Le grandi crisi solitamente accelerano le tendenze già in atto facendo emergere, più rapidamente di quanto sarebbe accaduto in condizioni di normalità, gli attori economici più in grado di adeguarsi ai nuovi contesti. Esse aprono spazi interessanti di crescita per le imprese e gli imprenditori che si dimostrino capaci di coniugare innovatività e attrattività finanziaria.
Occorre però che il nostro Paese favorisca questo processo. È essenziale che almeno una parte delle (purtroppo scarse) risorse pubbliche che potranno essere messe in gioco sia utilizzata per “costruire futuro” e non per mantenere artificiosamente in vita imprese zombie.
Due i futuri possibili a partire da questo scenario.
Prima di esaminarli, facciamo il punto sulla situazione economica attuale e vediamo perché è così importante cominciare a pensare ora al futuro e su quali direttrici è essenziale concentrare gli investimenti.
Perché ci deve interessare il futuro
Dovremmo essere tutti molto interessati al futuro, perché è lì che passeremo il resto della nostra vita. Almeno, questo è quanto sosteneva Charles Franklin Kettering, ingegnere e geniale inventore americano.
Per troppo tempo, invece, nel nostro Paese ci siamo interessati più del presente che del futuro, a differenza di ciò che hanno fatto nel secondo dopoguerra i nostri padri, cui dobbiamo gran parte degli investimenti infrastrutturali su cui ancora oggi contiamo. Quando sarà il momento valuteremo i modi, i tempi, i provvedimenti presi a livello politico per fronteggiare l’emergenza.
Ora il dovere di tutti è pensare al futuro, per far sì che l’enorme prezzo che il paese sta pagando e pagherà per questa epidemia, in termini sia di vite umane che di impoverimento collettivo, non venga sprecato.
Il punto fondamentale è capire se abbiamo imparato qualcosa, oppure se non aspettiamo altro che tornare “quelli di prima”: in quest’ultimo caso, come diceva Winston Churchill, avremmo «sprecato una buona crisi».
Sull’orlo del precipizio
In questi giorni il Governo ha varato il Documento di Economia e Finanza 2020, dai numeri eccezionali, in una fase dell’economia italiana altrettanto eccezionale, mai come quest’anno da leggere con le dovute cautele a causa dell’aleatorietà dell’emergenza nei prossimi mesi. Rispetto alla Nadef pubblicata nel settembre 2019 il quadro macroeconomico italiano è stato chiaramente stravolto. Se le precedenti previsioni ipotizzavano una crescita per il 2020 pari allo 0,6% del Pil, il Def 2020 stima una caduta dell’8%: “Questa nuova previsione sconta una caduta del PIL di oltre il 15% nel primo semestre e un successivo rimbalzo nella seconda metà dell’anno. Il recupero del PIL previsto per il 2021 è del 4,7 per cento”. Rispetto alle stime di altre istituzioni private, il Governo mette in conto uno scenario meno pessimista e riporta che “il presente documento presenta anche uno scenario di rischio, in cui l’andamento e la durata dell’epidemia sarebbero più sfavorevoli, causando una maggiore contrazione del PIL nel 2020 (10,6 per cento) e una ripresa più debole nel 2021 (2,3 per cento), nonché un ulteriore aggravio sulla finanza pubblica”.
Secondo le analisi effettuate dall’ISTAT, dal punto di vista territoriale, nessuna regione italiana sarà in grado nel 2021 di recuperare i livelli di fatturato pre-covid19. Per 6 Regioni la perdita di ricavi del 2020 sarebbe superiore al 20% (Basilicata, Abruzzo, Sardegna, Piemonte, Valle d’Aosta, Lazio); nelle altre la caduta sarebbe intorno al 15%. In questo scenario da brividi circa 4,3 milioni di Pmi, 1,2 milioni aziende artigiane e oltre 5 milioni di partita Iva sono oggi la platea più a rischio fallimento.
La situazione italiana è sicuramente più difficile degli altri Paese UE, ma in tutto il mondo il rischio di danni irreversibili è enorme, causa la montagna di debiti che si sta accumulando. Si pensi che negli USA ci sono già 26 milioni di persone a carico dello Stato, nell’Unione Europea abbiamo superato i 30 milioni di persone. L’esempio cinese, il Paese che prima di tutti ha contenuto i contagi e ha ripreso l’attività industriale, non è confortante. È vero che hanno riaperto le fabbriche, ma quello che manca è il “consumatore”, manca la domanda per ripartire.
