Formazione continua, magari utilizzando le tecnologie per sviluppare metodi innovativi di apprendimento. Assessment per identificare con precisione le esigenze della singola azienda, evitando percorsi eccessivamente teorici; focus sulle nuove competenze trasversali, che riguardano tutte le figure aziendali, dall’operaio ai dirigenti. E, per finire, anche la sfida generazionale di far lavorare in azienda quattro diverse generazioni di lavoratori molto diversi proprio dal punto di vista formativo.
Già, sono molte le sfide che attendono le imprese per utilizzare al meglio gli incentivi alla formazione 2018 inseriti in Legge di Stabilità 2018, forse la principale novità sul fronte del Piano Industria 4.0 insieme alla proroga di super e iperammortamento, con alcune rimodulazioni. «Il 2018 dev’essere l’anno in cui si introduce l’idea della formazione continua – sottolinea Francesco Seghezzi, direttore Fondazione Adapt -. Lo Stato aiuta a iniziare un processo, ma poi bisogna andare avanti. E passare dall’idea di formazione come costo a quella di formazione come investimento. Un cambio culturale mica da poco». L’obiettivo a cui tendere, secondo Claudio Galli, consigliere nazionale e vicepresidente regionale Emilia Romagna AIDP (associazione italiana direttori del personale), è quello di «liberare competenze, oggi utilizzate per attività ripetitive, di contorno, non a valore aggiunto». La quarta rivoluzione industriale, aggiunge Franco Mosconi, docente di Economia Industriale all’Università di Parma, «è imperniata sui sistemi cyber physical, e si concretizza in un’enorme massa di dati a disposizione. Le questioni sono due: bisogna avere persone in grado di rielaborare quei dati, i data scientist, e ci vuole chi plasma l’organizzazione aziendale in modo che questi dati servano per migliorare». Molto simile l’analisi di Giovanni Miragliotta, direttore Osservatorio Industria 4.0 del PoliMi: «non ci sarà una formazione esclusivamente legata alle tecnologie, ma a tutte le skill necessarie per la trasformazione digitale. Non bisogna soltanto saper utilizzare la tecnologia, ma anche capire come si riscrivono i processi e le variabili competitive».
«A diversi livelli, tutta l’azienda deve saper leggere questa trasformazione 4.0», prosegue Miragliotta, che individua almeno cinque aree tematiche d’intervento: sviluppo di prodotto, operations, supply chain, integrazione it-ot, data science. Su questi temi, spiega, vanno arricchite le competenze rispetto alla formazione manageriale di 20 anni fa. «Il punto da cui partire è un assessment, come per le tecnologie». Ogni impresa quindi deve partire da una valutazione delle proprie competenze digitali, e avere la capacità di leggere la propria mission nello scenario competitivo. A questo punto, inizia concretamente a lavorare sulla formazione. Nel 2016 e nel 2017, lavorando al report Industria 4.0, «abbiamo chiesto alle imprese se fanno percorsi di autovalutazione della qualità del proprio profilo. Nel 2016 solo il 20-25% aziende aveva analizzato il proprio digital skill gap.
Nel 2017 la percentuale è salita significativamente». Un dato che indica come le imprese abbiano compreso la rilevanza di questa valutazione.
Ricordiamo che l’Osservatorio del PoliMi ha individuato un centinaio di competenze 4.0, e ha messo a punto uno strumento, il Dreamy (digital readiness assessment maturity model), che misura attraverso un questionario specifico il grado di preparazione dell’azienda al digitale. I processi aziendali vengono raggruppati in aree (product and asset design and engineering, production management, quality management, maintenance management, logistic management, supply chain management), e via via scomposti nei singoli processi. C’è poi una sezione speciale, chiamata digital backbone, per comprendere come i propri processi siano integrati fra loro.
Dopo questa fase di assessment, spesso le imprese si rendono conto di non avere in casa le skill adeguate. A questo punto, devono scegliere se puntare su formazione o nuove assunzioni. In questo momento, complice anche una fase di forte discontinuità con il passato, che costringe quindi le imprese a cambiamenti veloci, le imprese stanno privilegiando le assunzioni, con una caccia alle nuove competenze, soprattutto per assumere personale senior. Fra le skill più richieste, quelle statische, quindi i data scientist.
Galli sottolinea come in questa fase ci sia una formazione «più attiva, offensiva, sulle tecnologie e sui nuovi strumenti, per dare alle persone contenuti che permettano di nuotare in questo mare molto nuovo», ma servano anche «contenuti più difensivi». L’elemento debole, spiega, rischia di essere l’impiegato, diplomato, che fa benissimo il suo lavoro da 10-15 anni, e improvvisamente si trova alle prese con una app che fa il 70% del suo lavoro. Con il rischio di uscire dal mercato. Dunque, una formazione preventiva e intelligente è anche uno strumento di equilibrio sociale.
Emerge un quadro in cui l’incentivo può da una parte stimolare le imprese, attraverso il vantaggio economico, a fare velocemente i conti con la necessità di puntare sul capitale umano, dall’altra evitare la tanto temuta macelleria sociale, ovvero il rischio che i lavoratori vengano espulsi dal mercato del lavoro, aiutando le aziende a lavorare sul capitale umano che già possiedono. Anche Galli, in linea con Miragliotta, rileva un aumento della consapevolezza da parte delle imprese. In qualità di presidente del gruppo metalmeccanico di Reggio Emilia, la provincia più industrializzata d’Italia, racconta del tavolo di lavoro creato per immaginare «quali saranno le esigenze di domani (non il lavoro di domani, le esigenze)».
