l’analisi

Formazione, perché l’AI non colma il digital divide: i dati di OfCourseMe



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I dati dell’Osservatorio formazione continua indicano che in Italia mancano spesso le competenze digitali di base tra i lavoratori: Excel, Teams e la lingua inglese sono considerati ancora problematici

Pubblicato il 22 dic 2023

Davide Conforti

Managing director Edflex Italia



servizi pubblici digitali

Il 2023 verrà ricordato come l’anno in cui l’Intelligenza artificiale ha fatto il suo ingresso nella nostra quotidianità. Esisteva già prima, è ovvio. Tuttavia, era prevalentemente una materia per gli addetti ai lavori. Concetti quali Industria 4.0 e automazione erano noti, ma poi la loro applicazione pratica restava esclusiva di ingegneri e imprenditori desiderosi di non lasciarsi prendere in contropiede dalla trasformazione digitale oggi in corso.

ChatGpt, invece, ha rimosso questa barriera. Adesso tutti possono giovare dell’Ai, quanto anche incorrere nei suoi rischi. In particolare, come spesso accade, la comunicazione massmediatica su una novità del mercato è più rapida della conoscenza effettiva del prodotto in se. Soprattutto in un’Italia in cui il processo di trasformazione digitale tende a essere più lento che altrove in Europa, non è sorprendente osservare come la popolarità di un fenomeno nuovo sia più espansa.

Formazione professionale, lo scenario nei dati di OfCourseMe

L’Osservatorio sulla formazione continua di OfCourseMe monitora con puntualità circa mezzo milione di utenti, che accedono alla piattaforma per usufruire dei corsi di upskilling/reskilling professionale disponibili gratuitamente sul web. Il recente outlook su questa popolazione di selflearner – ovvero il lavoratore che apprende spontaneamente, senza alcun input dell’azienda, bensì mosso da una sua ambizione – ha rivelato che ognuno di loro effettua mediamente una, al massimo due ricerche mensili di corsi finalizzati al proprio aggiornamento e al miglioramento professionale.

Gli utenti, inoltre, preferiscono contenuti veloci (massimo 10 minuti), pratici e subito utilizzabili. Ma ciò che più interessa – e preoccupa – è il fatto che Excel, inglese e Teams restino i contenuti più ricercati dai lavoratori. Il 47% ha indicato Excel come contenuto da approfondire nell’ambito della formazione tecnologica. Il 38% dei learner afferma di dover migliorare l’inglese. Mentre, sul fronte delle skill relative allo smart working, l’apprendimento di Microsoft Teams resta essenziale per il 28% degli utenti.

In generale, si tratta di competenze professionali di base. È il caso di Excel, che resta un cruccio per i lavoratori italiani. Ma anche il dato sull’inglese ci induce a riflettere sulla persistente lacuna nella nostra formazione linguistica. A sua volta, quanto riportato su Microsoft Teams ci dice che, nonostante siano passati ormai quasi quattro anni dalla pandemia e i webinar siano all’ordine del giorno, una parte non marginale degli intervistati sia fermo alla domanda “come funziona?”. Oltre a organizzare banalmente riunioni online, Microsoft Teams permette di governarle, rendendole più coinvolgenti ed efficienti in termini di tempo. Pochi lo sanno, però.

Il contesto italiano

Lo scenario conferma il fatto che la società italiana sia più propensa a parlare di trasformazione digitale, anziché ad acquisire le competenze necessarie per trarne i vantaggi. Vuoi per il deficit di preparazione scolastica, vuoi per un disinteresse diffuso ai fenomeni innovativi assistiamo a una bassa conoscenza delle soft skill che dovrebbero permetterci di competere con l’Intelligenza artificiale.

Questo è in parte riconducibile al processo di invecchiamento della nostra società, che porta le persone più anziane, lavoratori compresi, a non entusiasmarsi per quello che ci riserva il futuro. Ma un’altra parte di responsabilità va attribuita alle forze produttive, che, evidentemente, non indirizzano le giuste risorse a sostegno delle iniziative di formazione che, invece, potrebbero interessare i loro collaboratori.

Questo distacco tra la digitalizzazione della nostra quotidianità e lo “stare al mondo” non è stato colmato da Chat Gpt. Diventando alla portata di tutti, accessibile dai device più remoti ed entrando nelle nostre case, l’Ai avrebbe dovuto risvegliare la curiosità delle persone. Tuttavia, queste ultime sono alle prese con un percorso di formazione talmente elementare che non permette loro di rendersi conto dell’urgenza di accelerare nell’apprendimento delle competenze di base, per poter, anzi, per dover acquisire strumenti più specifici.

Le cause del digital divide

Sorge quindi il dubbio se il cosiddetto digital divide italiano sia un problema riconducibile alle istituzioni politiche, alla Pubblica amministrazione, oppure alla scuola. O ancora alle imprese. Le prime possono essere tacciate di miopia. La seconda è spesso vista come un lento e vetusto pachiderma. Infine, la terza è ancora troppo concentrata sulle discipline umanistiche e poco sensibile a quelle tecniche. Tutto vero. Ma questi fattori non rientrano forse in uno status di stagnazione culturale più ampio?

All’Italia sembra mancare la propensione a una digitalizzazione non fine a se stessa, bensì funzionale per la crescita economica. È noto da tempo, infatti, che siamo uno dei Paesi europei con il maggior numero di telefoni cellulari in mano alla popolazione. Questo vuol dire che siamo potenzialmente sempre connessi. Ma per quale motivo? Per lavorare, apprendere, o per semplice diletto? E ancora, quante funzionalità del dispositivo che abbiamo in tasca conosciamo? Quante invece ne ignoriamo?

Il ruolo del capitale umano

L’Indice Desi 2022 ci dice che il nostro Paese sta guadagnando terreno rispetto al passato. Tuttavia, restiamo 18esimi nella classifica dei 27 Stati membri Ue. Tenendo conto che siamo la terza economia, questo posizionamento non ci fa onore. È il capitale umano a rappresentare l’handicap maggiore. Metà della nostra popolazione non dispone delle competenze digitali di base. Così come soltanto il 50% del territorio nazionale è coperto da fibra ottica. Queste sono debolezze strutturali che incidono sull’attrattività della nostra economia. Immaginiamoci, infatti, un’impresa che voglia investire in Italia, ma che si accorge di dover prima risolvere il problema della connettività, nell’insediare un suo eventuale stabilimento, e poi della mancanza di competenze professionali all’altezza della sua attività produttiva, nell’ambito del mercato del lavoro italiano.

La necessità di un intervento di sistema

Serve allora un intervento di sistema. Dalle istituzioni, in termini normativi e pianificazione, fino a chi invece è impegnato “boots on the ground” nelle varie ramificazioni dell’educazione e della formazione. Il deficit di competenze si colma con un’azione congiunta tra le scuole – che devono formare le nuove generazioni di lavoratori, affinché siano preparati all’impiego, quanto anche ricettori degli aggiornamenti che la formazione che in azienda fornisce – e le imprese, che a loro volta devono comunicare di quali competenze hanno bisogno.

E in questa equazione non possono mancare i selflearner stessi, che si devono spendere in prima persona; pena l’irrilevanza sul mercato del lavoro. Del resto, l’accesso alla formazione è un diritto insindacabile, ma approfittarne è un dovere imprescindibile del singolo.

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