Le famiglie sono molto prudenti nella ripresa dei consumi. Cerved ha presentato un’indagine nel mese di aprile sul sentiment delle famiglie in cui emerge che il 37,5% delle famiglie teme notevolmente, a breve termine, di perdere il lavoro, e il 23,2% lo teme moltissimo. Il 37% ha un timore elevato (e 15,5% elevatissimo) che l’azienda per cui lavora possa chiudere.
Per l’Italia il Def prevede già quest’anno mezzo milione di disoccupati in più. Da qui il grande stato di incertezza; rispetto al quale si spiega anche lo scetticismo verso le misure adottate dal Governo, ritenute non decisive e insufficienti. Il sostegno al reddito serve per vincere l’insicurezza. Al tempo stesso serve un piano infrastrutturale per la ripresa e un affiancamento alle imprese.
Stimolo alla domanda e sostegno pubblico
Sulle pagine del Corriere Economia[1] è stata lanciata l’idea di istituire un Fondo di ricostruzione e sviluppo (Fors) di 150 miliardi, finalizzato alla capitalizzazione/ricapitalizzazione azionaria di soggetti industriali leader nei settori nei quali l’Italia potrà basare il suo futuro modello di crescita (agroalimentare, biomedicale, logistica, automazione, infrastrutture digitali). È un’idea audace. Sarebbe lungimirante pensare di dotare il Paese di una capacità infrastrutturale più moderna. In aggiunta al Fondo ci sarebbero anche le risorse messe a disposizione dalla BCE e dall’Unione Europea (Mes, Recovery Fund e il prossimo bilancio pluriennale), che potranno aiutare a tamponare nel breve l’emorragia economica e sanitaria, ma che serviranno anche nel lungo periodo, in un’orizzonte in cui dobbiamo pensare anche alla sostenibilità ambientale e sociale, tematiche che sembrano al momento accantonate ma che diventano fondamentali per qualsiasi strategia di ripresa si vorrà intraprendere. Se la responsabilità del Fondo deve essere attribuita a una “Investiment Authority”, come proposto, perché allora non chiedere alla Task Force di Colao di fare da apripista, di elaborare una proposta di rilancio industriale. Mentre Fitch ci declassa e ci assesta un colpo durissimo, ingiusto, che ci avrebbe affondato se non ci fosse l’Europa e la BCE, avere una politica industriale che abbia come direzione la tecnologia (digitalizzazione, intelligenza artificiale, robotica, gestione da remoto), sarebbe un bel segnale in grado di dimostrare che non siamo solo la nazione del debito e un popolo di evasori, ma un Paese in grado di pensare al benessere delle generazioni future.
È arrivato il momento di affermare che innovazione e sostenibilità sono alleate. Tenere tutto insieme, oggi, con risorse scarse, è difficile. È il momento di decidere dove mettere le risorse, la testa e il cuore, per poter costruire futuro e dove è possibile dare una possibilità di crescita al Paese.
L’alba di una nuova normalità
Su una scritta di un muro di Cuba qualcuno ha scritto che sarebbe meglio non tornare alla normalità perché la normalità è il problema. Quello che sta emergendo oggi è che è la cosiddetta normalità a causare la crisi. Una normalità costruita sulla necessità di avere une velocità sempre massima attorno a una esigenza di crescita continua, perpetua, un flusso continuo di prosperità inarrestabile. Partendo da questa constatazione, alcuni studiosi dell’economia sociale sono arrivati alla conclusione che è necessario rivedere i concetti economici degli ultimi venti anni. Stiamo toccando con mano le nostre fragilità: il nostro sistema ha costruito una normalità con grosse ingiustizie, disuguaglianze, con il collasso ecologico imminente, che ha generato di fatto un’anormalità. Anche quando questa normalità genera crescita e prosperità, al primo ostacolo o shock che le chiede un rallentamento della velocità, il sistema va in crisi. Non abbiamo costruito un sistema resiliente, in grado di avere degli anticorpi in grado di resistere ai cambiamenti di velocità.
