La crisi alimentare, innescata dalla guerra del grano, è il fantasma che si aggira nelle cancellerie del Mediterraneo e del mondo, dopo che l’Onu ha avvertito che potrebbe materializzarsi l’incubo del food shortage.
La guerra del pane si annida, come una matrioska, dentro il conflitto in atto, l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia. Infatti Russia e Ucraina rappresentano, insieme, il 12% delle calorie scambiate a livello commerciale globale. Intanto il blocco dei porti, da una parte minati, dall’altro sotto reale minaccia russa, impedisce alle navi di portare il grano nei Paesi affamati. Anche il governo Draghi ha chiesto di fare presto per evitare nuove tragedie.
Inoltre, già a inizio conflitto, abbiamo scoperto che neanche in Italia nessuno sa “quanto siano pieni i silos”, ci conferma Andrea Bacchetti dell’Osservatorio Smart Agrifood del Politecnico di Milano perché mancano sensori IoT. Invece, l’agricoltura 4.0 e big data potrebbero intanto aiutarci a rendere coltivazioni e zootecnia più sostenibili, resilienti e monitorabili.
Tuttavia la tecnologia non basta. Infatti, la digitalizzazione funziona veramente solo in un contesto politico che riduca le diseguaglianze, in aumento dopo pandemia, lockdown, inflazione galoppante e guerra nel cuore dell’Europa. “Il problema di fondo rimane quello delle diseguaglianze globali”, commenta Mauro Del Corno, giornalista finanziario de Il Fatto Quotidiano. Del resto, viviamo in un contesto in cui già il caro bollette e il rincaro a doppia cifra degli alimenti di prima necessità spingono i ceti medio-bassi verso la soglia della povertà.
La guerra del grano in cifre
Abbiamo scoperto quanto il mondo sia fragile nel corso della pandemia e del lockdown, quando si sono interrotte le catene di fornitura. Ne abbiamo toccato con mano gli sconquassi nel corso delle ultime stagioni torridi, a causa dei cambiamenti climatici. Infatti, l’India non esporterà il suo grano a causa delle temperature sopra i 50 gradi Celsius.
Agricoltura 4.0, come evolve lo scenario in Italia: il ruolo della blockchain
Inoltre, la guerra di Putin sta mietendo vite umane nelle città ucraine devastate dalla guerra, ma sta anche ponendo le basi per futuri disastri. Sta in parte impedendo di raccogliere il grano e di seminare in quella terra che rappresenta il granaio del mondo e soprattutto dei Paesi poveri che s’affacciano nel Mediterraneo.
Il sistema alimentare, reso fragile dalla pandemia, rischia dunque di uscire con le ossa rotte a causa dello shock energetico, della siccità provocata dai cambiamenti climatici e ora dalla guerra in Ucraina.
Infine, il World Food Programme aveva già avvertito che l’anno in corso sarebbe stato un annus horribilis per sfamare il mondo, a causa dei ritardi nella semina in Cina, il più grande produttore di grano al mondo, a causa delle piogge, e delle elevatissime temperature che attanagliano l’India in un girono infernale.
Nel frattempo, l’era dei climate change colpisce anche gli USA, la Francia e il Corno d’Africa, dove la siccità è la peggiore degli ultimi quarant’anni. E, dulcis in fundo, la pandemia non è ancora finita, come dimostrano i lockdown cinesi. Infatti, non hanno ricevuto la prima dose di vaccino ben 2,7 miliardi di persone.
L’aumento dei prezzi delle derrate alimentari
Il prezzo dei cereali è salito del 53% da inizio della guerra, innescando fra l’altro un’inflazione che non si vedeva da decenni in Occidente, dove pre-pandemia vivevamo nel cosiddetto secolo deflazionista. Ma il prezzo del grano è salito di un ulteriore 6% lo scorso 16 maggio quando l’India, a causa di un’ondata di calore, ha annunciato di bloccare l’export, per timore che la carestia colpisca il Paese.
Infatti, 48 ore dopo la decisione del Premier indiano Narendra Modi, il capo dell’Onu, António Guterres, ha lanciato l’allarme: il food shortage potrebbe durare per anni. La mancanza di alimenti di prima necessità potrebbe colpire i Paesi del Sud del Mediterraneo, ma non solo. Si prevede che le persone senza sicurezza alimentare possano passare da 440 milioni a 1.6 miliardi. Ciò potrebbe innescare nuove ondate migratorie.
