Cosa significa davvero “digitale”? Che differenza c’è rispetto al concetto di “Information Technologies” (IT)? Finché un’impresa non coglie a fondo come la rivoluzione digitale sia un processo di cambiamento profondamente diverso da quanto già vissuto con l’adozione di tecnologie informatiche, difficilmente riuscirà a diventare davvero un’organizzazione agile ed innovativa.[1]
Quando e come il CIO si è fatto rubare il lavoro dal CDO
Negli ultimi anni si è assistito alla progressiva diffusione del “Chief Digital Officer” (CDO). Ma che differenza c’è rispetto al “Chief Information Officer” (CIO)? Non di rado il “Chief Digital Officer” è incaricato della cosiddetta digital transformation, si occupa di stimolare strategie aziendali basate sui dati e sulle opportunità offerte dalla digital economy, stimola lo sviluppo di una cultura innovativa in azienda. Parallelamente, il CIO è sempre più focalizzato su attività legate a sviluppo e mantenimento dell’architettura informatica: ovvero, assicurare che tutti in azienda abbiano a disposizione sistemi informativi adeguati rispetto ai propri bisogni, hardware e software all’altezza, assicurare che tutto funzioni sempre al meglio.
I più maligni potrebbero arrivare ad affermare che – per farla breve – i CIO si siano fatti soffiare dai CDO la parte più divertente del loro lavoro. Evidentemente si tratta di una provocazione, il discorso è ben più complesso e diversificato nei vari contesti aziendali. Tuttavia, è altresì vero che la rivoluzione digitale segna una nuova era della computer science in azienda, con tratti ben diversi rispetto all’epoca delle cosiddette “Information Technologies” (IT), o delle “Information and Communication Technologies” (ICT), poco cambia. Il punto è che troppe aziende non riescono a cogliere il fatto che la Digital Transformation delinea una vera e propria nuova epoca, che “digitale” è diverso da “IT”. La conseguenza è che ci si imbarca in processi di trasformazione senza sapere dove si sta andando, con l’inevitabile esito che non si arriva da nessuna parte.
Al riguardo, il CEO di Twilio – Jeff Lawson – afferma: “Abbiamo vissuto tre grandi ere del software. L’era del grande software, con progetti multimilionari di durata pluriennale. La successiva grande era del software SaaS: improvvisamente non avevi più bisogno di un reparto IT per installare server e potevi fare tutto più velocemente. Oggi, siamo entrati un una nuova fase: invece di avere un manager di linea che acquista un’intera soluzione software (sia essa in locale o in cloud), hai gli sviluppatori in grado di acquistare singoli ‘mattoncini’ che consentono alle aziende di costruirsi in casa di tutto“.
Tutto diventa molto più agile, creativo, modulare. Tutto ciò si concretizza in una poderosa leva di vantaggio competitivo secondo prospettive alternative e nuove competenze, tanto tecnologiche quanto manageriali. Tutto parte dal comprendere cosa siano davvero le risorse digitali nella loro essenza. Spoiler: software e hardware c’entrano fino ad un certo punto.
Cosa sono le risorse digitali, davvero
Le risorse digitali sono componenti modulari che racchiudono asset aziendali basati su bit in grado di creare valore accessibile – e, se necessario, programmabile – mediante un’interfaccia uomo-macchina[2]. Tutto qua. Una sorta di black box cui chiedere una magia senza farsi troppe domande su dove sia il trucco, che scambiano dati e informazioni con altri parti del sistema, che possono essere programmate per affinare e/o customizzare il compito svolto. A differenza dei tradizionali micro-servizi, le risorse digitali presentano un livello di granularità più elevato e sono facilmente riconoscibili come asset aziendali, quali elementi atomici di un ben più ampio e articolato business model. Per esempio, una piattaforma di commercio elettronico può scegliere di sviluppare un proprio sistema di pagamento, oppure collegare per l’appunto una risorsa digitale come Paypal o Stripes, condividere dati con essa e godere delle sue funzionalità (creazione di valore), senza dover comprendere approfonditamente come essa sia costruita da un punto di vista tecnologico. Si tratta di qualcosa di ben diverso da server o potenza di calcolo in cloud, ovvero dalle tradizionali risorse IT.
