L’Agenzia delle entrate ha avviato un’attività ispettiva per valutare la corretta fruizione del credito di imposta per Ricerca & Sviluppo, misura introdotta nell’ambito delle iniziative in chiave Industry 4.0. Una decisione volta a stanare casi di evasione fiscale, ma che tuttavia presenta rischi per chi ha commesso errori interpretativi.
Con conseguenze che possono essere anche gravissime per le aziende e gli imprenditori, sul piano sanzionatorio e penale.
Approfondiamo la situazione e vediamo le possibili conseguenze per le imprese.
Credito di imposta R&S, cosa dice la legge
L’articolo 3 del decreto-legge 23 dicembre 2013, n. 145 (convertito, con modificazioni, dalla legge 21 febbraio 2014, n. 9, noto come “decreto Destinazione Italia”), integralmente sostituito dall’articolo 1, comma 35, della legge 23 dicembre 2014, n. 190 (legge di Stabilità 2015), ha introdotto un credito di imposta per attività di Ricerca e Sviluppo. L’introduzione della misura agevolativa è stata accompagnata da una grande risonanza mediatica per indurre le imprese ad avvalersi delle provvidenze introdotte, che, diversamente da altre misure similari, ebbero particolare appeal nei potenziali fruitori per la semplicità di utilizzo che non ha precedenti nel passato: nessuna prenotazione del credito, limiti di fruizione molto alti, nessuna istanza o comunicazione, né preventiva, né consuntiva.
La formalità fu sostanzialmente limitata predisposizione di una apposita certificazione dei costi e delle spese sostenute da parte del soggetto incaricato della revisione legale o del collegio sindacale o di un professionista iscritto nel Registro dei revisori legali, da allegare al bilancio[1]. Mentre sino all’anno 2017 la certificazione poteva essere rilasciata da un professionista terzo rispetto al fruitore anche nella ipotesi in cui il beneficiario fosse dotato dell’organo di revisione, dall’anno 2018 tale possibilità è stata soppressa, per cui le società che hanno nominato un revisore non possono che rivolgersi a lui per la certificazione.
L’agenzia delle Entrate ha avviato una attività di controllo dei crediti fruiti. Nei casi complessi l’Agenzia delle Entrate deve rivolgersi al Ministero per lo Sviluppo Economico – Mise. Ciò che si sta riscontrando è che, qualora il progetto avviato dovesse risultare non coerente con le norma ed emergesse una indebita fruizione del credito, lo stesso viene considerato tout court “inesistente”, con le conseguenze devastanti (a dir poco) che verranno appresso analizzate.
Il problema sta nelle evidenti difficoltà interpretative della legge, coniata senza tenere presente che la norma dovrebbe essere “autosufficiente” in termini di chiarezza[2] applicativa. Ma un ulteriore handicap sta nel contesto di cui le norme sono “calate”, contesto in cui la esigenza di combattere l’evasione ha generato l’equazione codificata per cui l’errore interpretativo viene considerato comunque frutto di una attività fraudolenta. La combinazione di questi due fattori, unita alla inefficienza della macchina amministrativa, che avvia controlli o quando le persone disoneste che hanno compiuto i misfatti sono scappati col bottino, ovvero quando le persone oneste che hanno commesso un errore non riuscirebbero a neutralizzare il loro operato neppure pagando tutto, crea uno stato di incertezza e di terrore in cui si ha la sensazione che le norme, piuttosto che un contrasto alla evasione, siano un contrasto alle imprese.