L’esplosione della povertà
La povertà estrema potrebbe dunque quadruplicare, mentre potrebbero sfiorare quota 250 milioni le persone che non hanno alimenti base e cibo a sufficienza per vivere e dunque potrebbero morire di fame. Inoltre la limitazione della supply chain alimentare di Russia e Ucraina potrebbe gettare nella povertà altre centinaia di milioni di persone.
Lo scenario di guerra del grano, a sua volta, avrà conseguenze devastanti: disordini politici, bambini che muoiono di stenti e persone affamate. Già prima della pandemia, secondo Save the Children, cinque bambini morivano di fame ogni minuto (settimila al giorno le morti di minori legati alla malnutrizione), in un mondo dove 350 milioni di bambini vivevano in zone fragili, colpiti da guerre e carestie. Ma, post-pandemia e nello scenario attuale, in cui la Russia bombarda i silos pieni di grano e blocca i porti e c’è chi dirotta le navi verso la Siria (Paese alleato), il food shortage è un’arma. Infatti Vladimir Putin ha dichiarato che potrebbe sbloccare la crisi del grano in cambio della revoca delle sanzioni.
I leader del mondo sanno dunque che la fame è uno dei principali problemi che affligge il mondo e che è urgente quanto mai trovare una soluzione globale.
L’impatto del conflitto bellico in Ucraina
Russia e Ucraina detengono, insieme, il 28% del grano scambiato sui mercati globali, il 29% dell’orzo, 15% del mais e il 75% dell’olio di girasole.
Ma i numeri non dicono tutto, infatti, qui entra in gioco la geografia. Metà dei cereali importati da Libano e Tunisia arriva dalle zone di guerra. Per Libia ed Egitto la percentuale sale ai due terzi. L’export alimentare dell’Ucraina fornisce derrate alimentari essenziali a 400 milioni di persone nel mondo.
La guerra sta dunque disarticolando le supply chain, anche perché l’Ucraine per difendersi da un assalto inaudito da parte di Mosca ha dovuto minare le acque dei suoi porti, mentre la Russia sta paralizzando il porto di Odessa, dopo aver conquistato l’accesso completo al Mare di Azov.
Nelle economie emergenti, le persone spendono per il cibo un quarto dei loro budget. Questa quota sale al 40% nell’Africa sub-sahariana. In Egitto il pane fornisce il 30% di tutte le calorie ingerite. In molti Paesi importatori, i governi non sono in grado di offrire sussidi per aiutare i poveri, soprattutto se sono già impegnati negli sforzi economici per importare energia, un altro mercato afflitto dal rialzo dei prezzi.
L’allarme dei leader
Tuttavia la crisi rischia di essere solo all’inizio e perfino di peggiorare. L’Ucraina ha già venduto il raccolto prima della guerra. La Russia sta invece ancora gestendo la vendita di derrate di grano, nonostante il rialzo dei costi e l’incremento dei rischi di spedizione. Comunque, i silos Ucraini non danneggiati dal conflitto sono pieni di grano ed orzo: l’urgenza è aprire i porti del Mar Nero, come ha anche chiesto il Presidente del Consiglio italiano Mario Draghi.
A fine giugno i contadini dovranno immagazzinare il loro grano per evitare che marcisca il raccolto, ma manca loro il carburante per i trattori e la forza lavoro, in fuga a causa della guerra, per la prossima semina. Mosca, a sua volta, a causa delle sanzioni imposte per fermare la guerra, subisce la carenza di semenze e pesticidi che in genere compra dall’Union europea (cui per altro vende il suo fertilizzante, senza il quale calerà la resa dei raccolti). Siamo entrati in un circolo vizioso.
Il rincaro dei prezzi e l’impatto sul food shortage
Intanto, in questo scenario di guerra e incertezza politica e sociale, il prezzo del grano sale, canniballizzando i margini di profitto, a causa dell’aumento dei prezzi di fertilizzanti ed energia (esportati dalla Russia). I principali costi che pesano sul budget degli agricoltori sono in forte aumento, a causa delle sanzioni. Senza fertilizzanti, potrebbe subire un crollo verticale anche la produttività dei campi. La resa globale potrebbe calare ai livelli più bassi di sempre.
Infatti un quinto dell’export di fertilizzanti subisce restrizioni, e ciò causerà un impatto devastante sulla crisi alimentare: la fame nel mondo non può che aumentare.
Infine, a causa della paura del food shortage, 23 Paesi dal Kazakhstan al Kuwait – hanno dichiarato severe restrizioni all’export di cibo che copre in genere il 10% delle calorie scambiate sui mercato globali.
