La politica – intesa come governo della polis?
Di fatto è scomparsa, grazie agli algoritmi e a quella amministrazione automatizzata della società temuta già dal francofortese Max Horkheimer, producendo il totalitarismo della società tecnologica avanzata secondo Herbert Marcuse.
ChatGPT e il rischio di “sostituzione intellettuale”: i lavori a rischio
E la filosofia – intesa come pensiero riflessivo e dialettico? Rimossa da ingegneri, manager, economisti e tecnocrati – e da ChatGpt – tutti dimenticando che la matematica è scienza avalutativa mentre noi – fidandoci della esattezza di un calcolo matematico/algoritmico – crediamo che esatto sia anche giusto, etico, morale e responsabile, mentre quasi mai lo è.
E l’illuminismo e il Progresso? Traditi e rovesciati nel loro contrario da capitalismo & tecnologia, o meglio dalla egemonia ormai tri-secolare di una razionalità solo strumentale/calcolante-industriale e positivistica che domina il mondo e produce incessantemente – ormai sono un prodotto anch’esso industriale – i nostri immaginari collettivi, ma che è tutto meno che razionale e responsabile, essendo piuttosto, intrinsecamente e per propria essenza, nichilista, antisociale ed ecocida[1]: come appunto dimostra la crisi climatica e ambientale, che sappiamo esserci almeno dagli anni Settanta del ‘900 (in realtà da molto di più), ma che il tecno-capitalismo e le logiche del profitto hanno mascherato in tutti i modi per mezzo secolo per farci fare la fine delle rane bollite in pentola pur di non rinunciare ai propri profitti capitalistici.
E poi il digitale: è davvero il nuovo che avanza e che non si può e non si deve fermare, oppure è solo il vecchio taylorismo capitalistico ma digitalizzato e finalizzato in peggio solo a massimizzare (sempre di più…) produttività e profitto privato?
Chi governa il mondo, parte prima
Partiamo dagli spunti offerti da un libro di prossima pubblicazione, Power and Progress, di Daron Acemoglu e Simon Johnson. I quali riprendono le classiche retoriche del passato per cui tutto dipenderebbe dalle scelte che facciano a proposito dell’uso della tecnologia, non vedendo che la tecnica ha una propria essenza (appunto, la razionalità strumentale/calcolante-industriale) che la porta, come il capitale, alla ricerca del proprio incessante accrescimento (“si deve fare tutto ciò che tecnicamente si può fare”, scriveva il filosofo della tecnica Günther Anders[2] e lo stesso vale per il capitale), e prescinde ormai dalle nostre scelte, mentre siano invece noi ad essere usati dal tecno-capitalismo per accrescere il sistema tecnico in sé e per sé e il capitale in sé e per sé, contro di noi e contro la biosfera, la libertà e la democrazia.
E quindi non è neppure più vero sostenere che i modi di organizzare la produzione, il consumismo e le informazioni/comunicazioni possono servire sì i peggiori interessi delle élite ma anche aprire una nuova era di prosperità – ma ricordiamo che questa promessa (le nuove tecnologie come avvio di una new era di prosperità e di crescita infinita e illimitata) era la stessa che il sistema usava negli anni ’90 per convincerci della bontà delle nuove tecnologie di allora: è accaduto esattamente il contrario, ma la retorica/propaganda compulsiva del sistema non cessa di produrre anche oggi per noi quegli immaginari collettivi (l’Infosfera, ChatGpt, la transizione digitale, eccetera), che ne impediscono la messa in discussione e ne permettono semmai la riproducibilità infinita, come del pluslavoro nostro per il plusvalore del tecno-capitale.
Power and Progress di Acemoglu e Johnson cerca di dimostrare – è sempre la propaganda prodotta dagli intellettuali organici del Principe tecno-capitalista in servizio permanente effettivo – ciò che sembra ormai impossibile, cioè mettere la tecnologia sotto controllo umano; impossibile a meno che, come noi invece sosteniamo, si produca una uscita radicale dalla razionalità strumentale/calcolante-industriale (che è la premessa al funzionamento della tecnologia e del capitale e ne permette e giustifica l’accrescimento infinito e illimitato) diventata ormai la nostra antropologia (la weberiana gabbia d’acciaio, ma sempre di più). Tecnologia che non può essere democratizzata – sostengono i due autori e su questo siamo d’accordo – if all major decisions remain in the hands of a few hubristic tech leaders.
Ma perché la tecnologia possa essere davvero democratizzata occorrerebbe appunto – ex ante – uscire dalla (ir)razionalità strumentale/calcolante industriale, uscire conseguentemente dal sistema del tecno-capitale, uscire ancor più conseguentemente dalla logica dell’accrescimento illimitato di produzione e consumo (e profitto privato) – e quindi bisognerebbe nazionalizzare le imprese e finalizzarle alla democrazia, all’utilità sociale e alla sostenibilità (sperando che anche lo stato non funzioni secondo questa stessa irrazionalità…) e a un principio di precauzione. E invece noi (e gli stati) siamo governati sempre più da imprese private.
