Lo studio

Dall’industria alla filiera: così deve evolvere il Made in Italy 4.0

I dati del report del Laboratorio RISE dell’Università di Brescia permettono di fotografare la situazione delle aziende italiane alle prese con il paradigma 4.0, con un approccio olistico. Emergono i benefici e le criticità del sistema, anche alla luce delle trasformazioni che nel tempo ha avuto il concetto di Industria 4.0

Pubblicato il 23 Set 2019

Andrea Bacchetti

Osservatorio Smart AgriFood del Politecnico di Milano e dell’Università degli Studi di Brescia

Massimo Zanardini

IQ Consulting, spin-off di Università degli Studi di Brescia

industry-4.0

Le radici del paradigma Industria 4.0 affondano nel contesto manifatturiero ed ancor di più nei reparti produttivi delle aziende, in cui l’avvento di nuove tecnologie digitali, prometteva una significativa crescita sia dell’efficienza, sia dell’efficacia dei processi. Da quel momento, all’incirca il 2012, il concetto si è evoluto e si è ampliato, secondo diverse direttrici. Approfondiamo la storia del paradigma 4.0 per comprendere meglio lo scenario attuale, grazie anche al report del Laboratorio RISE dell’Università degli Studi di Brescia che individua benefici e problemi.

I tre stadi di evoluzione di Industria 4.0

Una prima (radicale) trasformazione è avvenuta nel momento in cui il concetto di Industria 4.0 ha smesso di essere considerato una mera evoluzione tecnologica, inglobando e mettendo al centro del proprio paradigma altre componenti, quali: le persone, con le loro attitudini e competenze, le strutture organizzative aziendali, i processi.

Una successiva evoluzione del paradigma si è concretizzata nel momento in cui il modello 4.0 si è espanso sino ad inglobare altre aree aziendali, quelle non direttamente produttive, come ad esempio gli uffici tecnici, la ricerca e sviluppo, ma anche le vendite, il marketing, gli acquisti, la logistica e via dicendo. In questo senso si parla quindi di “Impresa 4.0”, non più e non solo di “Industria”.

Infine, il terzo step di evoluzione, forse il più complesso, si realizza quando il modello 4.0 fuoriesce dal perimetro delle singole aziende, fino a coinvolgere gli altri nodi della supply chain. È in questo momento che “Impresa” diventa “Filierao, meglio ancora, “Value chain 4.0.

Ma quali sono le ragioni di questa ulteriore direttrice di evoluzione del paradigma 4.0? In primis, a tutti i livelli delle filiere logistico-produttive, i clienti sono sempre più inclini a prendere parte attivamente alla progettazione e/o realizzazione dei prodotti. In parallelo, la natura stessa dei prodotti sta mutando: essi sono sempre più connessi, intelligenti e reattivi, capaci di ricevere, elaborare e trasmettere dati. Si sta assistendo alla ridefinizione dei fattori che determinano il cosiddetto “valore del prodotto”.

Infine, la connettività ha stimolato nuove forme di collaborazione lungo le filiere; basti pensare ai filoni di open innovation (innovazione aperta), distributed manufacturing (manifattura distribuita), platform economy. In questo scenario diventa sempre più complesso determinare chi sia l’attore che fruirà dei benefici derivanti dall’utilizzo di questi dati, in quanto essi potranno essere impiegati a supporto delle decisioni in diversi ambiti e a diversi stadi delle catene logistico-produttive. I concetti stessi di produzione, fornitura e consegna diventeranno sempre più sfocati, in quanto la molteplicità di attori connessi e prodotti intelligenti porterà sempre di più verso il co-design, la co-produzione e la co-manutenzione.

L’approccio olistico

La “Value Chain 4.0” è quindi l’applicazione pervasiva ed armonica delle tecnologie digitali ai diversi nodi delle filiere e il conseguente cambiamento delle relazioni che le animano, nell’ottica della snellezza, dell’agilità, della flessibilità. In sintesi, quindi, parlare solo di tecnologie è limitante, riferirsi ai soli impianti produttivi lo è ancora di più: il modello 4.0 deve essere investigato a tutto tondo, adottando un approccio olistico, che parta dalla cultura aziendale, discenda nei meandri organizzativi delle imprese e si focalizzi sulle persone e sulla necessità, sempre più stringente, di riqualificare le loro competenze.

È proprio questa la nuova visione del paradigma 4.0 che anima le ricerche del Laboratorio RISE dell’Università degli Studi di Brescia e che guida le attività di trasferimento tecnologico verso le imprese della sua spin-off IQ Consulting. Il report finale della terza edizione della ricerca sul 4.0 (disponibile qui) traccia una fotografia aggiornata del contesto italiano (coinvolgendo più di 100 imprese), in termini di diffusione del paradigma 4.0, conoscenza e utilizzo delle tecnologie digitali abilitanti, senza perdere di vista i benefici attesi / raggiunti e, soprattutto, gli ostacoli che ancora rallentano la piena diffusione del nuovo modello digitale di fare impresa.