L’olio di palma avrebbe potuto sostituire l’olio di girasole, prodotto da Russia e Ucraina. Ma l’Indonesia, da cui proviene il 60% dell’olio di palma, ha decretato un bando temporaneo sull’export.
L’Europa sta aiutando, ma dovrebbe fare di più per dare una mano all’Ucraina a trasportare il grano via ferrovia e strade ai porti in Romania o nel Baltico, ma, secondo le più rosee previsioni, solo il 20% del grano potrebbe prendere questa strada.
Agricoltura 4.0: come la tecnologia può mitigare i rischi
Per affrontare le sfide attuali in campo agricolo, la tecnologia offre un’ampia gamma di possibilità per garantire la sicurezza alimentare dei Paesi in futuro. Ne abbiamo parlato con Andrea Bacchetti (Osservatorio Smart AgriFood del Politecnico di Milano e dell’Università degli Studi di Brescia): “La premessa fondamentale è che Agricoltura 4.0 non può fornire la soluzione definitiva all’impatto del conflitto russo-ucraino, di cui possiamo immaginare solo le conseguenze nel breve termine, ma non nel medio-lungo periodo”.
“Il paradigma di Agricoltura 4.0 ha tuttavia caratteristiche che possono aiutare a mitigare gli effetti e a portare a casa la lezione che ci avrebbe già dovuto impartire la pandemia per accelerare la transizione. Infatti il mercato di Agricoltura 4.0”, continua Bacchetti, “sta crescendo a un ritmo importante. Siamo passati, nel giro di tre anni, da un fatturato di 100 milioni scarsi a 1,5 miliardi di euro. Inoltre, sono più di mille le soluzioni agricole sul mercato e migliaia di aziende hanno già adottato almeno una tecnologia 4.0. Infine, il 6% – ma è una stima prudenziale – della superficie agricola italiana è coltivata con almeno una tecnologia di Agricoltura 4.0”.
Produrre di più con meno input
Quella che un tempo si definiva agricoltura di precisione si è evoluta in Agricoltura 4.0 e sta conquistando terreno. “Anche per far fronte alla sfida dei cambiamenti climatici e al post-pandemia, al di là della guerra in Ucraina. Infatti viviamo in uno scenario complicato”. “Agricoltura 4.0 significa applicare una o più tecnologie digitali in campo, ma non solo, con l’obiettivo di aumentare la resa, la produttività. Dunque, significa produrre di più con meno risorse: meno acqua, meno fertilizzanti (che produce la Russia), meno concime e meno mangimi per le aziende zootecniche.
Produrre di più è un bene perché la popolazione umana sta crescendo e dobbiamo soddisfare il fabbisogno alimentare delle persone, in uno scenario di forte crescita della popolazione a livello globale. Produrre di più, inoltre, con meno risorse fa aumentare il livello di indipendenza nei confronti di forniture che provengono dall’estero (compresi i Paesi coinvolti dal conflitto).
Non nel breve, ma nel medio-lungo periodo, se le aziende investono in questi strumenti, Agricoltura 4.0 rappresenta un paradigma per aumentare l’indipendenza da supply chain su cui non è detto che si possa più contare”.
I vantaggi di Agricoltura 4.0
“Utilizzare meno input, significa ridurre l’acquisto di prodotti che scarseggiano o i cui costi sono molto aumentati, riducendo ulteriormente i margini che in genere le aziende sfruttano per investire e innescare il volano per aumentare il livello di digitalizzazione dei processi di produzione agricola”.
“Inoltre, i trattori smart a guida parallela permettono di lavorare la stessa superficie di campo, utilizzando meno gasolio, perché la guida parallela evita di ripassare più volte sullo stesso punto: su ampie superficie riduce il consumo di carburante in maniera significativa”.
La tracciabilità
Altro tema importante è quello della discontinuità delle filiere, a causa della guerra del grano innescata dal conflitto. “In ambito zootecnico, le aziende stanno facendo fatica a riceve mangimi e grano dai consueti fornitori, magari coinvolti nel conflitto. Le imprese sono costrette a cambiare improvvisamente fornitori, senza poter svolgere una valutazione preventiva della qualità dei mangimi o del grano acquistati. Succede che stanno comprando a scatola chiusa: la verifica della qualità della merce avviene solo ad acquisto fatto.
Tuttavia, esiste la tecnologia per monitorare la qualità delle forniture, la tracciabilità e valutare così il cambio di fornitori sulla base dei dati”.
