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Formazione 4.0, ora c’è un vuoto: ecco su quali skill investire



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Il mancato rinnovo del credito di imposta per Formazione 4.0 offre lo spunto per riflettere sul problema dello skill gap e sulla gestione delle competenze, per individuare lacune e occasioni di crescita

Pubblicato il 26 feb 2024

Davide Conforti

Managing director Edflex Italia



formazione

La mancata proroga del credito d’imposta per Formazione 4.0 lascia un vuoto, che molti si augurano potrebbe essere colmato con i fondi del Pnrr e del piano RePowerEu. Tuttavia, al di là dell’origine dei finanziamenti, vale la pena riflettere sulle modalità di investimento.

I sussidi, nella loro generalità, sono sempre un’arma a doppio taglio: se indirizzati bene sono un booster di sviluppo, ma se l’erogatore non ha un piano strategico, o il ricettore ne sbaglia l’utilizzo – un tempo si chiamava politica industriale – sono l’ennesima occasione perduta che distorce il mercato.

Gli obiettivi di Transizione 5.0

Da una prospettiva ottimistica, il piano Transizione 5.0 va a potenziare tutte le risorse che, da Industria 4.0, sono state dispiegate affinché il Paese completi la propria rivoluzione industriale. È un piano senza eguali in Europa. Non solo di carattere economico- industriale, bensì culturale. Non è un caso che il provvedimento includa anche il credito per la formazione 4.0. Per digitalizzare l’Italia, servono le giuste competenze.

Tuttavia, il realismo ci fa notare che, a questa occasione da non perdere fanno da contraltare i dettagli dei fondi allocati. A giudizio delle imprese, le agevolazioni restano ancora da definire. Questa impasse congiunturale si aggiunge alla ben più grave debolezza strutturale di un modello di sviluppo lento nell’erogazione, nella ricezione e nella trasformazione di questi finanziamenti in progetti industriali concreti.

Le competenze tecniche su cui investire

Per realizzare il processo di digitalizzazione in Italia, dovrebbe essere prestata attenzione a diversi settori chiave della formazione. Alcuni di questi settori includono:

  1. Tecnologie dell’informazione e della comunicazione: investire nella formazione avanzata in ambito Ict è essenziale per sviluppare competenze legate alla programmazione, allo sviluppo software, alla gestione dei dati e alla sicurezza informatica;
  2. Intelligenza artificiale e apprendimento automatico: La formazione focalizzata su Ia e machine learning è fondamentale per preparare professionisti in grado di comprendere, implementare e utilizzare soluzioni basate sull’intelligenza artificiale;
  3. Cybersecurity: data la crescente minaccia di attacchi cibernetici, la formazione in cybersecurity è cruciale per proteggere le infrastrutture digitali e i dati sensibili;
  4. Internet delle cose: la formazione sulle applicazioni pratiche dell’IoT è essenziale, specialmente nei settori dell’industria manifatturiera, energia e salute, dove l’IoT può portare a miglioramenti significativi;
  5. Analisi dei dati e Business intelligence: con il crescente volume di dati disponibili, la formazione nell’analisi dei dati e nella business intelligence è essenziale per prendere decisioni informate e guidare l’innovazione.

L’importanza delle soft skill

Oltre alle competenze tecniche però, è importante sviluppare quelle trasversali. Si tratta di qualifiche personali, sociali e cognitive, che influenzano il modo in cui i singoli lavoratori interagiscono con i propri colleghi e affrontano le sfide quotidiane in azienda. Queste competenze sono spesso intangibili e difficili da misurare in modo oggettivo, ma sono estremamente preziose sul luogo di lavoro e nella vita in generale.

Pensiamo, per esempio, alla capacità di leadership, o di problem-solving, alla creatività, alla flessibilità, all’empatia, alla gestione del tempo e dello stress. Sono tante le soft skill che possono portare al successo personale o di un’organizzazione, forse in maniera anche più dirimente rispetto a quelle tecniche.

Ed è su questo pacchetto di valori e attività che l’Italia potrebbe costruire una forza lavoro altamente qualificata e adattabile alle sfide della digitalizzazione, promuovendo al contempo l’innovazione e la competitività a livello globale. La collaborazione tra governo, istituzioni accademiche e aziende è cruciale per garantire il successo di tale processo.

Skill gap, i problemi del mercato

Già da queste colonne, il nostro “Osservatorio sulla formazione continua” ha rilevato quanto la scarsa sensibilità a colmare le skill gap professionali sia esso stesso un gap che grava su imprese e lavoratori. Le prime appaiono poco inclini a considerare il percorso di aggiornamento professionale della forza lavoro come un investimento, di tempo e risorse, che permetterebbe di migliorare le performance produttive e quindi essere più competitive.

A meno che non si percepisca un “secondo fine”. Penso al Fondo Nuove Competenze, nato con il sincero intento di incentivare la formazione e poi usato per abbattere il costo del lavoro. I lavoratori, a loro volta, risultano più orientati a un approccio “conservatore” del mercato del lavoro, tale per cui tornano più utili altri servizi di Welfare, invece che percorsi formativi.

Perché formazione 4.0 non è stato rinnovato

A questo handicap del mercato, si aggiungono le défaillances dello Stato. Anzi, dell’ecosistema più in generale. Perché il governo non ha rinnovato Formazione 4.0? Perché i precedenti crediti di imposta per la formazione digitale non hanno raccolto i risultati sperati.

Il Voucher Italia Digitale per la digitalizzazione delle Pmi, per esempio, da molte regioni è stato erogato, è poi scaduto, senza essere infine rinnovato (come invece accaduto per Emilia Romagna, Lazio, Lombardia e Piemonte). È il segno di:

  • un tessuto imprenditoriale disomogeneo, aggravato da sacche di vera e propria deindustrializzazione, dove, prima ancora della Formazione 4.0, andrebbe varato un piano di emancipazione economica;
  • dell’assenza di comunicazione tecnica Stato-imprese, sulle facilitazioni fiscali del primo a disposizione delle ultime. Un’impresa non adeguatamente formata – in termini di Hr – o aggiornata dei bandi sul tappeto non saprà mai dell’accesso ai fondi. Un ente erogatore, che non sa promuovere ai soggetti produttivi – e pure ai lavoratori – le risorse che ha in pancia non è un partner affidabile per lo sviluppo di un’azienda.

Conclusione

Si parla spesso di carenza di manodopera in maniera trasversale. Gli ultimi dati Unioncamere-Anpal dicono che quasi un posto di lavoro su due è difficile da coprire. I picchi sono nella metallurgia e nel mobile. Forze andrebbe fatta anche un’analisi più puntuale interna alle singole imprese. Chi stabilisce cosa manca in azienda, è adeguatamente formato a farlo? E chi, all’interno della Pubblica amministrazione, definisce la roadmap dei fondi da distribuire?

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