Chi governa il mondo, parte seconda
Un processo che certo non nasce oggi, ma che oggi, grazie alle nuove tecnologie, si potenzia ancora/sempre di più e si fa ancora/sempre di più pervasivo quanto più viene appunto accettato come normalità. Ma visto che ciò che accettiamo come normale – il mondo governato da imprese private, autocratiche, antisociali e antidemocratiche per propria essenza e vocazione – è quanto di più anormale ci possa essere, soprattutto in sistemi che si dicono democratici, è opportuno ritornare sul tema, sperando che repetita iuvant.
Scriveva Luciano Gallino nel 2011[3] – che rileggiamo ancora una volta: “La democrazia, si legge nei manuali, è una forma di governo in cui tutti i membri di una collettività hanno sia il diritto, sia la possibilità materiale di partecipare alla formulazione delle decisioni di maggior rilievo che toccano la loro esistenza. […] e viene naturale includere diversi aspetti attinenti all’economia o ad essi strettamente correlati”. E invece, oggi “la grandissima maggioranza della popolazione è totalmente esclusa dalla formazione delle decisioni che ogni giorno si prendono” nei settori dell’economia e della tecnologia, di fatto espropriati e alienati dalla democrazia, per l’azione di quel soggetto che si chiama grande impresa, industriale o finanziaria, italiana o straniera che sia. “Il fatto nuovo del nostro tempo è che il potere della grande impresa di decidere a propria totale discrezione che cosa produrre, dove produrlo, a quali costi per sé e per gli altri, non soltanto non è mai stato così grande, ma non ha mai avuto effetti altrettanto negativi sulla società e sulla stessa economia”.
Richiamando F. D. Roosevelt – che nel 1938 si dichiarava preoccupato non solo perché l’impresa privata creava sempre meno occupazione (come oggi il digitale) e accentuava le disuguaglianze sociali (come oggi il digitale), ma perché era una minaccia per la stessa democrazia (come oggi il digitale) esercitando un potere più forte e condizionante dello stesso stato – Gallino aggiungeva: ormai “la preoccupante visione di Roosevelt si è pienamente avverata”. E chi ha avuto la peggio, continuava “sono stati i lavoratori americani. […] Pertanto, è davvero arduo capire come il caso americano ci possa venire solennemente presentato, da manager e politici italiani come una forma di modernizzazione delle relazioni industriali. E ancora più arduo è capire […] come, in Italia, tra le file dell’opposizione non si sia levata una sola voce per rilevare che il potere esercitato dalle corporation sulle nostre vite configura un deficit di democrazia da costituire ormai il maggior problema politico della nostra epoca” – “privando gli individui e le società del diritto di valutare i fenomeni e di manifestare o meno il loro assenso”, aggiungeva Éric Sadin nel 2019[4]. Senza dimenticare che già Henry Ford aveva imposto, per proprio profitto privato, all’intera società il modello della mobilità individuale di massa sulla base del motore a scoppio, in collusione di fatto con i big del petrolio, impedendo che si scegliesse invece per la mobilità collettiva. Modello perverso che continua ancora oggi, perché non è con la mobilità elettrica individuale di massa che ridurremo la nostra impronta ecologica sulla biosfera, ma con un massiccio passaggio alla mobilità collettiva.
Anche Shoshana Zuboff[5] è arrivata quasi alle stesse conclusioni: “Il potere delle aziende private non è più solo economico, ma anche sociale. Io ho definito le forme economiche che stanno alla base di questo potere capitalismo della sorveglianza perché mantengono elementi centrali del capitalismo tradizionale – la proprietà privata, la quotazione in Borsa, la crescita e il profitto – ma non potrebbero esistere senza le tecnologie proprie del XXI secolo e delle relazioni sociali improntate alla sorveglianza. Metodi occulti di osservazione divorano le esperienze private e le trasformano in dati sui comportamenti. […] Questi dati possono essere elaborati per fare previsioni sui comportamenti umani […]. È un mercato delle materie prime con futures umani. [Ma] non abbiamo votato queste aziende perché ci governassero. Ma, grazie alla forza derivante dalla loro rivendicazione dei diritti di proprietà, gli imperi privati della sorveglianza hanno di fatto compiuto un golpe epistemico e antidemocratico. Con questo intendo una rivoluzionaria presa del potere, con cui si sono appropriati del sapere e degli strumenti per l’acquisizione del sapere. I giganti tech decidono che cosa si sa, chi può saperlo e con quale obiettivo. […] E lo fanno usando a proprio vantaggio il controllo assoluto e il potere totale che hanno su sistemi e infrastrutture di informazione di vitale importanza. Lo scopo è allontanare le persone dai governi, sostituire la società con sistemi computazionali e installare un governo computazionale al posto della democrazia”[6].
Transizione digitale o transizione ecologica?