L’auto valutazione delle aziende

Domandare ad un’azienda di eseguire una auto-valutazione in merito ad uno specifico aspetto, è sempre un buon punto da cui partire per verificarne l’effettiva comprensione. In questo caso, a domande dirette circa quale fosse la corretta definizione ed interpretazione del modello di Impresa 4.0, le aziende del campione hanno risposto in maniera (abbastanza) soddisfacente. Più della metà delle imprese del campione (51%) ritiene che “Impresa 4.0” sia “la commistione tra nuove tecnologie digitali e tecnologie informatiche, tra nuovi sistemi di produzione e lavorazioni tradizionali, grazie alla quale tutte le risorse dei diversi processi aziendali risultano essere intelligenti, integrate, interconnesse, al fine di supportare decisioni consapevoli e tempestive”. Tale visione, che si può sinteticamente definire integrata, si contrappone ad una visione tecnologica focalizzata solo sulle aree produttive aziendali, indicata dal 29% dei rispondenti: “Impresa 4.0 si manifesta nella diffusione di sensoristica avanzata nel macro processo logistico-produttivo, capace di fornire intelligenza alle risorse (macchinari, componenti, persone), raccogliendo e trasmettendo dati relativi al proprio impiego e all’ambiente circostante”. Il restante 20% si suddivide tra chi vede il modello 4.0 come un supporto all’automazione industriale (16%) e chi invece lo lega alla sola diffusione di piattaforme e soluzioni informatiche (4%).

Altro indizio a supporto di un’accresciuta maturità delle imprese si evince dai seguenti dati: il 40% di esse dichiara di stare implementando diverse soluzioni tecnologiche 4.0 in modo integrato tra loro (rispetto al 20% dell’edizione 2017) ed un altro 40% dichiara di implementare quantomeno soluzioni verticali, non in modo sinergico e armonico (rispetto al 35% del 2017). Solo il 5% si dichiara completamente fermo ai blocchi di partenza (rispetto al 10% di due anni fa), mentre il 15% sta ancora studiando a analizzando le modalità con cui procedere. Complessivamente, rispetto al 2017, ci sono più imprese (+25%) che dichiarano di essere concretamente in cammino verso la configurazione 4.0. In generale, sembra quindi terminata (o quasi) la fase di studio e sia partita la fase dell’operatività e della concretezza (Figura 1).

Figura 1 – Azioni adottate verso il paradigma 4.0

Il posizionamento delle imprese

Aldilà di questi primi numeri, come si posizionano concretamente le aziende rispetto alla configurazione 4.0? Per rispondere a questa domanda è utile ricondursi alla matrice di posizionamento elaborata per l’edizione del 2017 della ricerca. La matrice si fonda su due variabili, ovvero:

  • La Conoscenza che ciascuna azienda ha delle 6 tecnologie digitali investigate
  • L’Utilizzo delle tecnologie, ovvero lo stadio di implementazione che è stato raggiunto (nessuna applicazione, studio preliminare / analisi di fattibilità, implementazione in corso, utilizzo effettivo)

Le classi che emergono dall’incrocio di queste due variabili permettono di rispondere alla domanda: quante sono le aziende che stanno già abbracciando il paradigma 4.0, e come si posizionano quelle che invece ancora non lo hanno fatto? Rispetto all’edizione precedente, i numeri definiscono uno scenario moderatamente positivo, che permette di intravedere un effettivo percorso evolutivo da parte delle imprese del campione:

  • si riducono le aziende ancora ferme (o quasi), che passano dal 47% al 34%;
  • aumentano le aziende che, nonostante una conoscenza ancora poco approfondita, iniziano ad implementare le tecnologie abilitanti (dall’11% al 25%), in ottica learning by doing;
  • aumentano le stelle, che passano dal 5% all’11%.

Complessivamente, è quindi evidente la migrazione delle aziende dai cluster in alto a sinistra, verso i cluster in basso a destra della matrice: aumenta cioè sia la conoscenza delle tecnologie, sia il loro effettivo impiego (Figura2).

Figura 2 – Matrice di posizionamento tecnologica

Quali sono le peculiarità delle aziende che stanno già abbracciando questo paradigma? Non c’entrano (in via prioritaria, quantomeno) le dimensioni, mentre incidono molto il livello di informatizzazione dei processi e il coinvolgimento attivo delle funzioni IT e HR. La partecipazione attiva di questi due enti alla definizione del percorso di evoluzione e digitalizzazione sembra in particolare agire in ottica positiva sulla propensione alla trasformazione 4.0 delle imprese.

Benefici e ostacoli

Quali benefici cercano le aziende attraverso la trasformazione 4.0? Al primo posto, il contenimento dei costi e, più in generale, una maggiore efficienza delle risorse aziendali (84%). Al secondo posto, la ricerca di una maggiore qualità di prodotti e di servizi (68%). Significativa, inoltre, la terza posizione raggiunta dall’aumento della reattività: intervenire sulla capacità di intercettare prima e meglio i cambiamenti del mercato, saper soddisfare in tempi più brevi le richieste specifiche dei clienti, rappresenta un vantaggio significativo per il 66% delle imprese del campione. La creazione di nuovi modelli di business basati, per esempio, sull’offerta di servizi e non solo di prodotti fisici, raccoglie circa il 50% delle preferenze del campione, al pari dell’aumento della flessibilità, ovvero della capacità di adattare in modo elastico il business in funzione agli effettivi volumi del mercato. Molto meno rilevanti sono le possibilità per le imprese di legare l’utilizzo delle tecnologie 4.0 all’aumento dei ricavi. Presumibilmente, tale beneficio crescerà nel tempo di pari passo al processo di piena maturazione delle imprese.

