L'analisi

Coronavirus e imprese: i settori in crisi e le opportunità per crescere

L’emergenza coronavirus rischia di avere effetti sociali ed economici a breve e lungo termine su svariati settori produttivi: le priorità in questa situazione sono migliorare le competenze e la qualità

Pubblicato il 10 Mar 2020

Nicola Testa

Presidente U.NA.P.P.A. Unione Nazionale Professionisti Pratiche Amministrative

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Il momento è difficile, la situazione è in continua evoluzione e non sempre appaiono chiare le scelte del Governo, che restano motivo in più di preoccupazione nell’intero sistema economico nazionale. Resta complicato immaginare quali saranno le effettive conseguenze del coronavirus nel nostro Paese, sia sul piano economico sia su quello sociale: proviamo ad analizzare la situazione e a capire quali potrebbero essere le prospettive future dopo l’emergenza.

Lo scenario economico

I settori colpiti dalle conseguenze del coronavirus sono molteplici e ciò rende assai difficile avere un quadro chiaramente definito delle conseguenze. Inoltre, occorre distinguere fra conseguenze a breve e lungo termine, secondo scenari condizionati dal perdurare del contagio o della sua trasformazione in pandemia globale, oltre che fra effetti sui settori produttivi direttamente interessati ed effetti generali sul sistema economico italiano nel suo complesso.

Anzitutto, occorre considerare che scenari temporali di lungo periodo, che tra l’altro sono anche quelli più negativi, non siamo ancora in grado di valutarli dal punto di vista della loro reale plausibilità. Si è già iniziato a parlare di pandemia, spesso a sproposito, e si dimentica comunque di ribadire che in un mondo globalizzato, nel quale i flussi quotidiani di persone, anche fra continente e continente, hanno raggiunto una dimensione di scala mai conosciuta in passato la diffusione del contagio non può che essere tendenzialmente globale. Il punto sarà vedere in che misura la diffusione del virus su tutto il pianeta corrisponderà al mantenimento delle sue potenzialità infettive, anche rispetto alle possibili mutazioni alle quali potrà dar luogo per meglio adattarsi all’ambiente. E fintanto che queste dinamiche non saranno empiricamente acclarate, parlare di pandemia non deve considerarsi appropriato.

Per quel che concerne gli scenari di breve periodo, invece, l’ipotesi più realistica – sulla quale sembrano convenire diversi studiosi ed osservatori del mondo economico – è che l’impatto del Coronavirus si limiterà a un calo dei ricavi e dei margini di profitto delle imprese, senza effetti negativi sulla struttura finanziaria e senza rischi reali di default. A ciò si deve aggiungere che se lo scenario internazionale non dovesse mutare, riproducendo in altri paesi del mondo occidentale la stessa situazione che si è creata in Italia (e che le autorità sanitarie attribuiscono giustamente al fatto di aver effettuato più controlli e tamponi degli altri paesi), la perdita di immagine del sistema paese sarebbe da aggiungersi alla perdita di valore dei singoli settori produttivi direttamente colpiti dalla presenza del virus.

La reputazione del Made in Italy

Stimare la perdita di reputazione e credibilità del Made in Italy e dei suoi prodotti non è cosa facile, trattandosi di un capitale ad alto contenuto simbolico e di tipo immateriale. Essa non si può riassumere nell’ignobile immagine fake del pizzaiolo che si appresta a preparare una pizza infetta diffusa da alcuni siti internet francesi qualche giorno fa. Ma certamente quella immagine fornisce una chiara misura di cosa si debba intendere per reputazione, soprattutto nell’epoca di internet e del social media. Le scuse da parte dei francesi, anche ai massimi livelli politici e diplomatici, ci sono state. Tuttavia gli effetti di reputazione ormai si erano consumati. Ormai quell’immagine dell’Italia aveva fatto il giro del mondo, così come la famosa copertina di Der Spiegel negli anni Ottanta che riprendeva la penisola come il Paese degli spaghetti e della P38. E gli strascichi di questo brutto episodio si erano già sommati, nella percezione che la gente ha del nostro Paese, con l’immagine di una realtà vittima di un’epidemia senza eguali nel mondo occidentale. Le dinamiche dell’opinione pubblica sono come “spirali nel silenzio”: incidono sugli orientamenti delle persone, ne determinano valutazioni e scelte, e spesso lo fanno in maniera tanto profonda quanto invisibile, e proprio per questo più insidiosa.

