digitale e imprese

Da Transizione 4.0 a Transizione 5.0? Ma cambiare il nome non basta



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Aumentare la capacità delle imprese di stare sul mercato in un’ottica di medio-lungo termine è il fine ultimo dell’annunciata revisione del programma Transizione 4.0. Sì, dunque, a nuove misure purché appropriate e senza eccessive discontinuità con il piano precedente

Pubblicato il 18 mag 2023

Stefano da Empoli

presidente dell’Istituto per la Competitività (I-Com)



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Sul fronte degli incentivi per la digitalizzazione delle imprese, compresi nel programma Transizione 4.0, il 2023 è iniziato con una cattiva notizia e con una buona promessa.

La cattiva notizia è che il regime previsto fino al 31 dicembre dell’anno scorso veniva depotenziato allo scoccare del nuovo anno, con aliquote sensibilmente ridotte o addirittura azzerate.

La buona promessa, che deve ancora trasformarsi in realtà, è quella di una revisione complessiva del piano, finanziato con le risorse PNRR. Che dunque confermi o addirittura rafforzi le misure che hanno funzionato meglio e ne introduca di nuove per rimediare ai limiti del programma.

Certo, una buona regola di ogni cosa umana è quella di non lasciare il certo per l’incerto e questo iato di depotenziamento del regime di incentivazione esistente non fa certo bene né alle imprese né alla digitalizzazione.

Tuttavia, il décalage era già previsto dall’ultima versione del piano Transizione 4.0, varata dal Governo Draghi e ogni revisione deve essere ricontrattata con Bruxelles, perché si tratta di aiuti alle imprese ma soprattutto perché su questo capitolo di spesa potrebbe configurarsi una delle principali revisioni del PNRR, coprendo le spese aggiuntive con le risorse non utilizzate, grazie alla facilità nonché velocità di attuazione dello strumento. Dunque, bene pazientare qualche mese, sperando non si vada oltre. E che soprattutto la revisione porti i frutti sperati, al di là del nome che la contraddistinguerà (ad ora i più papabili sembrerebbero Industria 5.0 o Transizione 5.0 ma non si esclude neppure Impresa 4.0, tutti contraddistinti dal passaggio al paradigma 5.0).

L’evoluzione del regime di incentivazione dal 2016 ad oggi e cosa prevedono le misure in vigore da gennaio 2023

Il piano Transizione 4.0 è finanziato nell’ambito della Missione 1 – Componente 2 “Digitalizzazione, innovazione e competitività del sistema produttivo”, con una dotazione finanziaria di 13,381 miliardi di euro (a cui si aggiungono 5,08 miliardi di euro del Fondo complementare) e l’obiettivo di sostenere la trasformazione digitale delle imprese incentivando gli investimenti privati in beni e attività a sostegno della digitalizzazione attraverso il riconoscimento di un credito di imposta a fronte di: acquisto di beni materiali;

  • acquisto di beni immateriali 4.0 (es. software avanzati);
  • acquisto di beni immateriali tradizionali (es. software di base);
  • attività di R&D&I;
  • attività di formazione 4.0.

I beni materiali e immateriali 4.0 soggetti al regime di incentivazione sono specificati nei due Allegati (A e B) predisposti dall’allora Ministero dello Sviluppo economico.

Il Piano Nazionale Industria 4.0

Nello specifico, le forme di sostegno ricomprese nel piano Transizione 4.0 affondano le loro radici nel 2016, con il lancio del Piano Nazionale Industria 4.0, poi diventato Impresa 4.0 prima di essere ribattezzato con il nome attuale.

Dando seguito, come già ricordato, al décalage previsto dal PNRR, dal primo gennaio 2023 è scaduto tout court sia il regime di favore per l’acquisto di beni materiali e immateriali tradizionali che per le attività di formazione 4.0. Mentre sono stati previsti tagli significativi per l’acquisto di beni strumentali 4.0 (sia materiali che immateriali) così come per le attività di ricerca, sviluppo e innovazione. Per i beni materiali 4.0, si è stabilito un dimezzamento per tutte le classi di investimento: dal 40% al 20% fino a 2,5 milioni di euro; dal 20% al 10% da 2,5 a 10 milioni di euro e dal 10% al 5% da 10 a 20 milioni di euro (che è il tetto massimo ammissibile).

