Un decreto congiunto del MISE e del MEF ha finalmente dato avvio, lo scorso 9 gennaio, alla procedura per la creazione dei Centri di Competenza ad Alta Specializzazione, previsti dal Piano “Industria 4.0”, annunciato dal Ministro Calenda oltre un anno fa. Qualche giorno fa poi, coerentemente con quanto era previsto nel provvedimento in questione, è stato emanato il decreto attuativo con una sorprendente tempestività per chi è abituato ad una tradizione di ritardi e dilazioni.
LEGGI TUTTI I DETTAGLI SUI COMPETENCE CENTER
Uno dei giornali ritenuti più autorevoli, con un entusiasmo non trattenuto, si è spinto fino a definire i Centri di Competenza come una sorta di “risposta italiana” al modello tedesco del Fraunhofer Geshellshaft. Ha colto nel segno, perché essi possono essere effettivamente visti come un’espressione tipica della cultura e del mindset manageriale prevalenti in Italia. L’augurio è che possano essere i protagonisti del “Industrial Renaissance”, del “Genio Italico” e così via, anche se è passato qualche secolo da quando il nostro Paese è stato centro propulsore di cultura e scienza per tutto il mondo allora conosciuto. Il panorama attuale non sembra corrispondere a quello di un “reattore culturale”, nonostante punte di grande rilievo sul piano tecnico-scientifico.
Punti di forza e debolezza
Comunque sia, analizziamo il decreto cercando di metterne in evidenza – con intenti propositivi- i punti di forza e gli aspetti più problematici. Lo stile e lo spirito di tale decreto sono indubbiamente autoctoni: la formulazione giuridica della procedura per la costituzione e l’ispirazione di fondo, ovvero l’idea di definire un’architettura organizzativa in termini al tempo stesso generale e generici, sono inconfondibili. Se si visita il sito web del Fraunhofer si ha la percezione immediata di un mondo nettamente diverso: orizzonti strategici e tecnico-scientifici ben definiti e distribuiti in 68 aree della Germania, veri e propri centri di progettazione innovativa insieme alle imprese, e così via.
Per i nostri costituendi Centri di Competenza è invece delineato una specie di processo bottom-up di aggregazione tra Università, Centri di Ricerca e Imprese, con i primi scelti –con appropriato criterio- tra quelli che sono stati recentemente compresi in una lista di 180 Dipartimenti di Eccellenza del mondo universitario nazionale. Il ventaglio di attività ipotizzato per i Centri (art.1, lettere g,h,i del decreto di inizio Gennaio, ovviamente confermato in quello attuativo) è decisamente ampio e si basa sul coinvolgimento diretto delle imprese private, mentre la presenza pubblica non può superare il 50%: Essi saranno inoltre verosimilmente dotati di una vera e propria struttura, che gestisce, regola, controlla e verifica l’attività svolta dai partners.
A questo punto si impone una prima riflessione: non è che si rischia di creare una serie di entità burocratiche, che si aggiungerebbero all’architettura esistente nel campo dell’innovazione, distribuita e disarticolata tra mille interessi e aggregazione di micro-poteri? Questo non vuole essere un giudizio negativo, bensì uno stimolo a riflettere bene sulla natura di ciò che si viene a creare e a spingere verso un modello manageriale agile e ridotto all’essenziale. Probabilmente questa considerazione è indotta dall’osservazione delle deprimenti realizzazioni del passato, quindi si spera di non dover imparare l’ennesima lezione. Si tratta dunque di realtà virtuali, cioè aggregazioni strategico-progettuali con un minimo apparato funzionale, oppure di nuove entità reali, destinate ad una progressione elefantiaca? Ad esempio, per le Università partecipanti, selezionate nell’elenco dei 180 Dipartimenti, viene indicato un impiego di personale e strutture per almeno il 70% nell’attività del Centro. Si impone una domanda: la dotazione di capitale fisico ed umano cui ci si riferisce svolgeva già un certo tipo di attività, oppure dovrà seguire una nuova traiettoria strategica ed operativa? Il quesito non deriva da un pregiudizio, ma dall’esperienza di come funzionano i Dipartimenti universitari. Può essere alto il rischio di inefficienza, a meno di essere sicuri che le strutture esistenti siano già dotate di qualcosa di simile alla pluripotenzialità attribuita dai biologi alle cellule staminali. Questo dilemma verrà ripreso in seguito.
Per quanto concerne il programma di attività dei Centri, sono previsti tre fondamentali direttrici:
1) orientamento alle imprese, specie PMI, con l’intento di aiutarle a valutare il loro livello di maturità digitale e tecnologica, seguendo i criteri stabiliti nell’annesso G (Technology Readiness Levels) del Programma Horizon 2020 Work Program 2018-2020 (Ottobre 2017).
2) Formazione alle imprese, per stimolare la diffusione di competenze “in ambito Industria 4.0 con line dimostrative e sviluppo di casi d’uso”.
3) Progetti d innovazione, ricerca e sviluppo sperimentale proposti dalle imprese.