Papa Francesco ci ha ricordato che “nella vita diventiamo ciò verso cui andiamo”. Se cominciassimo a considerare, oltre al binomio profitto-PIL, anche l’impatto sociale (micro) e il benessere equo e sostenibile (macro) e nel sovranazionale negli SdGs, sarebbe la prima grande prova di maturità che avremmo colto da questa crisi. Perché domani, oltre l’urgenza immediata di liquidità, fare impresa significherà andare a rafforzare questi asset nascosti dietro i concetti di valore sociale e ambientale.
È pur vero che l’imprenditore medio, che lotta per la sopravvivenza della sua impresa, già deve combattere contro la burocrazia e fare i conti con un mercato con bassi livelli di integrazione e innovazione. Gli sarebbe davvero difficile aggiungere anche la sfida della sostenibilità. Rischierebbe l’estinzione definitiva messo di fronte a queste tre grandi sfide. Gli imprenditori vanno messi nelle condizioni di giocare la partita. Ecco allora che diventa importante costruire incentivi intelligenti a favore di quella parte di imprenditori che si indirizzano verso l’adozione dei modelli di sostenibilità ambientale e sociale.
Come? Condizionando l’accesso alle risorse pubbliche anche a delle primissime e primordiali evidenze di aderire a schemi che mettano insieme il valore economico, ambientale e sociale. Costruire politiche pubbliche per aiutare le imprese a compiere una svolta del proprio modello di sviluppo, che affianchino la prosperità economica a impatti positivi sull’ambiente e sul territorio.
I due futuri possibili
Con questo scenario di fondo, ci ritroviamo di fronte alla scelta tra due futuri.
Nel primo scenario, continueremo come prima, usando aiuti pubblici a pioggia e lasciando che le imprese usino il digitale come una “commodity” e non come “core”. Il commissario alla concorrenza europea, Margrethe Vestager, un anno fa ha dichiarato che esistono due tipi di imprese e di business: quelle già digitali e quelle che non lo sono. Andrebbe considerato che, tornando semplicemente quelli di prima, ci sarebbero moltissime imprese destinate a scomparire se non mettessero il digitale nella loro ragione d’essere.
Un secondo futuro è quello in cui le imprese aderiscono convintamente alla svolta tecnologica e si lasciano permeare dal digitale. Quest’altro futuro è fatto di una nuova politica industriale, di ricerca, di tecnologie digitali, di capitale umano. Andare incontro a quest’ultimo futuro sarebbe più naturale, anche perché oggi c’è più sensibilità nei riguardi delle nuove tecnologie. C’è più consapevolezza che il digitale sia in grado di animare più innovazione nell’ambito dell’ICT, andando a rompere quel blocco all’innovazione che è riconosciuto come blocco alla produttività per la mancanza di iniziative in vari ambiti. La digitalizzazione sta trasformando tutti i comparti: il futuro dell’industria sarà fatto di integrazione e automazione, software e tecnologie all’avanguardia, intelligenza artificiale e ottimizzazione produttiva. In questo futuro, l’intervento pubblico è anche un’opportunità se lo “Stato imprenditore” – con un ruolo in crescita come ha spiegato Mochi Sismondi – saprà cogliere l’attimo per aiutare le imprese italiane a spostarsi verso la frontiera del progresso tecnologico.
In tale senso sarebbe più giusto parlare di uno “Stato innovatore”, che gli studi di Mariana Mazzucato ci hanno presentato, gli stessi che hanno portato la Commissione europea a prospettare un bilancio a trazione digitale, secondo un approccio “mission oriented”, cioè in grado di indirizzare gli investimenti pubblici e privati verso aree che possano catalizzare innovazioni a livello intersettoriale. Le imprese più solide, che hanno dovuto repentinamente convertirsi al digitale, stanno entrando nella seconda fase investendo per consolidare le infrastrutture e prepararsi alla ripresa in modo nuovo. Bisogna però supportare anche le realtà più fragili. Questa crisi può stimolare creatività e innovazione per adattarsi e rispondere alle esigenze del momento e del futuro, riducendo il divario digitale sia da un punto di vista sociale (tra individui) che economico (tra imprese). La sfida è quella di identificare i cambiamenti utili attuati e inserirli in modo strutturale nella strategia e progettazione organizzativa delle imprese per il futuro[2].