Il contesto normativo
La norme attuative della misura sono state emanate col Decreto MEF-MISE del 27 maggio 2015. Gli investimenti ammessi erano:
- lavori sperimentali o teorici svolti, aventi quale principale finalità l’acquisizione di nuove conoscenze sui fondamenti di fenomeni e di fatti osservabili, senza che siano previste applicazioni o usi commerciali diretti;
- ricerca pianificata o indagini critiche miranti ad acquisire nuove conoscenze, da utilizzare per mettere a punto nuovi prodotti, processi o servizi o permettere un miglioramento dei prodotti, processi o servizi esistenti ovvero la creazione di componenti di sistemi complessi, necessaria per la ricerca industriale, ad esclusione dei prototipi di cui alla lettera c);
- acquisizione, combinazione, strutturazione e utilizzo delle conoscenze e capacità esistenti di natura scientifica, tecnologica e commerciale allo scopo di produrre piani, progetti o disegni per prodotti, processi o servizi nuovi, modificati o migliorati; può trattarsi anche di altre attività destinate alla definizione concettuale, alla pianificazione e alla documentazione concernenti nuovi prodotti, processi e servizi; tali attività possono comprendere l’elaborazione di progetti, disegni, piani e altra documentazione, inclusi gli studi di fattibilità, purché non siano destinati a uso commerciale; realizzazione di prototipi utilizzabili per scopi commerciali e di progetti pilota destinati a esperimenti tecnologici o commerciali, quando il prototipo è necessariamente il prodotto commerciale finale e il suo costo di fabbricazione è troppo elevato per poterlo usare soltanto a fini di dimostrazione e di convalida;
- produzione e collaudo di prodotti, processi e servizi, a condizione che non siano impiegati o trasformati in vista di applicazioni industriali o per finalità commerciali.
Non erano invece ammissibili le attività di ricerca e sviluppo le modifiche ordinarie o periodiche apportate a prodotti, linee di produzione, processi di fabbricazione, servizi esistenti e altre operazioni in corso, anche quando tali modifiche rappresentino miglioramenti.
Confusione applicativa e profili di irregolarità
È di tutta evidenza come il quadro normativo sopra esposto non sia possibile delineare un perimetro applicativo ben definito: sono tracciate alcune linee guida, c’è indicato cosa non è agevolabile, ma per il resto tutto si può dire tranne che ci troviamo dinanzi ad una normativa idonea a generare risposte secche del tipo Sì/No in relazione a progetti che spesso sono complessi, articolati, ed hanno caratteristiche che potrebbero riguardare anche una combinazione delle attività sopra indicate. Ciò che appare un controsenso è come una società commerciale – astrattamente la principale destinataria delle agevolazioni – possa effettuare investimenti o progetti in presenza di un divieto di un utilizzo industriale o commerciale senza tradire l’oggetto sociale, che è quello di organizzare i fattori produttivi al fine di produrre un risultato economico. Probabilmente la norma voleva – giustamente – impedire che le imprese ricorressero al credito d’imposta per ottenere un surrettizio finanziamento di commesse già remunerate dai clienti/committenti, però la lettera della Legge sembra voler dire qualcosa di diverso e, ad avvisi di chi scrive, di difficile comprensione.
Una cosa però appare evidente: di fronte a spazi di manovra che inizialmente sono apparsi ampi appare contrario al buon senso, prima che alla legge, considerare fraudolenta qualsiasi attività, che abbia determinato una fruizione del credito d’imposta per cui dovesse essere accertata, a posteriori e magari facendo riferimento a fonti interpretative emanate medio tempore, la mancanza dei presupposti di legge.
Dico subito che uno degli elementi che probabilmente contribuì a tranquillizzare i potenziali fruitori fu la previsione – come verrà infra trattato – dell’obbligo di certificazione delle spese sostenute nell’abito dei progetti da parte del revisore della società o di un professionista. Ciò fu dai più – e direi a ragione – interpretato come una barriera alla perpetrazione di possibili frodi e, quindi, un “vaccino” per la configurazione, in caso di errore, di reati perseguibili ai sensi del Decreto Legislativo 74/2000.
L’attività di verifica
Senza voler entrare nel merito delle singole questioni, non è difficile che un progetto di investimento, ritenuto meritevole di agevolazione dall’imprenditore (o, meglio, dai professionisti da lui incaricati), possa essere giudicato dagli organi verificatori, in tutto o in parte, non coerente con le disposizioni di legge e il credito d’imposta fruito potrebbe essere disconosciuto. Senza considerare che poi non è neppure detto che le opinioni dei verificatori, spesso incentivati a scovare materia imponibile per raggiungere i budget assegnati, siano da considerare “imparziali” e “obiettive”. Spesso i pareri fanno anche riferimento a circolari o note interpretative postume rispetto alla fruizione del beneficio, il che non appare un esempio di tutela dell’affidamento e della buona fede che lo Statuto del Contribuente tutela.