Mosconi insiste sul fatto che «tutta la forza lavoro dell’impresa deve crescere nelle rispettive competenze, è questa la sfida di Industria 4.0. Quindi, la formazione non riguarda solo gli ingegneri, ma anche i tecnici, gli operai in linea, tutti devono avere competenze digitali». Anche la leadership dell’impresa, sempre perché «il passaggio dall’automazione al digitale che si mischia con beni fisici non è solo una rivoluzione tecnologica, è un profondo cambiamento che impone a chi guida le imprese di avere adeguata capacità di analisi e di vision».
Il rischio, secondo Seghezzi, è che le aziende possano non avere le idee chiare, e che quindi si affidino troppo ai formatori, che magari offrono percorsi eccessivamente standardizzati: «ogni azienda è diversa dall’altra, e bisogna sempre partire da un lavoro di analisi e conoscenza del funzionamento dell’azienda». E comunque, «anche se ci fossero due aziende identiche, lavoratori sono diversi e hanno livelli di competenze diverse. Quindi, è necessario che la formazione sia progettata».
Come si fa? In primo luogo, la formazione va il più possibile legata alle attività lavorative, altrimenti risulta teorica e rischia di non essere efficace. La formazione on the job legata alle singole esigenze e professionalità può avvalersi delle tecnologie, come la realtà aumentata, o la realtà virtuale, con applicazioni in ambito formativo. Esempio: «un gruppo di 20 lavoratori opera su un nuovo macchinario. Se nelle esercitazioni l’apparecchio si rompe è un danno. Quindi, si simula il funzionamento, attraverso un tablet che riproduce l’oggetto». E’ un modo di «utilizzare la tecnologia per fare formazione on the job innovativa. Non possiamo usare solo la formazione in aula del passato, l’innovazione riguarda anche il metodo». Il secondo aspetto importante, è che gli «incentivi funzionano se introducono una mentalità nuova. La formazione non dura un anno, è un processo che parte e dev’essere continuativo e in linea con la velocità dei cambiamenti». E siamo alla formazione come investimento: «la vera formazione porta risultati, ma magari non nel trimestre successivo». E bisogna distinguere fra la formazione che riguarda le competenze tecniche, che come abbiamo visto può essere effettuata on the job anche con modelli innovativi, e quella che riguarda invece le skill trasversali. E queste, necessitano di modelli organizzativi nuovi.
In realtà un po’ tutti gli esperti concordano sul fatto che uno dei problemi del piano è che sta procedendo un po’ troppo a compartimenti stagni: prima gli investimenti in tecnologia, poi la formazione on the job, ancora in ritardo la parte relativa ai competence center, che dovrebbero rappresentare il punto di incontro fra scuola, università, imprese.
Ci sono tre diverse aree d’intervento che riguardano la formazione, ricorda Mosconi: promozione del sistema di formazione terziaria non universitaria (gli Its), la formazione universitaria, e quella on the job per chi già lavora in azienda. Il piano Industria 4.0, e le norme previste anche dalla Legge di Stabilità 2018, potenziano anche il sistema della formazione tecnica. Il docente a questo proposito sottolinea l’esperienza emiliano romagnola: «fra Bologna e Parma sono molto diffusi gli istituti tecnici superiori, nella meccanica, meccatronica e automotive, e funzionano molto bene». Su questa strada è corretto proseguire, «perché da lì vengono le figure dei superperiti, che alla preparazione superiore aggiungono due o tre anni di formazione, un po’ sui banchi di scuola e un po’ nelle imprese».
E un’altra chiave di volta è quella relativa alla collaborazione fra università e imprese, e anche fra le stesse università. «La sfida è talmente alta, che in Regioni dove ci sono quattro o cinque atenei, non è pensabile che tutti facciano tutto». Bisogna prevedere «un sistema accademico regionale, che d’intesa fra le singole università metta a punto dei programmi per corsi laurea, master, dottorati, centrati sulla formazione 4.0. In questo modo, sono in grado di offrire un ventaglio di possibilità maggiore alle imprese». Altrimenti, rimaniamo nella trappola di un dibattito, quello sul rapporto fra università e imprese, che prosegue da 30 o 40 anni. Questa collaborazione fra università che parta almeno dalla prossimità territoriale deve essere particolarmente intensa nelle aree fortemente manifatturiere, e coinvolgere anche le imprese, tramite le associazioni di rappresentanza.
In realtà si tratta di esperienze in parte già presenti e che stanno continuando a nascere sul territorio. Le università venete, nel 2016, proprio a ridosso della presentazione del Piano Calenda, hanno formato un polo regionale per lo sviluppo di Industria 4.0 che comprende Venezia (Ca’ Foscari e Iuav), Padova, Verona. In Emilia Romagna una partnership fra quattro università (Bologna, Ferrara, Modena e Reggio Emilia, Parma), e le aziende della Motor Valley, ha portato alla nascita della Motorvehicle University of Emilia-Romagna (MUNER), un’associazione fortemente voluta dalla Regione, che sta facendo partire sei corsi di laurea con specializzazioni 4.0: Advanced Powertrain, Advanced Motorcycle Engineering, Advanced Sportscar Manufacturing, High Performance Car Design, Racing Car Design e Advanced Automotive Electronic Engineering. Le Aziende mettono a disposizione ambienti, laboratori e strumentazioni di ultima generazione (banchi prova motore, banchi statici e dinamici, un simulatore professionale di guida e una galleria del vento), i docenti provengono dalle quattro Università, insieme a visiting professor e tecnici delle aziende, i corsi sono interamente in inglese.