, la raccolta e l’analisi dei dati deve comunque rimanere una disciplina esercitata da un CDO. Il digitale traccia, raccoglie, accumula informazioni e dati e queste sono lo strumento più prezioso per prendere decisioni non istintive ma guidate da evidenze precise. Indicatori e informazioni sono strumenti di controllo e decisione sempre più sofisticati ed è indispensabile affidarsi ad essi. Sembra impossibile come ancora moltissime scelte siano guidate più dall’istinto imprenditoriale che dall’analisi dei dati. Tutti i metodi per innovare fatti di ipotesi, prototipi e feedback si alimentano dei dati di utilizzo per i successivi cicli di produzione.

Cybersecurity

Abbiamo visto come la nostra economia si basi su dati, tonnellate di dati, e sistemi informativi pervasivi. Ormai anche il termostato di casa aggrega un’infinità di informazioni su di noi ed è raggiungibile da remoto diventando quindi un bersaglio potenzialmente vulnerabile. Se moltiplichiamo questa vulnerabilità per dati e sistemi personali, bancari, medici, industriali, governativi, militari possiamo capire la necessità di protezione. Oggi il nostro Cyberspazio non è più chiuso nel nostro server ma è fuso con la nostra vita fisica di tutti i giorni, va dall’Intelligenza Artificiale che guida la nostra auto, all’orologio che indossiamo, agli apparati medicali, ai servizi della nostra banca a tutti i dispositivi connessi. Non si farà mai abbastanza per la nostra sicurezza vista l’ampiezza dell’area da difendere.

API economy

Abbiamo visto fino a qui che sono necessarie cultura dell’innovazione e metodologia ma ovviamente a un certo punto entra in gioco anche la tecnologia. Una delle architetture tecnologiche abilitanti per i prodotti digitali trasformativi è l’architettura per API. Queste architetture a servizi, che disaccoppiano front end e back end e che permettono una grandissima collaborazione tra sistemi e anche tra aziende, vengono sempre più sfruttate per trasformare i modelli di business e sono quindi interessanti non solo per i tecnici architetti del software ma per gli amministratori delegati e i decisori strategici. Ancora una volta la tecnologia si valuta per il valore che permette di generare e non per le sue caratteristiche.

Artificial Intelligence AI

L’intelligenza Artificiale sembra essere una prospettiva futura che cambierà le nostre vite, che sconvolgerà il mondo del lavoro che riscriverà la storia dell’uomo. Tutto giusto, tranne l’uso dei verbi al futuro. L’intelligenza Artificiale è viva e lavora tra noi. E’ negli assistenti virtuali nei telefonini, sui nostri comodini, è nelle funzionalità di traduttori simultanei, di automobili che si guidano da sole, dei software che riconoscono e classificano per noi le nostre foto, negli algoritmi predittivi che simulano la nostra capacità decisionale, nei consigli dei prodotti da acquistare, nelle copertine delle serie TV che vengono modellate e realizzate dinamicamente sui nostri comportamenti. Giorno dopo giorno collaboriamo e interagiamo sempre di più con queste intelligenze senza accorgercene, senza sapere nulla di Deep Learning, Reti Neurali o Data Mining, che sono il retroscena tecnologico del nostro quotidiano..

Etica

In una fase di grande cambiamento, di vera e propria rivoluzione, dove la tecnologie corrono molto più velocemente del nostro adattamento, il dibattito etico è un dibattito per nulla scontato. Siamo sempre ottimistici nel giudicare la tecnologia in realtà dobbiamo pensare anche a possibili scenari distopici.

Un algoritmo predittivo sulle probabilità di contrarre una malattia potrebbe essere utile per la prevenzione oppure potrebbe essere utile per un governo ai fini di decidere se garantirci o meno le cure. In Cina si sono affermate pratiche di monitoraggio delle persone attraverso le quali il governo è in grado di valutare il comportamento dei cittadini e attribuire un punteggio sociale (Social Credit System) con cui decidere di quali diritti una persona può più o meno godere.

Non abbiamo ancora gli anticorpi normativi, etici e culturali per lasciar correre l’innovazione del tutto a briglia sciolta.

Collaborazione etica

In uno scenario così complesso e in rapida evoluzione, per estrarre il maggior valore possibile dall’interazione tra le persone è necessario costruire rapporti improntati sulla fiducia reciproca e sulla collaborazione. Lo sviluppo di progetti di cui si conosce il punto di partenza ma non l’esito finale, la libertà di sperimentare, il lavoro non facilmente misurabile dei knowledge worker, l’abbattimento delle gerarchie, la flessibilità del lavoro, impongono la costruzione di relazioni snelle fondate sul rispetto reciproco e  sull’orientamento alla qualità rilasciata.

Il principio di Team, di gruppo di lavoro,  si estende a tutti gli attori del progetto, dipendenti fornitori, clienti  e si superano le burocrazie, il bisogno di controllo e di misurazione.

A volte per  permettere a tutti di concentrarsi sulla generazione di valore è necessario anche fare a meno della falsa sicurezza dei contratti tradizionali sempre troppo rigidi, difensivi, scritti per manifesta mancanza di fiducia (il tema è ben affrontato da Jacopo Romei nel suo Extreme Contracts: Il knowledge work dalla negoziazione alla collaborazione).

Del resto un atteggiamento rinascimentale non può essere che ottimista e aperto agli altri.

Ovviamente l’elenco per quanto nutrito non può esaurire una disciplina così ampia, fatta, lo ripetiamo non solo di tecnologia ma di tantissima cultura di impresa, ma senz’altro si possono capire le caratteristiche innovative di questa delicata figura manageriale.

Oggi, in Italia, il ruolo è ancora in fase sperimentale e spesso le aziende si rivolgono a consulenti esterni per portare cultura. E’ chiaro, però, che l’evangelizzazione è solo il punto di partenza per poter effettivamente orientare l’azienda al nuovo e questo è possibile solo dall’interno muovendo leve di business strategiche in accordo con i decisori più altri.

Il CDO deve avere la fiducia del management, gestire budget e avere autorevolezza nella ridefinizione di processi chiave nella vita dell’azienda. Non a caso i CDO intervistati nella ricerca citata immaginano il loro futuro come fondatori e amministratori di imprese innovative.

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