L’orizzonte di un’Europa digitale
Il disegno di policy volte alla digitalizzazione richiede quindi sì programmi di investimento coraggiosi, adeguati alla potenza trasformatrice del digitale, ma anche capacità e lungimiranza per saper comprendere e anticipare i rischi. Una chiara spinta in tale direzione è arrivata il 19 febbraio scorso dalla Commissione europea, promotrice di una nuova strategia digitale per i cinque anni a venire (“Europa pronta per l’era digitale – Europe Fit for the Digital Age”). Il principale documento della strategia (“Shaping Europe’s digital future”) delinea tre obiettivi prioritari:
- il primo ha l’ambizione di promuovere una tecnologia che sia utile per le persone, attraverso grossi investimenti nello sviluppo e formazione delle competenze digitali, nella protezione dai rischi informatici e nella connessione di dati ad alta velocità e soluzioni ad alto contenuto di innovazione, in particolare in tre ambiti: sanità, ambiente e trasporti;
- il secondo obiettivo strategico consiste nello sviluppo di un’economia digitale equa e competitiva, con istituzione di un piano d’azione comunitario per l’industria che possa facilitare il passaggio al digitale per le imprese europee e rafforzare le regole del mercato unico. Con questo obiettivo ci si propone di realizzare un ambiente favorevole per la creazione e la crescita di start-up innovative, ma anche definendo regole che rendano più chiare le condizioni per l’accesso e l’utilizzo dei servizi online e le responsabilità di chi li gestisce;
- col terzo obiettivo si punta alla creazione di un modello di società aperta, democratica e sostenibile, facendo leva con forza sulla rivoluzione tecnologica per arrivare ad un’Europa neutrale dal punto di vista climatico entro il 2050; ma anche permettendo ai cittadini di controllare più e meglio i propri dati ed essere maggiormente tutelati dalla disinformazione, in primis attraverso la produzione e diffusione di contenuti autorevoli e affidabili.
In un secondo documento strategico (“On Artificial Intelligence – A European approach to excellence and trust” – “Sull’Intelligenza Artificiale – un approccio europeo per l’eccellenza e la fiducia”), le istituzioni europee hanno formulato l’ambizioso impegno a investire 20 miliardi di euro nel settore dell’intelligenza artificiale, rafforzando un comparto che già ad oggi vanta punte di eccellenza e consistenti quote di mercato su scala globale, e provando a fare in modo che, sempre più, l’automazione dei dati e delle tecnologie possa migliorare la vita delle persone.
Terzo pilastro del futuro digitale europeo è una nuova strategia sui dati, contenuta nel documento “European Data Strategy” – “Strategia sui dati europei”. I dati sono l’elemento centrale dei cambiamenti in atto perché è a partire da essi che si determinano i nuovi modelli di vita, produzione
e consumo. Il loro corretto e avanzato utilizzo sarà fondamentale in tutti i campi economici e sociali, compreso il settore dell’intelligenza artificiale. Sicurezza e dinamismo le parole chiave che dovranno ispirare il nuovo corso, di modo da conciliare capacità di innovare e sovranità tecnologica, competitività e tutele, leadership industriale e rispetto delle persone. Rispetto a tale ondata di innovazione proposta dalla Commissione europea, l’Italia si colloca agli ultimi posti rispetto ai partners dell’Unione, con riferimento a cinque dimensioni[3]: capacità di fornire una connessione dati ad alta velocità (Connectivity); avanzamenti rispetto alle competenze digitali dei cittadini (Human capital); frequenza nell’utilizzo di servizi online quali video, musica, videogiochi, shopping online e online banking (Use of internet); grado di digitalizzazione delle imprese e la diffusione di sistemi di e-commerce (Integration of digital technology); livello di digitalizzazione dei servizi pubblici (Digital public services). E’ dunque evidentemente auspicabile l’avvicinamento del nostro Paese agli altri Stati europei, da realizzare attraverso politiche pubbliche a favore della transizione digitale, che tengano conto delle molteplici dimensioni di cui il settore si compone.