Al di là del danno al Made in Italy, comunque, restano ancora più evidenti e tangibili i danni che stanno già investendo i settori produttivi direttamente colpiti dalla presenza del Coronavirus. In base a una prima approssimativa ricognizione, gli ambiti più interessati sono senza dubbio il turismo, l’industria manifatturiera, in particolare l’automotive, la moda e l’industria tessile, le attività culturali (teatro e cinema), l’industria agroalimentare e la produzione enologica, la formazione. Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna sono poi le regioni sulle quali le conseguenze si avvertiranno maggiormente, con inevitabili ripercussioni sull’intera economia nazionale, dato che da sole queste tre regioni contribuiscono per il 40% al PIL del nostro paese. E ciò porta purtroppo a concludere che almeno in una certa misura il rischio recessione è sempre più concreto: già oggi Banca d’Italia stima una riduzione del PIL dello 0,2% per l’anno in corso.

Coronavirus, i problemi dei settori produttivi

Tornando ai settori produttivi, il turismo ormai con Pasqua alle porte è certamente quello più colpito: un ambito che da solo vale circa il 12% del PIL e che solo nelle zone colpite dal virus realizza quasi un terzo del fatturato nazionale. Già si stima che la perdita di fatturato dovuta al de-booking si aggirerebbe complessivamente e per l’intero settore intorno a 200 milioni di euro. A cui si andranno inevitabilmente ad aggiungere le perdite attese da ristoranti, bar ed altri esercizi commerciali dell’indotto turistico. Per quel che concerne l’industria, colpita in particolare nei settori della meccatronica e dell’automotive, i fermi alla produzione e le riduzioni di orario alle quali sono stati costretti diversi stabilimenti delle province interessate dal contagio stanno già mettendo in ginocchio il settore. La componentistica auto, che peraltro sta già risentendo del calo di produzione di queste settimane in Cina, uno dei paesi leader a livello globale del settore, è – com’è noto – presente sia in Lombardia che in Veneto, due regioni strettamente collegate alla filiera tedesca della produzione automobilistica, a sua volta già interessata da un calo della produzione, così come sta avvenendo in tutta la manifattura tedesca, nella quale da qualche mese soffiano venti di recessione.

La moda, un settore di punta – anche per l’immagine del paese- e che vale da solo circa 90 miliardi di euro, sta stimando una perdita di valore di circa l’1,8%, in un anno che ha visto già coincidere la settimana italiana della moda con l’avvio dell’epidemia da Coronavirus sul nostro territorio nazionale. L’industria tessile, che ha una parte consistente della sua produzione globale in Cina e che di lì si collega a Prato, anche per la fornitura di tessuti agli Atelier di alta moda, sta già registrando una significativa levitazione dei prezzi e delle tariffe per le spedizioni aeree di materie prime e semilavorati. Cinema e teatri, dopo la perdita di circa 10 milioni di euro per il blocco di una settimana fa nelle regioni colpite dal virus, che aveva portato alla sospensione di 7.400 spettacoli, alla ripresa durante lo scorso week end hanno finito con l’accusare ulteriormente il colpo di questa situazione di emergenza, facendo registrare un’ulteriore contrazione degli incassi ai botteghini di circa il 44% rispetto al fine settimana precedente, equivalenti a 4,4 milioni di euro. E con la nuova sospensione degli spettacoli su tutto il territorio nazionale le perdite si faranno ovviamente assai più consistenti.

L’industria agroalimentare, che ha una sua colonna portante nel lodigiano e nella Lomellina, oltre che nel cremonese e nelle province di Bergamo e Brescia, evidenzia una situazione a rischio soprattutto nelle 500 aziende agricole dislocate nella cosiddetta “zona rossa”, che contano circa 100 mila capi di bestiame. Senza dimenticare che questo settore, ricco di prodotti con marchio tipico di garanzia, insieme alla produzione enologica, vero e proprio punto di forza del paese con circa due miliardi di euro di fatturato soltanto attraverso la vendita nei supermercati e oltre sei miliardi di euro in esportazioni, sono fra i più esposti a speculazioni, che finora hanno favorito soprattutto i plagi stranieri (l’Italian sounding) ma che in futuro potrebbero essere oggetto di campagne denigratorie da parte di produttori concorrenti stranieri.