L’attività di controllo pone quindi una serie molto complessa di problematiche, che meritano riflessione e, molto probabilmente, una presa di posizione da parte dell’Agenzia delle Entrate tendente a distinguere in maniera più netta le ipotesi di frode, passibili di sanzioni ai sensi del Decreto Legislativo 74/2000, rispetto ad altre ipotesi che ineriscono a fattispecie prive di qualsiasi elemento psicologico costitutivo del reato, e che dovrebbero portare ad equiparare la eventuale indebita compensazione alla stregua di un omesso versamento.
Il disconoscimento del credito d’imposta fruito
La verifica delle agevolazioni fruite generalmente è attuata mediante una attività istruttoria da parte dell’Agenzia delle Entrate o della Guardia di Finanza, al termine della quale viene generalmente redatto un Processo Verbale di Constatazione. Qualora l’Organo verificatore avesse dubbi circa la spettanza delle agevolazioni fruite, può avvalersi del supporto tecnico del MISE che, analizzata la documentazione trasmessa, emette un verdetto che viene trasfuso nel processo verbale di constatazione (PVC). Nella ipotesi in cui il Mise dovesse ritenere il progetto non meritevole del beneficio in questione, l’Agenzia delle Entrate ha assunto l’orientamento di indicare nel PVC che il credito d’imposta è inesistente, e ciò genera una serie di gravissime conseguenze, di ordine penale e di ordine economico. Prima fra tutte, la trasmissione immediata della notizia di reato alla Procura.
La procedura sopra evidenziata manifesta già un evidente elemento di criticità che dovrebbe ricondurre molte fattispecie ritenute non meritevoli della agevolazione nell’alveo dell’errore scusabile: se l’Agenzia Entrate (che per mestiere applica e interpreta norme tributarie) ha bisogno del MISE per approfondire un caso pratico, vuol dire che la fattispecie è complessa e un eventuale parere negativo nel merito del MISE non può essere idoneo a qualificare ab origine la richiesta di agevolazione come attività fraudolenta.
Il successivo atto che l’Ufficio emanerà è il c.d. “atto di recupero[3]”, contenente l’invito a versare le complessive somme dovute (credito indebitamente utilizzato, interessi e sanzioni) entro sessanta giorni dalla data di notifica; qualora il contribuente non ottemperi all’invito, l’Ufficio procederà alla relativa iscrizione a ruolo a titolo definitivo. L’Agenzia delle Entrate ha ritenuto (non correttamente[4] a mio avviso) che l’atto di recupero non sia un “avviso di accertamento” e, conseguentemente, tra l’altro, non sia definibile per adesione.
Credito non spettante o inesistente?
Dopo la notifica del processo verbale, soprattutto nella ipotesi in cui l’impresa avesse effettuato indebite compensazione di crediti d’imposta per importi superiori a 50.000 euro annui, si pone il problema di qualificare se il credito sia “non spettante” o “inesistente”. Ciò in quanto le sanzioni previste per le due ipotesi sono diverse, come verrà approfondito al punto successivo. L’articolo 13, comma 5, del decreto Legislativo 471/1997, prevede che “ Si intende inesistente il credito in relazione al quale manca, in tutto o in parte, (1) il presupposto costitutivo e (2) la cui inesistenza non sia riscontrabile mediante controlli di cui agli articoli 36-bis e 36-ter del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, e all’articolo 54-bis del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633” (i c.d. controlli automatizzati).