I dispositivi IoT
Un’altra tecnologia preziosa nell’attuale scenario riguarda “la sensoristica IoT per valutare il livello di scorte di grano nei principali magazzini, per rispondere a una domanda cruciale: per quanto tempo posso tollerare le mancare forniture di grano sulla base delle scorte che effettivamente ho nei silos? Il digitale può rispondere a questo interrogativo, grazie ai sensori IoT (Internet of Things) nei silos che sarebbero in grado di monitorare il livello degli stock in tempo reale. Dovremmo sensorizzare almeno i grandi consorzi agrari e i centri di raccolta, senza pretendere un’implementazione capillare, per fornire stime adeguate. Grazie ai dispositivi IoT, avremmo una situazione sotto controllo per valutare fino a quando siamo coperti, se dobbiamo adottare contromisure in caso di difficoltà legate alla situazione effettiva sulla base dei dati”.
Monitoraggio in real-time
Il monitoraggio in real time è cruciale. Infatti, l’Italia non deve solo sfamare la sua popolazione, ma è anche un Paese esportatore di pasta, dunque acquista grano anche per lavorarlo e fare export: la nostra filiera agro-alimentare è messa a dura prova. “Invece nessuno sapeva quale fosse il livello dei silos allo scoppio del conflitto per assenza di sensori IoT laddove servirebbero. Non abbiamo ancora imparato la lezione della pandemia, speriamo che questo tragico conflitto ci lasci come eredità positiva la necessità di monitorare la situazione reale con i sensori IoT”.
Big data in campo
Infine, i big data rivestiranno un ruolo crescente in agricoltura. “Ma attualmente ci accontenteremmo di veder gestire gli small data, i normalissimi dati nelle mani di aziende agricole e conto-terzisti: questi ultimi, per la natura del loro lavoro (cooperare con più aziende agricole e più fasi), dispongono di una miniera di dati. Potrebbero sviluppare anche un business: accanto all’attività sul campo, il conto-terzista potrebbe agire da consulente, raccogliendo i dati, rielaborandoli e mettendoli a disposizione dei clienti. Tuttavia, attualmente i conto-terzisti si riempiono di GByte di dati, al fine di fatturare, e poi sovrascrivono, perché purtroppo non c’è ancora un mercato per usare questa miniera di dati per migliorare la produttività.
La strategia Farm to fork
“Tuttavia il futuro è nei big data: grazie a IoT nei grandi centri di raccolta, avremmo dati dinamici su migliaia di centri di raccolta per consentire un monitoraggio per prendere decisioni data-driven e consapevoli. Servono una crescita di consapevolezza e maturità da parte delle aziende agricole: la loro miniera di dati potrebbe migliorare la propria produzione e contribuire a progettualità di filiera in grado di offrire benefici a valle, per chi trasforma e per il consumatore finale in ambito della strategia europea Farm to Fork“, conclude Bacchetti.
Oxfam fotografa le diseguaglianze
Partiamo dai numeri. All’apertura del WEF 22 di Davos, Oxfam ha presentato uno studio da cui emerge che, durante la pandemia, sono stati incoronati 573 nuovi miliardari, mente i big dei settori energetico e alimentare hanno registrato un aumento delle proprie fortune, al ritmo di un miliardo ogni due giorni. Intanto, ogni trentatre ore un milione di persone rischia di cadere sotto la soglia della povertà estrema. Le cause sono note: cambianti climatici, conflitti, sperequazione delle risorse, instabilità politica eccetera. Il problema vero sono le diseguaglianze globali.
Infatti la tecnologia come Agricoltura 4.0 funziona veramente solo in un contesto politico che riduca le diseguaglianze, mentre la povertà estrema nel mondo potrebbe quadruplicare.
I Paesi importatori di grano necessitano urgentemente di aiuti. La fornitura di cereali d’emergenza dovrebbe infatti raggiungere solo le nazioni più povere. Per gli altri Paesi, invece occorre agire sul finanziamento a tassi favorevoli, forse mediante il FMI, mentre le donazioni dovrebbero aiutare i più poveri e il taglio del debito potrebbe sbloccare le risorse vitali di altri Paesi importatori. Ridurre le diseguaglianze nel mondo è la cura per risolvere alla radice i problemi.
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“Il Rapporto Oxfam è l’ultima puntata di un film che va in onda da molti anni”, sottolinea Mauro Del Corno, “anni in cui si rilevano queste dinamiche in cui si osserva la divaricazione fra ricchissimi con una quota crescente di asset e persone che scivolano in povertà.