Le ripercussioni sulla formazione

Infine, last but not least, un settore che troppo spesso si trascura e che invece è assolutamente strategico per il paese: la formazione, che in Italia vale oltre 3 miliardi di euro e impiega migliaia di lavoratori, direttamente o indirettamente, in enti di formazione e aziende. Un settore che a seguito del blocco delle attività nelle regioni più colpite dal virus ha già pagato un costo molto elevato, e che nelle prossime settimane (di sicuro fino al 15 marzo) sarà sostanzialmente costretto a interrompere tutte le sue attività, con conseguenti danni dal punto di vista sia della domanda che dell’offerta formativa. A tutto ciò si devono aggiungere le ingenti perdite che interesseranno complessivamente il nostro sistema delle esportazioni, che solo rispetto alle province finora più colpite dal coronavirus ammontano a un valore di circa 138 miliardi, a fronte di un volume complessivo delle importazioni di 465 miliardi di euro, a sua volta esposto al potenziale danno di immagine che in prospettiva, come si è detto, potrebbe investire tutta la produzione nazionale, a cominciare dai prodotti maggiormente legati ai principali brand italiani.

La priorità: crescita in qualità e competenza

In una situazione come quella che si è appena tratteggiata, è evidente che il Governo nazionale, così come l’intera classe dirigente del paese, devono sentirsi investiti da un’enorme responsabilità. Si tratta in primo luogo di capire come possiamo continuare a definirci un grande paese, una delle nazioni più importanti dell’Unione Europea e una fra le realtà più avanzate del mondo occidentale. In questo senso, la presenza del Coronavirus può rappresentare anche un’occasione per ripensare complessivamente il sistema paese rispetto alla sua collocazione nell’orizzonte globale, nonché rispetto al progetto che intende darsi per l’oggi e per il futuro. La speculazione politica, in queste circostanze non paga, perché gli italiani fortunatamente sanno ancora distinguere chi semina paura e fa propaganda da chi intende affrontare i problemi attraverso la ricerca di soluzioni concrete. Così come dobbiamo cercare di rafforzare il segnale sul made in Italy, senza screditare altre realtà, perché l’economia del nostro paese per buona parte è retta dalle esportazioni e pertanto dovremmo auspicare che nessuno si chiuda a riccio nei suoi confini nazionali, come troppo spesso sentiamo esternare da parte di una politica gridata e inconcludente, che forse vede le imprese e il mondo produttivo soltanto attraverso l’occhio delle statistiche ma mai sporcandosi concretamente le mani.

Oggi, che il richiamo a un’artefatta identità italiana mostra tutti i limiti della sua reale evanescenza, ritorcendosi contro noi stessi, dobbiamo capire anzitutto che viviamo in un grande villaggio globale. La stessa dinamica dei contagi ce lo dice, eppure noi spesso cadiamo nell’errore di leggerla ancora in una prospettiva territoriale e locale che si addiceva alle grandi epidemie del passato ma non a quella attuale da Coronavirus. Oggi, che in gioco vi è la reputazione del nostro paese sui prodotti che più hanno contribuito a renderlo noto e apprezzato in larga parte del mondo, quel made in Italy che molte altre nazioni ci invidiano, dobbiamo essere consapevoli che la difesa di tale immagine passa attraverso iniziative di certificazione della qualità in grado di superare i pregiudizi, affermando una concreta superiorità della nostra produzione laddove davvero essa esiste. Un indirizzo che deve valere anche per le attività professionali che accompagnano il mondo della produzione: la crescita di qualità e competenza deve comunque essere considerata prioritaria.

Oggi, che l’epidemia da coronavirus rischia di colpirci duramente è necessario riscoprire quel senso di comunità e di appartenenza che ci permetta di esprimere con orgoglio cosa significhi essere una nazione, ritrovando quell’unità indispensabile a superare tutti i momenti di crisi. Non possiamo dimenticare la soddisfazione di coloro che quando l’Abruzzo crollava sotto l’onda d’urto del terremoto pensavano ai guadagni che avrebbero tratto dalla speculazione edilizia. Così come in questi giorni di emergenza non possiamo dimenticare che qualcuno, giustamente arrestato dalla Guardia di Finanza, avesse intrapreso un commercio illegale di presidi sanitari utili a contrastare il virus, a partire da mascherine, tute e guanti, a prezzi molto alti e ingiustificati. Non vogliamo che questa sia l’immagine produttiva del nostro paese, l’idea di Made in Italy che si possono fare all’estero, e perciò dobbiamo fare di tutto per cancellarla.