Risorse agili by design
A differenza del software tradizionale che – una volta rilasciato è di fatto sotto il controllo della funzione IT e del CIO – le risorse digitali rimangono sotto il governo del creatore della risorsa digitale (che potrebbe essere il CDO, un innovation manager, un altro manager di linea, etc).
Per via delle loro caratteristiche, le risorse digitali sono incredibilmente agili by design, permettendo all’azienda di costruire architetture “vive” che mutano rapidamente e di continuo: si possono progettare architetture innovative facendo leva su sterminate opzioni a basso costo (economico e di implementazione), le stesse architetture possono essere ripensate in modo estremamente veloce e frequente, possono dirsi “vive” in quanto evolvono spontaneamente (ogni qual volta che chi li ha create pubblica una nuova release).
Non si tratta solo di servizi in cloud acquisiti da terze parti: le risorse digitali come sopra definite non di rado sono sviluppate internamente: si tratta semplicemente di oggetti digitali modulari con una interfaccia che consente loro di essere interrogati o riprogrammati, atti a svolgere una data funzione. Questo a prescindere che siano sviluppati internamente o esternamente. Tant’è che le architetture digitali combinano risorse digitali sviluppate internamente ed esternamente, risorse digitali con altre risorse IT, risorse digitali e risorse di altra natura (es. umane), come ad esempio nel caso della trasformazione digitale di Mc Donald’s.
Risorse digitali in azione: il caso Mc Donald’s
Nell’immaginario collettivo, la nota realtà nel settore dei fast food McDonald’s Corporation non è il tipico esempio di impresa digitale. Questo perché – il punto è sempre lo stesso – non v’è ancora sufficiente consapevolezza circa il fatto che le risorse digitali sono un qualcosa di più e di diverso rispetto agli usuali siti web, device portatili, server e tecnologie informatiche di vario tipo prese a sé.
McDonald’s, nell’ambito della sua trasformazione digitale – loro l’han fatta sul serio – ha introdotto un’iniziativa strategica volta a creare un sistema davvero omni-canale per l’ordinazione e la consegna dei pasti, la quale permette di scalare e mantenere l’agilità, offrendo al contempo un’esperienza al cliente che può dirsi fluida e coerente, qualsiasi sia il canale di interazione che si sceglie (nello store interagendo con il personale, nello store in autonomia, al mc drive, usando la loro APP e con il servizio di home delivery).
Oggi McDonald’s serve più di 64 milioni di clienti ogni giorno e, nei momenti di punta, elabora tra 250 e 500 mila ordini all’ora. Ogni ordine, indipendentemente da dove e come viene effettuato, attiva un servizio cloud customizzato, dove viene valutato e indirizzato al ristorante corretto. Qualsiasi interazione riguardante l’ordine di un cliente – come può essere il pagamento o l’indicazione dei tempi di consegna – è gestita da questa applicazione digitale innovativa, sviluppata da McDonald stessa, ma che si configura come un modulo “indipendente” che si interfaccia agilmente con il resto e crea valore. I dettagli dell’ordine vengono comunicati al POS del ristorante appropriato al momento più adeguato. Ad esempio, per migliorare la qualità del cibo e limitare i tempi morti per chi si occupa della consegna, il sistema digitale sopra citato comunica l’ordine solo in un momento ottimale per la preparazione basato sulla geolocalizzazione dei conducenti che consegneranno il cibo.
Questo è fare business digitale, un qualcosa ben diverso dall’adottare un software – per quanto innovativo – o implementare un’architettura in cloud. Grazie a questo approccio, McDonald’s sostiene di essere in grado di entrare in un nuovo mercato in 24 ore. Una mera sparata di corporate propaganda? Non lo sappiamo con certezza, ma sappiamo che una volta siglata la collaborazione fra McDonald’s e Uber Eats, quest’ultima è stata in grado di accadere ed utilizzare il modello sopra descritto più o meno instantemente. Questo proprio in quanto la capacità digitale di McDonald’s è modulare e non richiede interazione e coordinamento tra il ristorante e i vari canali digitali.