Tra gli ostacoli, emerge con forza la difficoltà nel disporre di competenze specifiche a supporto dell’impiego delle tecnologie digitali abilitanti. Le imprese, nel 64% dei casi, indicano questa causa come il fattore ostativo principale alla diffusione del modello di Impresa 4.0. Non solo le competenze non sono sempre disponibili nelle imprese ma, addirittura, sono considerate scarse sul mercato del lavoro e quindi difficilmente reperibili ed internalizzabili. Solo un paio di anni fa questo ostacolo si posizionava al terzo posto della graduatoria dei fattori inibenti, superato dalla limitatezza delle infrastrutture abilitanti e dalla ridotta consapevolezza delle imprese su quali fossero le applicazioni di interesse delle varie tecnologie. Non subisce oscillazioni significative l’entità degli investimenti, indicata come freno dal 50% dei rispondenti. La sensazione degli autori è che al riguardo incida, e molto, l’incertezza politica relativa alla proroga, o comunque all’evoluzione, delle misure e degli incentivi fiscali introdotti dalla prima versione del piano industriale italiano. Si riduce infine anche il peso delle voci inerenti la limitatezza delle infrastrutture abilitanti (non che siano troppo migliorate nel frattempo; era forse il classico dito dietro il quale nascondersi?), l’assenza di provider tecnologici (l’offerta nel frattempo si è notevolmente strutturata, proponendo soluzioni sempre più modulari e scalabili, a beneficio in particolare delle PMI) e alla immaturità delle tecnologie (del resto, conoscendole di più…).

Focus sulle competenze

La limitata disponibilità di competenze specialistiche è l’ostacolo principale alla diffusione del modello di Impresa 4.0. Da un lato, le imprese sottolineano come tali competenze siano ancora poco disponibili al loro interno e, dall’altro, che esse siano pure difficilmente reperibili anche all’esterno. Come poter superare quindi questo ostacolo, considerando che la rapidità con cui queste tecnologie nascono e si sviluppano è decisamente superiore a quella con cui si possono formare persone competenti su questi temi?

Riteniamo che questo gap possa / debba essere superato tramite una duplice strategia di azione, che parta da un analitico assessment delle competenze digitali effettivamente presenti in azienda. Nulla ha senso senza una piena comprensione del livello di maturità digitale delle diverse persone che operano nei diversi processi di business di un’impresa. Svolto questo percorso di valutazione, è indispensabile discriminare tra le competenze che ragionevolmente possono essere “innestate” nelle persone già ad organico e quelle che invece dovranno essere “pescate” da fuori. Per le prime, occorrerà pensare a percorsi di formazione ad hoc, esterni (avvalendosi di università, centri di ricerca o società di consulenza) oppure interni (es. accademie digitali), capaci di riqualificare a dovere le skills digitali delle persone. Tale modalità è quella considerata più opportuna dalle aziende del campione: per il 45% delle imprese infatti, poter innestare competenze specialistiche in figure che già conoscono il contesto aziendale, può generare una serie di stimoli positivi in ottica di revisione complessiva dei propri processi e procedure.

Per il 29% invece, la modalità più corretta è quella di guardare all’esterno, andando alla ricerca di nuovi talenti digitali, possibilmente nativi digitali, non vincolati al contesto aziendale e più in generale al pregresso, in grado di portare vera innovazione. Per il 26% infine, solo rafforzando la collaborazione con enti esterni (centri di ricerca, università, studi professionali e di consulenza) sarà possibile tenere il passo del galoppante sviluppo delle tecnologie abilitanti; per tali aziende l’internalizzazione delle competenze è troppo complicata da gestire, troppo varia e troppo dinamica nel tempo, per cui è meglio avvalersi on-demand delle competenze di volta in volta necessarie.

Conclusione

Non esiste ovviamente una ricetta valida per tutti; ciascuna impresa, partendo dai propri fabbisogni e dal proprio as-is (cfr. l’assessment di cui sopra), dovrà modulare di conseguenza le diverse leve, alla ricerca del proprio ottimo.

All’interno dei cluster tecnologici evidenziati in precedenza si riscontra, come ci si poteva attendere, una situazione differente con riferimento alla disponibilità di competenze specialistiche. Per i ritardatari il gap da colmare è evidente: solo il 19% di essi dichiara di avere accesso già a competenze sufficienti per realizzare la trasformazione digitale. Al contrario, il 67% delle stelle dichiara di disporre di competenze adeguate per il controllo ed il governo delle iniziative 4.0. Il messaggio è molto semplice ed altrettanto forte: senza le competenze (delle persone), non si può realizzare la trasformazione 4.0.

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