Come covid19 e crisi accelerano l’automazione del lavoro
Non si immagini che in un futuro prossimo tutti i business saranno digitali, se con tale definizione si intende che essi avranno nelle tecnologie digitali il loro principale fattore differenziante. Già adesso, se si guarda alle cosiddette “tech company”, si verifica che diverse di esse sono “fake tech”, con le tecnologie come fattore abilitante ma non differenziante. Quello che sembra certo è che nessuna impresa potrà semplicemente ignorare l’esistenza delle tecnologie digitali, anche se l’uso che ne farà potrà essere molto diverso. Lo stesso si può dire per la nuova organizzazione del lavoro e per l’uso dei nuovi strumenti di comunicazione e collaborazione a distanza. Nessuna impresa potrà ignorarne l’esistenza, se non altro per rapportarsi correttamente con le esigenze di chi opera al suo interno, ma dovrà essere l’impresa stessa a scegliere scientemente – per ciascuno dei suoi addetti – come bilanciare la presenza fisica con l’attività da remoto, nel quadro di un modello organizzativo ad hoc (presumibilmente soggetto a sperimentazioni successive). Digitalizzare e robotizzare purtroppo suona spesso come taglio dei posti di lavoro. Ma il punto è un altro. La direzione nuova è quella di ridurre il contributo umano “a rischio” per ricollocarlo su attività ad alto valore aggiunto con adeguati processi di reskilling. In uno studio condotto dalla società di software Faethm apparso sul MIT Technology Review è stato esaminato in che misura i lavori “critici per l’azienda” in tutti i settori sono “remotabili” e in che misura tali lavori potrebbero essere supportati con intelligenza artificiale (IA) e tecnologie di automazione in futuro.
I risultati principali messi in evidenzia dallo studio sono i seguenti:
- tra 32 e 50 milioni di posti di lavoro negli Stati Uniti potrebbero essere sempre più assistiti dalla tecnologia per ridurre i rischi per la salute posti dall’interazione umana e salvaguardare la produttività in un momento di crisi.
- raramente, se mai prima d’ora, i manager aziendali hanno navigato in una tale confluenza di eventi, che combina shock sociali ed economici immediati con il potenziale riposizionamento della roadmap tecnologica per il loro business intorno all’intelligenza artificiale e all’automazione.
- molti lavori specialistici possono beneficiare di un maggiore aumento con l’IA. Questi includono ruoli medici specialistici come anestesisti, infermieri e tecnologi sanitari. Un maggiore uso della tecnologia per aumentare quei ruoli li renderà probabilmente più preziosi e resistenti in qualsiasi futura pandemia.
- i lavori in cui l’assistenza IA è attualmente meno fattibile possono essere obiettivi di innovazione. Ruoli come cassieri, server e driver, i cui compiti costitutivi possono essere completamente automatizzati, possono essere a rischio poiché rivenditori e ristoranti cercheranno nel tempo di operare con meno personale.
- la preparazione pandemica accelererà la diffusione dell’IA e accelererà il ritmo dell’innovazione dell’IA nelle categorie di lavoro ad alto rischio, causando effetti sia “positivi per il lavoro” che “negativi per il lavoro”. L’ampio dispiegamento dell’IA in ruoli critici attraverso l’assistenza sanitaria e la catena di approvvigionamento avrà in definitiva un impatto positivo, rendendo i lavori essenziali più sicuri ed efficaci e aumentando la prontezza di economie come gli Stati Uniti a gestire le pandemie in futuro.