Il taglio è stato ancora maggiore per i beni immateriali 4.0, dal 50 al 20% (fino a un tetto di 1 milione di euro). Mentre è intervenuta ancora la regola del dimezzamento (dal 20 al 10%) per le attività di ricerca di base, industriale e sperimentale. La scure è stata più lieve (ma su aliquote di partenza più ridotte) solo per le attività di innovazione tecnologica “green”, che godono al momento di un credito d’imposta sceso dal 15% al 10%. D’altronde, è stata proprio la dimensione della sostenibilità ad aver indotto il cambio di nome da Impresa 4.0 (come il piano Industria 4.0 era stato ribattezzato già nel 2018) a Transizione 4.0, di fatto anticipando il cambio di paradigma che va sotto il nome di Industria 5.0

Il possibile passaggio al paradigma 5.0

Del paradigma 5.0 si parla da alcuni anni, specie dopo che fu introdotto il concetto di Società 5.0 in Giappone dalla più importante associazione di imprese, Keidanren, nel 2016, a indicare un modello che cerca di tenere insieme lo sviluppo economico con la soluzione di problemi sociali e ambientali.

È stato però uno studio della Commissione europea, apparso all’inizio del 2021, Industry 5.0. Towards a sustainable, human-centric and resilient European industry, a introdurre il tema nell’agenda di policy europea. Provando a integrare il paradigma 4.0., centrato sulle tecnologie della comunicazione e dell’informazione, con i tre concetti chiave di sostenibilità, centralità della persona e resilienza. Già declinati peraltro in molte politiche dell’Unione europea, dal Green Deal (per diventare il primo continente a impatto climatico zero) all’intelligenza artificiale antroprocentrica e più recentemente alle policy per aumentare la resilienza del sistema produttivo europeo, come il Chips Act, il Critical Raw Materials Act e il Net Zero Industry Act. Se i primi due concetti erano già piuttosto consolidati nel framework legislativo europeo, il terzo lo è rapidamente diventato dopo il doppio shock del Covid e dell’invasione dell’Ucraina da parte della Russia.

Va tuttavia aggiunto che al momento di Industria 5.0 parlano soprattutto documenti e iniziative della direzione generale ricerca e innovazione della Commissione europea, alla quale si deve anche il paper del 2021 citato sopra. E per ora una delle primissime applicazioni concrete è il progetto in via di lancio denominato Sure 5.0 (“Supporting the smes SUstainability and REsilience transition towards Industry 5.0 in the mobility, transport & automotive, aerospace and electronics European Ecosystems”), finanziato sempre dalla stessa direzione della Commissione europea nell’ambito del programma Horizon Europe. Un progetto, peraltro, molto interessante sulla carta perché prevede per le imprese partecipanti rapporti di valutazione, webinar, roadmap individuali, servizi su misura, eventi di networking e apprendimento tra pari, oltre al supporto finanziario. Ma con impatto limitato a 1000 piccole e medie imprese per un costo complessivo di circa 5 milioni di euro in tre anni.

Cosa rivedere in concreto Transizione 4.0 per accompagnare le Pmi nell’era digitale

In effetti, il principale vantaggio di misure fiscali automatiche e di facile accessibilità come quelle contenute nel piano Industria 4.0 e poi in Impresa 4.0 e Transizione 4.0 è quello di favorire la partecipazione delle piccole e medie imprese (Pmi), che sono proprio i soggetti che hanno bisogno della maggiore spinta per abbracciare con convinzione la transizione digitale (oltre a costituire la stragrande maggioranza delle aziende italiane e dunque il tessuto indispensabile del sistema produttivo italiano).