In altre parole, basta che l’interfaccia di programmazione del ristorante specificata dal modulo di ordinazione sappia delineare esaurientemente tutti i parametri per qualsiasi richiesta, sia in termini di tecnologia (ad es.: aderenza a esplicite richieste di accettazione/rifiuto POST) che di governance delle transazioni (ad es.: commissioni variabili basate sui tempi di attesa). Il punto più rilevante è proprio che la capacità digitale di preparazione dei pasti introdotta da McDonald’s incapsula una risorsa abilitata dall’IT, che risiede nella risorsa digitale stessa ed è indipendente dall’intera architettura informatica di McDonald’s.
A differenza di altri esempi – come Stripe Payment o Google Maps -, questa capacità digitale non è confinata meramente in un’applicazione software. Piuttosto, include beni fisici (es. sistemi di visualizzazione in cucina) e lavoro umano (ad es.: addetti alla consegna del cibo), che si combinano con un software.
È proprio ciò a trasforma un’azienda in una organizzazione realmente data-driven: l’approccio digitale di McDonald’s fa sì che diventi molto semplice mappare dati sui suoi asset fisici e sul lavoro delle persone, nonché capire come valorizzate tali dati al fine di generare soluzioni strategiche innovative, ridurre costi, incrementare profitti (data monetization).
Generare valore mediante orchestrazione e creazione di risorse digitali
Come detto, superare la mera logica IT e adottare un approccio effettivamente digitale consente di conseguire livelli senza precedenti di agilità, reattività e velocità di esecuzione, aprendo al contempo alla possibilità di soluzioni davvero innovative e funzionalità originali, oltre la mera informatizzazione dell’analogico.
Tale approccio si sostanzia nello sviluppo e attuazione di due principali competenze organizzative:
- Digital Orchestration: quale capacità di riconfigurare internamente – se necessario – talune risorse IT in risorse digitali (modulari, capaci di incapsulare valore, programmabili e interrogabili mediante adeguate interfacce) e/o di fare scouting di risorse digitali sviluppate da terze parti, per poi attivare architetture strategiche che combinano fra loro risorse di diversa natura: risorse digitali, risorse IT, risorse umane, etc.
- Digital Building: ovvero, sviluppo di risorse digitali del tutto nuove. La filosofia di questo approccio è ben sintetizzata da John Collison, co-fondatore di Stripe: “Stripe prende la complessità e la astrae dalle persone. Se parli con chiunque abbia mai dovuto implementare pagamenti online capisci subito che stai entrando nell’ottica di doverti dotare di team esperti di IT e di pagamenti. Non è così che dovrebbe essere. La nostra filosofia è quella di rendere disponibile una piattaforma che assolve ad una funzionalità [pagamenti online], così che ci si possa concentrare su ciò che davvero conta: rendere un prodotto o servizio più competitivo”.
Nota bene: una trasformazione digitale ispirata a questo approccio e su queste due core-capabilities va ben oltre l’adozione di tecnologie aperte come le API. L’analisi dei casi più di successo mostra come sia fondamentale consolidare anche altre pratiche complementari. Ad esempio, sono fondamentali le scelte di progettazione organizzativa – che seguono logiche diverse rispetto ad altri paradigmi –, è cruciale adottare principi e cultura propri dei sistemi modulari, occorre sedimentare una certa capacità di identificare livelli appropriati di astrazione.
La metafora del mercato
Per favorire il riutilizzo e la ricombinazione delle risorse digitali, diverse aziende utilizzano la metafora del “mercato” per organizzare e comunicare come le risorse digitali dovrebbero essere rese disponibili all’interno dell’azienda. Questa metafora implica che le risorse digitali siano progettate e implementate per la fornitura autonoma da parte di utenti esterni con una varietà di tecniche specifiche (ad es., tokenizzazione dei dati per ridurre le barriere al riutilizzo, utilizzo di cataloghi di risorse dati o API per facilitare la sperimentazione e l’esplorazione di nuove idee).