Il digitale al centro delle strategie aziendali
Trascorsi più di due mesi dalla dichiarazione di isolamento nazionale, ci stiamo iniziando ad accorgere della sfida epocale che stiamo vivendo in termini di innovazione digitale. Stiamo assistendo al più grande tentativo di trasformazione digitale del nostro Paese. È un tentativo forzato, innaturale. Ma se è vero che almeno per un po’ dovremo abituarci a una nuova normalità e che l’innovazione digitale sarà una colonna portante di questa normalità, dobbiamo sbloccare quanto prima un freno storico: l’assenza di competenze digitali. Servirà accrescere il grado di maturità digitale, ancora troppo basso. Servirà innalzare il livello di competenze, drammaticamente basso, che ci pone ai margini delle classifiche internazionali. Servirà mettere il digitale al centro delle strategie aziendali, in un sapiente mix di processi, organizzazione e tecnologia. È uno sforzo da compiere, perché l’antifragilità e la resilienza delle catene globali del valore si rafforzano con l’apporto del digitale. Gabbiotti recintati e postazioni remotizzate, realtà aumentata, Iot: gli strumenti per il grande balzo digitale anche in fabbrica ci sono. Le catene globali di valore sicuramente si accorceranno e con l’apporto delle tecnologie si creeranno filiere digitali. A tal fine servono le aggregazioni, perché il tessuto industriale italiano, benché se ne parli da almeno un decennio, resta troppo frammentato e poco diversificato sull’export per competere. Lo ha rilevato uno studio dei Kpmg[4] secondo cui, tra i settori da consolidare, ci sono il biomedicale, l’alimentare e il turismo. Poi sanità, acqua, biotecnologie, tecnologie sensibili come la robotica, i semiconduttori, la cybersicurezza, la sicurezza alimentare, i media. Tutto o quasi insomma.
La digitalizzazione delle informazioni (produzione di dati, immagazzinamento e condivisione dei dati), lungo l’intera catena del valore, potrà dare sicuri vantaggi a quelle imprese in grado di ripensare alla propria strategia con filiere a lunghezza variabile, gestite in maniera più smart con il supporto del digitale. Le tecnologie digitali possono intervenire nell’individuazione dei nodi deboli e viceversa dei nodi forti, apportando vantaggi: ingegnerizzando nuovi servizi; imparando a fare sistema attraverso aggregazioni; essere più strutturati a competere in Italia e all’estero; aumentare la trasparenza e la visibilità lungo la catena a monte e a valle; gestire il portafoglio prodotti considerando la safety come un parametro valutativo in più; individuare percorsi di logistica alternativi e più attenti all’impatto ambientale; riorientare la supply chain, eliminando le ridondanze e andando verso fornitori più sicuri e affidabili; configurare in maniera flessibile, con costi noti, i diversi nodi delle catene.
Conclusioni
In un periodo di probabile recessione come quello verso cui andiamo incontro nei prossimi mesi, in cui le stime vedono un Pil in caduta e una disoccupazione dilagante, le variabili su cui non ridurre gli investimenti sono essenzialmente due: la rivoluzione digitale che permette di mantenere attivi e profittevoli anche settori tradizionalmente non basati sull’information technology e l’attenzione alle proprie persone, attraverso l’ascolto, il coinvolgimento e la creazione di condizioni lavorative, tecnologicamente avanzate, che permettano loro di contribuire alla produttività, nonché di continuare a dimostrare e sviluppare il loro potenziale innovativo.
La prova di una rapida diffusione del digitale nell’economia e il suo già evidente impatto sui mercati del lavoro mostrano quanto il governo e le aziende debbano agire per tenere il passo con questi cambiamenti. Il governo è consapevole, in vista della presidenza italiana nel 2021 del G20, di dover accelerare verso modelli di business digitali e innovativi nello svolgimento della produzione e della cooperazione commerciale internazionale con l’obiettivo di rafforzare la resilienza delle imprese, con particolare riferimento alle Pmi.
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- “Capitali, non debito per la ricostruzione”, Corriere Economia del 27 aprile 2020. ↑
- Nel libro di Gustavo Ghidini, Daniele Manca e Alessandro Massolo, La nuova civiltà digitale, gli autori affermano che “la rivoluzione digitale è cominciata e procede con velocità diverse a seconda sia dei settori di applicazione sia del grado di sviluppo dei vari Paesi e regioni del mondo. E anche a seconda dell’età di chi la sta attraversando”. ↑
- Fonte ASVIS ↑
- Lo studio di Kpmg dal titolo “Covid19, golden power e aggregazioni industriali: impatti sul mercato italiano”, afferma che nel turismo in Italia sono ancora micro (cioè sotto i dieci dipendenti) il 92,6% delle aziende; nell’alimentare l’86%; nella moda l’81%; nelle costruzioni addirittura il 96%; nella grande distribuzione organizzata l’86,6%. Se nell’automotive si scende al 65,8%, nelle utility si risale al picco del 93,8%. ↑