Sì agli interventi di supporto, ma oculati

Crediamo pertanto che questa dolorosa quanto impegnativa situazione possa comunque costituire una straordinaria occasione per metterci tutti davvero alla prova. E se parliamo di interventi governativi, in primo luogo a sostegno di imprese e attività produttive, al fine di evitare per quanto possibile le conseguenze più negative di quella recessione che sembra profilarsi all’orizzonte, dobbiamo anzitutto auspicare che incentivi e sgravi fiscali, contributi e politiche attive vengano indirizzati in maniera efficace, a partire dall’adeguata individuazione dei loro destinatari. Qui sta la prima questione che occorre porre al Legislatore: fare molta attenzione al modo al modo in cui verranno decisi gli interventi di supporto per non vanificarne i potenziali effetti positivi nel nulla.

Da un punto di vista generale e sistemico, un primo importante terreno di iniziativa del governo a sostegno del sistema economico e produttivo del paese dovrà riguardare l’Unione Europea. Nelle prossime ore il governo sembra intenzionato a stanziare 7 miliardi e mezzo di euro per misure di sostegno a famiglie e imprese, una cifra certamente importante, che però potrebbe anche non essere sufficiente se l’attuale stato di emergenza dovesse protrarsi ancora nel tempo. La prima cosa da fare è quindi convincere i partner europei a concedere maggiore flessibilità sul deficit. Sappiamo che ciò non è facile da fare. Ma se opportunamente motivata, per esempio rispetto al collegamento con la spesa per investimenti, a una razionalizzazione della spesa pubblica per ordini di priorità, e a un programma per la semplificazione soprattutto nell’ambito della Pubblica amministrazione, una richiesta di questo tipo può trovare le necessarie ragioni per essere accolta. Tra l’altro, proprio l’emergenza di questi giorni ha messo chiaramente in luce come nella Pubblica amministrazione italiana non sia proprio tutto da buttare. Il Sistema sanitario nazionale, per esempio, sta dando prova di essere fra i migliori al mondo, sia per la preparazione e l’impegno del personale medico e paramedico, sia per l’efficienza delle strutture, oltre al fatto di assicurare prestazioni fondamentali per la salvaguardia della salute pubblica e personale senza richiedere ai cittadini altro esborso al di fuori della contribuzione fiscale. E che non siamo un Paese in cui si rischia di morire per patologie gravi o epidemie se non si è muniti di conto in banca o di una carta di credito lo si è visto proprio nell’emergenza di questi giorni.

La necessità di una rivoluzione della PA

Però, al di là della sanità, la Pubblica amministrazione italiana richiede di essere ammodernata. Semplificazione amministrativa e digitalizzazione – ce ne stiamo accorgendo anche oggi – sono i due principali obiettivi che andrebbero perseguiti. Anche per rendere la macchina amministrativa pubblica più capace di rispondere alle diverse situazioni che possono volta per volta configurarsi, emergenze comprese. E per attrezzare il paese a queste sfide, l’introduzione di nuove forme di governance e regolazione (e non di regolamentazione! come abbiamo più volte sottolineato) può risultare decisiva. Lo smart working, che stiamo scoprendo in questi giorni, in particolare in molti uffici della PA, è una prima importante risposta che va proprio in questa direzione. E se si dovesse favorirne l’introduzione e la diffusione attraverso il ricorso a incentivi avremmo cominciato a fare un piccolo passo in direzione di una semplificazione delle forme di organizzazione di lavoro.

In questo momento occorre anche avere fiducia nelle istituzioni, perché è in rapporto ad esse che possiamo riscoprire le ragioni del nostro stare insieme e trovare le forme di coordinamento più opportune per affrontare efficacemente l’emergenza. A loro volta, le istituzioni, in primo luogo Governo e Parlamento, hanno a disposizione un’occasione straordinaria per dimostrare sul campo di essere davvero una guida e una garanzia per il paese. Occorre definire misure di sostegno a favore dei cittadini, delle famiglie e delle imprese che siano il più possibili mirate, efficaci e di semplice attuazione. Incentivi, contributi, sgravi fiscali devono non solo – come si è già detto – essere indirizzati ai giusti destinatari, in modo tale da andare a vantaggio dei soggetti che realmente necessitano di un sostegno. Devono, inoltre, corrispondere in maniera prioritaria a criteri di urgenza e non alla pressione esercitata su questo o quell’attore politico e istituzionale dalle categorie dotate di maggiore capacità di influenza. Non dimenticando un fatto essenziale: che in situazioni di crisi , così come in condizioni di emergenza, sono soprattutto i soggetti più deboli e a rischio ad avere un effettivo bisogno di supporto da parte dello Stato.