Un ulteriore fattore critico di successo è il passaggio da una mentalità di progetto a una basata su “strategic objects” (o prodotti digitali). Un dirigente (che lasciamo anonimo per sua richiesta) coinvolto in un nostro studio ha così riassunto l’essenza di questo approccio: “Stiamo passando da una visione basata su grandi progetti ad una incentrata su domain-driven architectures, dando alle persone prodotti da utilizzare all’interno di tali domini operativi. In questo scenario, forniamo del budget ai diversi team per incapsulare nelle loro iniziative dei prodotti digitali [strategic objects che generano valore] e fornirli attraverso interfacce digitali ad utenti interni e/o esterni. Questo è un cambiamento epocale.” La principale implicazione del passaggio da progetto a “strategic objects” è che i “progetti vengono completati” mentre gli strategic objects “vivono”, perdurano nel tempo by design e devono essere supportati durante tutto il loro ciclo di vita con lo stesso approccio, dal loro concepimento in avanti. Inoltre, una mentalità di prodotto / oggetto digitale incoraggia l’evoluzione costante e il miglioramento delle risorse digitali senza aspettare i requisiti formali degli stakeholder.
A questo punto è importante chiarire un possibile equivoco: le competenze prettamente tecnologiche sono importanti anche nel reame digitale come qui definito. Sono competenze molto rilevanti al fine di supportare l’orchestrazione e la creazione di risorse digitali. Ad esempio, molte organizzazioni devono saper come ridisegnare l’infrastruttura IT per valorizzare al massimo il potenziale delle risorse digitali in senso stretto. Tale ristrutturazione, generalmente abilitata dal cloud, implica la deframmentazione di soluzioni monolitiche e crea interessanti opportunità. Ciò vale tanto per i sistemi legacy sviluppati internamente che per i sistemi acquistati da fornitori esterni. La promessa delle risorse digitali di aumentare l’agilità, la reattività e la velocità di esecuzione è in gran parte abilitata dalla facilità di riutilizzo e ricombinazione.
In breve, un approccio troppo superficiale e sbrigativo – del tipo “tu fornisci il servizio e io mi limito ad utilizzarlo” – non porterà i benefici attesi. Le organizzazioni digitali di successo sono proattive, fanno reskillling e sentono il bisogno di nuove competenze, reinventandosi continuamente attorno alle potenzialità della trasformazione digitale secondo i principi qui discussi.
Conclusioni
Il mondo è cambiato. Viviamo oggi grand challenges – come il cambiamento climatico, le pandemie, le tecnologie esponenziali – mai conosciute prima, per intensità d’impatto, ampiezza con cui si influenzano ogni settore e ambito geografico, nonché per simultaneità delle stesse. In questo quadro, i livelli di complessità ed incertezza sono tali che forse dobbiamo rassegnarci al fatto che il futuro semplicemente non si può né prevedere né pianificare. Quindi, occorre re-immaginare le organizzazioni di conseguenza.
Non solo: i tempi di adattamento sono pressoché azzerati. I nostri avi hanno avuto decenni per adattarsi al cambiamento dal cavallo al treno. Gran parte dei manager del nostro tempo – nella corso della loro vita – hanno prima avuto al più qualche anno per capire la rivoluzione, ad esempio, del cloud computing; oggi vivono una situazione dove hanno al più qualche settimana per comprendere come non farsi travolgere dall’intelligenza artificiale generativa (forse meno).
Sottoposti ad una pressione così esasperata verso forme di innovazione trasformativa ed iper-agilità, l’adozione di un approccio digitale – nella sua vera essenza – è una condizione ormai necessaria e ineludibile, non più un’opzione d’innovazione alternativa ad altre. Purché ci sia piena consapevolezza e preparazione su questi temi, quale sfida cruciale anzitutto per CIO e CDO – sì, alla fine l’unica cosa che conta è cosa fanno queste figure e come pensano strategicamente, non l’etichetta sul biglietto da visita – e più in generale per tutte le aziende che intendano sopravvivere e prosperare nei prossimi difficili anni che ci attendono.
Note
[1] Questo articolo è si basa sui risultati di un progetto di ricerca svolto per l’ “Advanced Practices Council” della Society for Information Management (USA), coordinato dal prof. G. Piccoli.
[2] Si veda anche: Piccoli, G., Rodriguez, J. and Grover, V., 2022. Digital Strategic Initiatives and Digital Resources: Construct Definition and Future Research Directions. MIS Quarterly, 46(4).