La pandemia ha amplificato questa dinamica. In pandemia infatti abbiamo visto esplodere i patrimoni dei grandi nomi delle Big Tech (da Jeff Bezos a Elon Musk) sull’onda della diffusione della digitalizzazione: il ricorso all’eCommerce con i negozi chiusi durante i lockdown. Inoltre, la ricchezza dei Ceo e fondatori delle Big Tech si aggira sui 200 miliardi di dollari e in genere è basata sulle partecipazioni ovvero le quote che detengono nelle società IT.
In questo momento, assistiamo al ritorno dei titoli energetici, già in aumento prima dello scoppio del conflitto, favoriti purtroppo dal conflitto in Ucraina che ha fatto esplodere la fame di petrolio e gas. Quindi, titoli energetici, Big Tech e Big Pharma – che ha beneficiato dalla ricerca di vaccini in pandemia – hanno fatto accrescere i patrimoni dei super ricchi, generando un aumento delle diseguaglianze.
Si affaccia poi la crisi alimentare, anche se c’è il tentativo di sbloccare i porti, mentre è venuta meno una parte dei raccolti.
In questo scenario domina inoltre un attore dominante, la Cargill, un colosso alimentare delle materie prime da 5 miliardi di dollari di utile netto. Non è un’azienda quotata, ma appartiene a una famiglia, i cui membri appartengono tutti al ristretto club dei miliardari.
Le ricadute del rincaro dei prezzi avvengono dunque soprattutto su Paesi già poveri: dal Nord Africa al Libano, dallo Yemen (Paese in guerra) all’Egitto, fino al Bangladesh. L’aumento dei prezzi pesa tuttavia sul portafoglio di tutti, anche nelle nostre società benestanti, già colpite dall’inflazione e dal rincaro delle bollette.
Stiamo dunque tornando alle tensioni sui prezzi del cibo del 2011, anno – non a caso – delle Primavere arabe, poche finite bene, la maggior parte male. Anche la crisi gravissima dello Sri Lanka è riconducibile a queste tensioni sui prezzi.
Inoltre, non dimentichiamo il ruolo sconvolgente dei cambiamenti climatici che hanno costretto l’India, grande produttore di grano (che in genere consuma), a bloccare l’export per evitare problematiche legate al food shortage”, sottolinea Del Corno.
Conclusioni
Pandemia e conflitto hanno esacerbato la dinamica di aumento delle diseguaglianze. “Tutti conosciamo le ricette per abbattere le diseguaglianze (dalla leva fiscale in poi), ma tutto è fermo”, evidenzia Del Corno. “Basta pensare, a livello globale, alla tassa minima globale del 15% sulle multinazionali del Big Tech: cercava di introdurre un minimo di equità, rendendo più difficile l’esportazione di capitali nei Paradisi fiscali. Invece, per adesso, è ancora tutto fermo e va per le lunghe. Anche a livello nazionale, la riforma fiscale favorisce chi guadagna di più rispetto a chi ha ricavi inferiori: un altro elemento che favorisce le diseguaglianze invece di ridurle.
Prima della rivoluzione reaganiana, le aliquote cercavano di eliminare questi squilibri, poi l’onda lunga degli anni ’80 ha cambiato tutto. nessuno chiede di ritornare a quel livello eccessivo di tassazione, ma qui siamo andati da un eccesso all’altro, se un Warren Buffet è come se fosse un operaio che paga 20 euro al mese di tasse e basta, viste le proporzioni. Tutti fanno appelli per ridurre le diseguaglianze, ma ancora trust e schemi fiscali aiutano i ricchissimi a pagare sempre meno tasse. Il lato positivo del dibattito in corso è che la consapevolezza sta crescendo, ma ancora c’è molto da fare”. Ormai è dimostrato che “diseguaglianze eccessive nuocciono alla crescita economica“, ora dobbiamo passare dalle parole ai fatti.
Piccole patrimoniali sui grandi patrimoni sopra i 50 milioni di euro sono fra le proposte interessanti che circolano negli Stati Uniti fra gli economisti che si sono formati nell’ultimo decennio intorno alle idee di Thomas Piketty, fra i primi studiosi a denunciare l’ineluttabilità del meccanismo delle diseguaglianze, potrebbero fare scuola. Purtroppo ancora facciamo meno di quanto servirebbe. L’aspetto positivo è la presa di consapevolezza della necessità di redistribuire, dopo la pandemia e questo devastante conflitto in corso.