La prima delle due condizioni sembrerebbe essere stata scongiurata aprioristicamente dal legislatore mediante la previsione contenuta nell’articolo 7 del Decreto Interministeriale del 27/5/2015, secondo cui “I controlli sono svolti dall’Agenzia delle entrate sulla base di apposita documentazione contabile[5] certificata dal soggetto incaricato della revisione legale o dal collegio sindacale o da un professionista iscritto nel Registro dei revisori legali”. Considerato che il presupposto costitutivo del credito d’imposta è dato dalla esistenza della documentazione di supporto (quindi dalla effettività delle spese sostenute), il legislatore ha verosimilmente inteso risolvere la questione ab origine prevedendo la certificazione dei costi e inserendo, al comma 4, una specifica attribuzione di responsabilità, secondo cui “Nei confronti del revisore legale dei conti o del professionista responsabile della revisione legale dei conti che incorre in colpa grave nell’esecuzione degli atti che gli sono richiesti per il rilascio della certificazione di cui all’articolo 7 del presente decreto si applicano le disposizioni dell’articolo 64 del codice di procedura civile[6]”.
La seconda condizione è presente in tutte le fattispecie relative al credito d’imposta R&S, considerato che l’eventuale non disconoscimento del diritto del credito d’imposta alla fruizione non è ricavabile dalle indicazioni da fornire in Unico, quadro RU, né dai modelli F24 in cui avviene la compensazione. Tuttavia c’è da osservare che la compensazione del credito d’imposta non è una operazione occulta, tutt’altro, perché avviene mediante la indicazione nel modello F24 di uno specifico codice tributo che, pur non potendo fornire indicazioni sul progetto a cui si riferisce, pone immediatamente l’amministrazione Finanziaria nelle condizioni di attivare eventuali controlli.
Potrebbe quindi affermarsi che in presenza della certificazione del revisore il credito d’imposta R&S non riconosciuto in sede di controllo non dovrebbe definirsi inesistente, fatte ovviamente salve le ipotesi di frode, contemplate anche nella circolare 5/E del 16 marzo 2016, dell’Agenzia delle Entrate, punto 8, in cui è stato affermato che: “Si intende inesistente il credito in relazione al quale manca, in tutto o in parte, il presupposto costitutivo e la cui inesistenza non sia riscontrabile mediante controlli di cui agli articoli 36‐bis e 36‐ter del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, e all’articolo 54‐bis del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633. A titolo esemplificativo, si configura un’ipotesi di inesistenza del credito nel caso in cui non siano stati sostenuti i costi per attività di ricerca e sviluppo”.
Precisazioni sulla “non spettanza” del credito d’imposta
La giusta valorizzazione della certificazione del revisore o del professionista potrebbe escludere la configurazione della fattispecie prevista dal comma 2 dell’articolo 10-quater del Decreto legislativo 74/2000, ma non sarebbe comunque risolutiva posto che il comma 1 dell’articolo 10-quater prevede sanzioni penali anche per l’utilizzo di crediti d’imposta non spettanti, senza tuttavia fornire una precisa definizione di “non spettanti”. Potrebbe militare a favore della “non spettanza” del credito d’imposta il disposto del comma 4 del già citato articolo 13 del decreto Legislativo 471/1997, che traccia il profilo sanzionatorio per “il caso di utilizzo di un’eccedenza o di un credito d’imposta esistenti in misura superiore a quella spettante o in violazione delle modalità di utilizzo previste dalle leggi vigenti”.
Però il significato attribuito dal legislatore e dalla giurisprudenza al termine “non spettante” sembra orientato verso una fattispecie ben precisa: la “non spettanza” è vista come una fattispecie generata qualora l’utilizzo del credito non sia corretto solo sotto il profilo temporale, ipotesi che si verifica quando un credito di cui si ha diritto in maniera temporalmente scaglionata viene fruito in misura anticipata[7]. Come indicato dalla Corte di Cassazione (sent.36393 del 9/9/2015 Sez. III penale) “deve ritenersi pertanto ‐ concordemente con quanto già affermato nella sentenza 3367/2015 ‐ che sia credito tributario non spettante, ai fini di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10 quater, quel credito che, come nel caso che ci occupa, pur certo nella sua esistenza ed ammontare sia, per qualsiasi ragione normativa, ancora non utilizzabile (ovvero non più utilizzabile) in operazioni finanziarie di compensazione nei rapporti fra il contribuente e l’Erario”.