Se la mancanza di valutazioni aggiornate approfondite consiglierebbe di tornare almeno in parte alle misure preesistenti (tornando al 2022), è chiaro che, in base a quanto scritto anche in precedenza, massima priorità andrebbe data ai beni immateriali 4.0, alla formazione 4.0 e alla ricerca e sviluppo. Si tratta peraltro di elementi che vanno insieme.

Il fatto che siano tuttora pochissime le aziende in grado di lavorare con i dati e di applicare soluzioni di intelligenza artificiale è più da ascrivere alla mancanza di competenze che alla disponibilità dei dati (o di modelli di AI). E se si aiutano le competenze sia internamente (es. formazione) che esternamente (es. accordi con università e centri di ricerca) e allo stesso tempo si favorisce l’acquisto di software adatto di analisi dei dati, si può far fare un salto enorme all’innovazione delle imprese. Soprattutto concentrando gli sforzi sulle piccole e medie imprese e al contempo incoraggiando la crescita dimensionale delle micro-imprese, che come noto evidenziano il massimo deficit di produttività con gli altri Paesi più avanzati.

Da valutare, inoltre, oltre a una semplificazione e a un chiarimento dei termini di applicazione delle attuali misure (es. il credito d’imposta legato alla sostenibilità ambientale ed energetica delle imprese, che risulta peraltro oggi più attuale che mai), una revisione anche delle tecnologie incluse negli allegati A e B ammessi ai crediti d’imposta (tra le quali ad esempio ancora oggi non figurano le infrastrutture di rete abilitanti le comunicazioni tra dispositivi) e lo stesso strumento d’incentivo.

L’importanza dell’orientamento agli investimenti

Rispetto a quest’ultimo aspetto, sarebbe da aggiungere un profilo a mio avviso essenziale e che oggi manca quasi del tutto: dare alle imprese, soprattutto a quelle più piccole, la possibilità di orientarsi prima di procedere ad investire in una o più tecnologie. Partendo da un’analisi dei propri fabbisogni per essere competitiva rispetto alla concorrenza nazionale e internazionale, proprio come vorrebbe fare sperimentalmente il programma Sure 5.0 a favore di 700 Pmi. Dunque, si potrebbero prevedere crediti d’imposta, o meglio ancora dei voucher, per finanziare progetti di audit 4.0 (o a questo punto 5.0, non è certo il numero o il nome che conta!) svolto da soggetti riconosciuti (centri di competenza, digital innovation hubs, altri soggetti pubblici o privati qualificati). In questo modo, si coglierebbero due piccioni con una fava: si darebbe un aiuto concreto alle PMI, propedeutico all’individuazione degli investimenti più adatti in innovazione, data la propria situazione specifica, e si farebbe decollare un mercato italiano dei servizi di innovazione tecnologica che stenta a decollare.

Prima ancora delle attività di formazione, un progetto di audit 4.0 (o 5.0) che indichi per ciascuna impresa posizionamento rispetto ai benchmark innovativi del proprio settore (o di settori limitrofi) e suggerisca gli interventi più adatti per ridurre i gap esistenti (che includa gli investimenti ma anche gli interventi di formazione, ad esempio) serve a prioritizzare le azioni necessarie in organizzazioni senza sufficiente expertise in-house, che è poi la situazione più ricorrente specie nelle piccole imprese, evitando sprechi e aumentando così il ritorno degli investimenti sia pubblici che privati. Con conseguente impatto positivo su produttività e crescita.

L’aspetto più rilevante è indurre il maggior numero possibile di imprese a cogliere le opportunità offerte dall’innovazione. Rispettando certamente sostenibilità, centralità della persona e resilienza ma in primis puntando ad aumentarne la competitività. Perché senza quest’ultima, non può esserci futuro per un’impresa e dunque neppure le altre sfide possono essere vinte (almeno non in Europa ma magari in altri continenti che si infischieranno di altri criteri).

Dunque, bene chiamare il nuovo programma 5.0, purché contenga le misure più appropriate, senza eccessive discontinuità con il piano precedente, e in ultima analisi aumenti la capacità delle imprese di stare sul mercato, in un’ottica di medio-lungo termine.

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