Il sostegno ai soggetti più deboli

Pensiamo al mondo del lavoro autonomo, e soprattutto a quello delle professioni non ordinamentali, oggi investito dalle conseguenze dell’epidemia da coronavirus al pari, se non addirittura più, di altri settori produttivi. Un mondo che tuttavia rischia di restare emarginato e senza tutele per il fatto di non disporre della stessa forza di rappresentanza di altre realtà economiche. Il nostro settore si occupa di intermediazione verso la PA per cittadini, famiglie e imprese, oltre che di pratiche verso amministrazioni e governi esteri collegate alla gestione delle esportazioni così come alla richiesta di visti. Procedure che fino a ieri avevano una rilevanza prevalentemente sul fronte interno, come nel caso delle pratiche di autorizzazione amministrativa per nuovi insediamenti produttivi, ma che oggi diventano sempre più importanti nella gestione delle attività professionali e commerciali verso l’estero. Così se oggi un’azienda limita le trasferte verso l’estero oppure vede ridursi le sue esportazioni in un paese straniero, anche chi si occupa di affiancarla nelle pratiche amministrative necessarie per quelle attività ne risente in maniera significativa.

In base ai dati in nostro possesso, l’ambito dei professionisti delle pratiche amministrative impiega in questo momento circa diecimila persone, distribuite su tutto il territorio nazionale. Di qui la necessità di determinare interventi e soluzioni equilibrate anche a vantaggio di un settore che, seppur meno visibile di altri, costituisce un complemento necessario e irrinunciabile per larga parte delle attività economiche e produttive, in Italia e all’estero. Le nostre imprese hanno dipendenti al pari di altre, però per numero di addetti, collocazione economica del settore e altre circostanze non possono accedere alla cassa integrazione. Così come spesso accade di essere esclusi da incentivi correntemente attribuiti ad altre attività e professioni.

Eppure anche i nostri dipendenti percepiscono uno stipendio, pagano i contributi per la previdenza sociale, producono gettito fiscale e così via. E se le nostre agenzie non lavorano oppure sono costrette a ridurre il livello delle attività avvertono difficoltà economiche e finanziarie esattamente al pari di tutti gli altri. In una fase di emergenza come questa, ci aspettiamo che le misure che l’esecutivo si appresta a deliberare per sostenere le famiglie e le imprese non si concentrino esclusivamente sulle realtà economiche più grandi e visibili, perché incarnate da grandi organizzazioni ovvero da influenti agenzie di rappresentanza, ma sappiano incontrare le aspettative di un tessuto produttivo assai più articolato e complesso. Come già abbiamo avuto modo di sostenere in passato, sono ormai maturi i tempi per una revisione dei codici Ateco, per riuscire finalmente a colmare quel divario che ancora oggi scontiamo rispetto a una modalità di classificazione delle attività produttive non adeguata ai tempi.

La proposta: un comitato tecnico per superare la crisi

Tra l’altro ci sentiamo di suggerire al Governo di allargare la discussione all’insieme delle parti sociali, attraverso la costituzione di un “Comitato tecnico scientifico di uscita dalla crisi coronavirus”, composto da esperti e da rappresentanze di categoria dei vari settori, fra i quali anche quelli talvolta poco ascoltati del lavoro autonomo e della micro impresa. Realtà di piccole dimensioni che costituiscono l’ossatura portante del nostro Paese, reggendone le sorti al fianco e al pari di quelle più grandi. In ultimo, ci sentiamo di chiedere alla politica di evitare, almeno in questa fase assai delicata, polemiche sterili e inutili scontri, per lasciare la parola alla scienza, l’unica realtà idonea a fornirci chiarezza, e per riscoprire il valore e il senso delle Istituzioni, verso le quali dovremmo tornare ad avere fiducia.

L’eccezionalità della situazione in cui ci troviamo può forse rappresentare una straordinaria occasione per migliorare il sistema Italia. Vediamo di non perderla.

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