Posta in questi termini, la questione sembrerebbe risolta, nel senso che il legislatore avrebbe previsto solo due categorie di “anomalie”. La prima è quella della compensazione di crediti esistenti ma non (ancora) utilizzabili, la seconda è quella della compensazione dei crediti (che non possono essere definiti tali perché) privi, al momento della compensazione o anche a seguito di verifica o accertamento, dei presupposti di fatto o di diritto idonei alla loro nascita. Si avverte quindi la esigenza di un tertium genus, che potrebbe essere tuttavia evitato con qualche piccolo ritocco al Decreto Legislativo 74/2000.
Il quadro sanzionatorio tributario e penale
Sotto il profilo Amministrativo, la indebita compensazione del credito d’imposta è sanzionata: dal comma 4 dell’articolo 13 del Decreto legislativo 471/1997, che prevede: “Nel caso di utilizzo di un’eccedenza o di un credito d’imposta esistenti in misura superiore a quella spettante o in violazione delle modalità di utilizzo previste dalle leggi vigenti si applica, salva l’applicazione di disposizioni speciali, la sanzione pari al trenta per cento del credito utilizzato” ovvero dal successivo comma 5, che prevede che “Nel caso di utilizzo in compensazione di crediti inesistenti per il pagamento delle somme dovute
- è applicata la sanzione dal cento al duecento per cento della misura dei crediti stessi. Per le sanzioni previste nel presente comma”,
- non “si applica la definizione agevolata prevista dagli articoli 16, comma 3, e 17, comma 2, del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 472”;
Rischio carcere
La norma cardine su cui ruota il sistema sanzionatorio penale è l’articolo 10-quater, del Decreto Legislativo 74/2000[8] che prevede la pena della reclusione da sei mesi a due anni nel caso di non spettanza (comma 1), triplicata nel minimo e nel massimo nella ipotesi di inesistenza (comma 2). Il Giudice, su richiesta del P.M., può ordinare, ai sensi dell’articolo 12-bis del Decreto legislativo 74/2000, “la confisca dei beni che ne costituiscono il profitto o il prezzo (c.d. confisca diretta, n.d.r.), salvo che appartengano a persona estranea al reato, ovvero, quando essa non è possibile, la confisca di beni (c.d. confisca per equivalente, n.d.r.), di cui il reo (ossia il legale rappresentante della società, n.d.r.) ha la disponibilità, per un valore corrispondente a tale prezzo o profitto. La confisca non opera per la parte che il contribuente si impegna a versare all’erario anche in presenza di sequestro. Nel caso di mancato versamento la confisca è sempre disposta.” Questa prassi è seguita, come prevede la norma, se e nella misura in cui in capo al contribuente non è stato possibile rinvenire beni di consistenza equivalente al “profitto o al prezzo” del reato commesso.