La formulazione delle direttrici induce a rafforzare la preoccupazione espressa in precedenza. Non vorremmo che l’architettura dell’intervento avesse la prevalenza sulla progettualità strategica. Cerchiamo di spiegarci. Orientamento e formazione alle imprese, così come sono formulate, esprimono non tanto un’ottemperanza ai criteri di Horizon 2020, quanto una prospettiva strategica e un paradigma tecnico-scientifico non del tutto appropriato per le profonde trasformazioni implicate dalla dinamica tecno-economica verso Industria 4.0.
Quest’ultima espressione significa infatti, a nostro parere, la necessità di riprogettare processi e prodotti su nuove basi tecnico-scientifiche, ancorandoli a innovativi modelli manageriali. Tutto ciò implica la creazione di un ambiente interattivo tra Centri di ricerca e imprese, al fine di ripensare congiuntamente i frames cognitivi, le modalità e gli strumenti con cui sono stati finora rappresentati i problemi tecnico-produttivi. Questa visione porta a ritenere che la questione da porre al centro delle strategie innovative non sia la valutazione del “grado di maturità digitale”, da interpretare come strumento operativo, bensì l’effettuazione di analisi sistematiche nell’ambito di strutture interattive, dove si confrontino competenze multiple, insieme alle imprese.
Qui risiede, a nostro avviso, il senso profondo delle partnership strategico-progettuali, che può essere davvero ritrovato nell’attività dei 68 Centri Fraunhofer esistenti in Germania e diffusi anche in altri Paesi, tra cui l’Italia, sia pure in scala ridotta. In altri termini, la diffusione di competenze non deve partire dall’alto e dall’esterno, ma dovrebbe emergere da un processo bottom-up di interazione tra imprese e centri di ricerca. Ciò non significa azzeramento delle dinamiche top-down, dove entità tecnico-scientifiche e imprese si misurano su temi e traiettorie di frontiera, capaci di generare effetti di spillover, ma la realizzazione di questi ultimi richiede appunto una dimensione orizzontale e interattiva di interscambio tra entità differenti. Questa considerazione può acquistare una valenza maggiore se si pensa che interlocutori dei centri di ricerca dovrebbero essere non solo le imprese, ma anche filiere settoriali e intersettoriali, proprio per le peculiarità di Industria 4.0: prodotti multi-technology e complessi, che derivano dall’intersezione e sovrapposizione tra diversi domini conoscitivi, peraltro in continuo mutamento.
La riflessioni appena svolte implicano, quindi, che il funzionamento dei Centri di Competenza e Alta Specializzazione sia da ipotizzare molto più efficace se la partnership pubblico-privato viene vista, oltre che come architettura strategica, soprattutto come orientamento strategico e metodologia progettuale innovativa, con focus tematici ben definiti.
Poniamo ora lo sguardo sulla dotazione di risorse dei Centri: 40 milioni di euro complessivi; per ciascuno di essi sono previsti fino a 7,5 milioni per la costituzione e l’avviamento dell’attività”, per un importo non superiore al 75% delle risorse disponibili (decreto del 9-1-2018, ovviamente ripreso in quello attuativo emanato ieri). Per i progetti innovativi, il cui importo non deve superare i 200mila euro ciascuno, i contributi alla spesa non possono superare il 35% delle risorse disponibili.
Non vorremmo sbagliare, ma il dubbio iniziale circa il dilemma architettura vs progettualità diviene ancora più forte: le risorse per la costituzione e l’avviamento prevalgono su quelle destinate ai progetti. Non rischiamo di essere in presenza di un’architettura reale più che virtuale e dedita all’autoperpetuazione più che alla progettazione?
Veniamo ora ai criteri di valutazione delle domande: molti dei punti indicati all’art. 7 decreto dell’inizio gennaio sono del tutto condivisibili e certamente importanti per imprimere dinamismo ai processi economico-produttivi. Tutto ciò è cruciale per imprese e filiere prossime alla frontiera. Per larga parte dell’apparato produttivo nazionale, che opera in condizioni di minore prossimità, quei criteri sono difficilmente applicabili, con il rischio di renderle ancora più vulnerabili e di lasciarle al loro inevitabile destino. È chiaro, inoltre, che in questi casi siamo molto lontani dalle “academy aziendali” (art. 7, punto 5), a meno di forzare l’idea dell’alternanza scuola-lavoro verso forme improprie di prestazioni lavorative, edulcorate da espressioni dolcemente anglofone. A questo proposito occorre invece puntare sulla creazione di strutture e modalità interattive orizzontali, come abbiamo precedentemente accennato.
Sono invece del tutto lineari e pregnanti le indicazioni relative alle caratteristiche da rispettare nell’elaborazione dei progetti per quanto concerne costi, tempi, risultati attesi ecc. Tutto questo è ancora più realistico se l’attività dei Centri di Competenza è ispirata agli orientamenti strategico-operativi precedentemente indicati.
In definitiva deve essere chiaro un punto decisivo: i Centri dovrebbero acquisire competenze in grado di svolgere funzione di integrazione cognitiva e coordinamento strategico. Non è certo semplice ottenerle, anche perché sarebbe un compito essenziale che proprio le Università dovrebbero affrontare nello senario di Industria 4.0.
A questo punto andrebbe però affrontato un altro interrogativo di fondo: è il nostro sistema formativo nella sua interezza consapevole delle sfide con cui misurarsi? A parte alcuni casi felici e isolati, qualche dubbio è lecito e varrà la pena tornarci sopra quanto prima.