La confisca per equivalente ha natura sanzionatoria, e può essere evitata solo se l’obbligato principale paga quanto dovuto. Vero è che la norma parrebbe inoperante per la parte di danaro che il contribuente si impegna a versare all’Erario, ma sul punto si registra una Sentenza della Corte di Cassazione[9] che ha affermato che “Quanto alla previsione secondo cui la confisca non opera nel caso in cui vi sia stata l’assunzione di un impegno formale al pagamento, la Corte precisa che tale previsione non può essere intesa nel senso che l’assunzione dell’impegno comporti che il giudice non debba, in sede di condanna, disporre la confisca ma potendo farlo solo qualora il contribuente non rispetti l’obbligo assunto. Tale interpretazione sarebbe in contrasto con i canoni di ragionevolezza e funzionalità dal momento che conseguenza di tale impostazione sarebbe quella di escludere che dopo l’assunzione dell’impegno possa procedersi al sequestro preventivo e, ove questo fosse già stato disposto, di vederne caducati gli effetti. Ma non potendosi disporre il sequestro, i beni sottoponibili a confisca permarrebbero nella disponibilità dell’avente titolo, con il conseguente rischio che vengano alienati o comunque sottratti al soddisfacimento della pretesa creditoria dell’erario, così frustrando l’obiettivo perseguito dalla legge”[10];
Come se le misure sopra accennate non fossero già sufficienti a costituire un efficace deterrente, c’è da aggiungere che il pagamento integrale delle somme, sanzioni ed interessi non rappresenta, nella ipotesi di credito d’imposta inesistente di cui al comma 2 del citato articolo 10-quater, “causa di non punibilità” posto che l’articolo 13 del Decreto legislativo 74/2000, comma 1 recita: “I reati di cui agli articoli 10-bis, 10-ter e 10-quater, comma 1, non sono punibili se, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, i debiti tributari, comprese sanzioni amministrative e interessi, sono stati estinti mediante integrale pagamento degli importi dovuti, anche a seguito delle speciali procedure”. La non inclusione del comma 2 dell’articolo 10-quater tra i reati “non punibili” in caso di pagamento integrale comporta quindi l’attivazione dell’azione penale, con la eventuale mitigazione data dalla diminuzione delle pene sino alla metà e dalla non applicazione delle pene accessorie previste dall’art.12[11].
Conseguenza comune alle due fattispecie è il raddoppio dei termini per l’accertamento, (ai sensi dell’articolo 43 del DPR 600/1973 in tema di imposte sui redditi e dell’articolo 57 del Dpr n. 633/1972 in tema di IVA) che prevedono che “in caso di violazione che comporta obbligo di denuncia ai sensi dell’articolo 331 c.p.p. per uno dei reati previsti dal Decreto Legislativo 10 marzo 2000, n. 74, i termini di cui ai commi precedenti – cioè gli ordinari termini di decadenza per l’accertamento – sono raddoppiati relativamente al periodo di imposta in cui è stata commessa la violazione”. Per effetto delle disposizioni introdotte dall’articolo 2, comma 1 (e 2 per l’Iva) del Decreto legislativo 128/2015, in vigore dal 2 settembre 2015, che ha integrato il terzo comma dell’articolo 43, “il raddoppio non opera qualora la denuncia da parte dell’Amministrazione finanziaria, in cui è ricompresa la Guardia di finanza, sia presentata o trasmessa oltre la scadenza ordinaria dei termini di cui ai commi precedenti”.
L’interrogazione parlamentare e l’orientamento di Assonime
Il 26 giugno 2019 il Sottosegretario Massimo Bitonci ha risposto alla interrogazione presentata al Ministro delle Finanze dai deputati Fregolent e Marattin. La richiesta dei parlamentari, assolutamente condivisibile, era tendente a sollecitare la adozione di “iniziative per procedere alla sistemazione e alla puntualizzazione della portata agevolativa dell’incentivo, al fine di porre le imprese in condizione di non essere suscettibili di sanzioni per un’errata applicazione della disciplina agevolativa, a tal fine prevedendo, qualora alla luce di chiarimenti interpretativi emerga la spettanza di un beneficio inferiore rispetto a quanto fruito, che l’impresa possa regolarizzare la propria posizione secondo le ordinarie regole, senza applicazione di sanzioni, provvedendo al versamento dell’importo del credito indebitamente utilizzato in compensazione e dei relativi interessi e presentando apposita dichiarazione integrativa”.
Il Sottosegretario ha risposto che «sussiste incertezza obiettiva di fronte a previsioni normative equivoche, tali da ammettere interpretazioni diverse e da non consentire, in un determinato momento, l’individuazione certa di un significato determinato… l’errore di diritto viene ritenuto rilevante, tale cioè da escludere la colpa. In applicazione del richiamato principio, la soluzione prospettata dagli Onorevoli interroganti è già stata ammessa con diversi documenti di prassi, quali le già richiamate, circolari n. 10/E del 16 maggio 2018 e n. 13/E del 27 aprile 2017, con cui l’Agenzia delle Entrate ha già riconosciuto la possibilità, per l’impresa che a seguito dell’emanazione di nuovi chiarimenti interpretativi intenda rideterminare l’importo del credito d’imposta già fruito «di presentare dichiarazione integrativa a sfavore e di procedere al versamento del credito non spettante senza alcuna sanzione».
Si dovrebbe attribuire un senso costruttivo a questa affermazione e organizzare un “protocollo” da attivare nei casi di accertamento di violazioni sul credito d’imposta R&S, tenendo anche conto delle condivisibili opinioni espresse da Assonime, nella circolare n.23 del 14 novembre 2019: “Né priva di rilevanza è poi la circostanza che nel caso di specie l’errore non verte su questioni di natura giuridica (competenza, inerenza, ecc.), bensì, come accennato, su aspetti “tecnici” per i quali l’impresa deve necessariamente fare affidamento su valutazioni di soggetti terzi altamente qualificati. Ciò posto, riteniamo che la condotta delle imprese che hanno commesso errori nell’individuazione delle c.d. attività agevolate, non possa tout court considerarsi fraudolenta (rectius: insidiosa) nei casi in cui tali soggetti abbiano adempiuto ai vari oneri documentali previsti in materia e abbiano svolto in concreto attività che, in ogni caso, si innestano in più ampi processi di innovazione (di prodotto e servizio). Intendiamo riferirci ai soggetti che sono in possesso della certificazione della documentazione contabile attestante “l’effettivo sostenimento delle spese ammissibili e la corrispondenza delle stesse alla documentazione contabile predisposta dall’impresa”, della “relazione tecnica che illustri le finalità, i contenuti e i risultati delle attività di ricerca e sviluppo svolte” e che abbiano adempiuto agli oneri documentali previsti dal d.m. 27 maggio 2015. In questi casi il credito d’imposta utilizzato in compensazione non solo è stato indicato nel modello di dichiarazione e nel modello di versamento, ma trova altresì riscontro in evidenze contabili oggetto di apposita certificazione rilasciata da soggetti terzi, nonché nella documentazione prevista in materia. È necessario, dunque, pena una non giustificata violazione dei principi di equità e proporzionalità cui è informato il nostro sistema sanzionatorio – e dei quali l’Amministrazione finanziaria ha più volte fatto concreta applicazione17 – distinguere la condotta prima descritta da quella ben più grave delle imprese che hanno svolto attività che nemmeno in astratto possono essere ritenute c.d. agevolate e nei cui confronti dovrebbe scattare la sanzione per credito inesistente”.
Conclusione
Che il sistema sanzionatorio sia iniquo è evidente. A questo si aggiunge che la modalità “massiva” per più annualità dei controlli fa sì che la verifica a posteriori, magari influenzata da circolari e note interpretative postume, potrebbe generare un montante di credito d’imposta indebitamente fruito di gran lunga superiore al capitale sociale delle imprese che ne hanno beneficiato.
Diventa quindi un obbligo sociale essere particolarmente cauti nel conferire diritto di cittadinanza a norme che presumono juris et de jure la esistenza del dolo, che determinano di per sé la morte delle imprese interessate e la fine dell’imprenditore, colpito anche nel patrimonio personale, nella libertà personale e, quindi, anche in eventuali altre attività di cui fosse partecipe. Conosciamo bene tutti l’effetto domino (in negativo) che viene generato nel sistema economico-sociale dalla perdita di credibilità nei confronti del sistema bancario o del sistema degli appalti, soprattutto in presenza di processi o di condanne, talvolta accompagnati da una ingenerosa oltre che ingiusta campagna mediatica. Abbiamo tutti il dovere morale e giuridico di evitarlo.
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Note
- Successivamente fu chiarito che col termine “allegazione” non si intendeva il deposito presso il registro imprese come allegato al bilancio di esercizio, ma doveva essere conservata ed esibita unitamente allo stesso (Circolare 13/E 2017) ↑
- Nelle varie fonti interpretative si fa riferimento ala manuale di Frascati e al manuale di Oslo. ↑
- Articolo 1, comma 421, L. 30/12/2004 n.211:“Ferme restando le attribuzioni e i poteri previsti dagli articoli 31 e seguenti del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, e successive modificazioni, nonché quelli previsti dagli articoli 51 e seguenti del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633, e successive modificazioni, per la riscossione dei crediti indebitamente utilizzati in tutto o in parte, anche in compensazione ai sensi dell’articolo 17 del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241, e successive modificazioni, nonché per il recupero delle relative sanzioni e interessi l’Agenzia delle entrate può emanare apposito atto di recupero motivato da notificare al contribuente con le modalità previste dall’articolo 60 del citato decreto del Presidente della Repubblica n. 600 del 1973.In caso di mancato pagamento, in tutto o in parte, delle somme dovute entro il termine assegnato dall’ufficio, comunque non inferiore a sessanta giorni, si procede alla riscossione coattiva con le modalità previste dal decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602, e successive modificazioni. Per il pagamento delle somme dovute, di cui al periodo precedente, non e’ possibile avvalersi della compensazione prevista dall’articolo 17 del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241. (145) In caso di iscrizione a ruolo delle somme dovute, per il relativo pagamento non e’ ammessa la compensazione prevista dall’articolo 31 del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122” ↑
- La Corte di Cassazione con la sentenza 31 marzo 2017 n. 8429, ha affermato che se il contribuente presenta nei termini istanza di accertamento con adesione ai sensi dell’art. 6 comma 2 del DLgs. 218/97, questa istanza sospende sia la riscossione, sia il termine per il ricorso per un periodo di 90 giorni. ↑
- Il Ministero Sviluppo Economico con circolare n. 38584/2019 affermò pure che “In sede di rilascio della certificazione della documentazione contabile non è richiesta al soggetto incaricato della revisione legale dei conti (ovvero, nel caso di imprese non tenute al controllo legale dei conti, al soggetto qualificato cui viene richiesta la certificazione) alcuna valutazione di carattere tecnico in ordine all’ammissibilità al credito d’imposta delle attività di ricerca e sviluppo svolte dall’impresa”. ↑
- I. Si applicano al consulente tecnico le disposizioni del codice penale relative ai periti.II. In ogni caso, il consulente tecnico che incorre in colpa grave nell’esecuzione degli atti che gli sono richiesti, è punito con l’arresto fino a un anno o con l’ammenda fino a 10.329 euro. Si applica l’articolo 35 del codice penale. In ogni caso è dovuto il risarcimento dei danni causati alle parti. ↑
- Si pensi alla ipotesi che si è verificata col credito d’imposta previsto dall’articolo 8 della Legge 388/2000 per gli investimenti nelle aree svantaggiate, relativamente al quale la compensazione fu sospesa e graduata entro limiti annuali coerenti con gli stanziamenti nel bilancio dello Stato ↑
- Indebita compensazione.1. E’ punito con la reclusione da sei mesi a due anni chiunque non versa le somme dovute, utilizzando in compensazione, ai sensi dell’articolo 17 del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241, crediti non spettanti, per un importo annuo superiore a cinquantamila euro.2. E’ punito con la reclusione da un anno e sei mesi a sei anni chiunque non versa le somme dovute, utilizzando in compensazione, ai sensi dell’articolo 17 del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241, crediti inesistenti per un importo annuo superiore ai cinquantamila euro. ↑
- Sezione 3 Penale n.7180/2017 ↑
- Luigi Ferrajoli, “La natura sanzionatoria della confisca per equivalente”, sulla rivista Euroconference News del 26/7/2017 ↑
- 1. La condanna per taluno dei delitti previsti dal presente decreto importa:a) l’interdizione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese per un periodo non inferiore a sei mesi e non superiore a tre anni;b) l’incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione per un periodo non inferiore ad un anno e non superiore a tre anni;c) l’interdizione dalle funzioni di rappresentanza e assistenza in materia tributaria per un periodo non inferiore ad un anno e non superiore a cinque anni;d) l’interdizione perpetua dall’ufficio di componente di commissione tributaria;e) la pubblicazione della sentenza a norma dell’articolo 36 del codice penale. ↑