E quindi, ulteriore questione: transizione digitale e transizione ecologica, oppure transizione digitale o transizione ecologica? Domanda preliminare e fondamentale: “da cosa nasce la crisi climatica? Nasce da tre secoli di rivoluzione industriale e di capitalismo sfrenato e sfruttatore di uomo e biosfera. Perché il capitalismo – il tecno-capitalismo, come preferiamo chiamarlo – si basa su questi elementi strutturali e oggi anche sovrastrutturali: massimizzazione del profitto privato/plusvalore […]; divisione e poi totalizzazione del lavoro mediante mezzi tecnici di connessione (i veri mezzi di produzione), ieri la catena di montaggio e oggi il digitale; sfruttamento del lavoro umano, infinita ricerca di maggiore produttività ed estrazione crescente di pluslavoro (cioè lavoro non retribuito, lavoro gratuito, eccetera); delocalizzazioni produttive ed esternalizzazione del lavoro (grazie al digitale… [supra, Gallino]) e competizione sui costi; sfruttamento massimo delle risorse naturali via colonialismo di stato e di impresa, dal carbone al petrolio, oggi terre rare, litio, agrobusiness, deforestazione; impoverimento di massa e crescenti disuguaglianze sociali, con ricchi sempre più ricchi; imperativo categorico di consumare sempre di più per sostenere la produzione e i profitti privati conseguenti e quindi marketing come organizzazione scientifica del lavoro di consumo e management come organizzazione scientifica del lavoro di produzione [cioè come human engineering dei comportamenti umani funzionali a produrre e a consumare sempre di più]; privatizzazione della natura/biosfera (della Terra), ceduta a imprese private che hanno come unico scopo quello di massimizzare il profitto a breve senza responsabilità per il futuro; rifiuto quindi del concetto di bene comune, di limite e di responsabilità”[7].
Ovvero – ed è una realtà da non dimenticare mai, perché da qui deve partire ogni ulteriore nostra riflessione – “il tecno-capitalismo è strutturalmente in conflitto con la transizione ecologica e di fatto tenta di impedirla con ogni mezzo, cercando infatti e insistentemente di convincerci che alla crisi climatica possiamo solo adattarci ed essere resilienti, essendo da considerare ormai un dato di fatto immodificabile e soprattutto irreversibile – anzi potendo diventare (si chiama shock economy) una nuova fonte di lucroso profitto privato” – e perché il tecno-capitale dovrebbe rinunciarvi?
Ma allora, cosa sono il digitale – e la digitalizzazione delle masse[8] ormai subentrata alla vecchia nazionalizzazione delle masse otto-novecentesca e di cui scriveva George Mosse – “se non capitalismo all’ennesima potenza? Escludendo ciò che il digitale permette di ottenere in termini positivi di diffusione della cultura, di archiviazione, di conoscenza, di ricerca scientifica e di cura medica, di previsione, di razionalizzazione energetica, questi sono i suoi veri effetti sulla vita umana: sfruttamento ulteriore del lavoro e della vita, con intensificazione e accelerazione dei tempi-ciclo nel taylorismo appunto digitale, produttivo e consumativo; estensione del pluslavoro/lavoro gratuito, con la caduta della distinzione tra tempo di vita e tempo di lavoro, con quindi estensione della giornata lavorativa e consumativa ad h24, quindi accrescimento della produttività, quindi produzione di più cose che necessitano di essere consumate sempre di più per accrescere il profitto privato (e se i redditi diminuiscono il sistema inventa il Black Friday…); neo-colonialismo aziendale e statale per lo sfruttamento anche delle materie prime necessarie al digitale; cattura anche della psiche umana ed estrazione da essa di profitto privato (la nostra profilazione per il Big Data); delega del governo del mondo alle macchine/i.a./machine learning e al tecno-capitale che ne è proprietario – quindi alienazione dell’uomo da se stesso e dalla responsabilità verso la biosfera e le future generazioni; ulteriore rifiuto del concetto di limite (perché il digitale è soprattutto funzionale all’accrescimento e al potenziamento appunto dei processi produttivi e consumativi, sempre di più…)”[9].
Se tutto questo è vero – ed è vero – allora dovremmo iniziare a ragionare non in termini di transizione ecologica e di transizione digitale, ma di transizione ecologica o di transizione digitale. E di razionalità strumentale/calcolante-industriale o di libertà e democrazia. Senza lasciare che sia Elon Musk – invece di tutti noi, come dovrebbe essere – a proporre una pausa nello sviluppo dell’intelligenza artificiale.
Bibliografia
- L. Demichelis, “La società-fabbrica. Digitalizzazione delle masse e human engineering”, Luiss UP, Roma, 2023 ↑
- Per un richiamo alla filosofia di G. Anders rimandiamo a: L. Demichelis, “Günther Anders, filosofo scortese”, 22 marzo 2023 – https://www.doppiozero.com/gunther-anders-filosofo-scortese ↑
- L. Gallino, “Democrazia e grande impresa”, in MicroMega nr. 4/2011 ↑
- É. Sadin, “Critica della ragione artificiale”, Luiss UP, Roma, 2019, pag. 15 ↑
- S. Zuboff, “Il capitalismo della sorveglianza”, Luiss University Press, Roma, 2019 ↑
- S. Zuboff, “Soltanto la democrazia può salvare se stessa dalle Big Tech” – https://www.linkiesta.it/2021/12/linkiesta-magazine-democrazia-salvare-big-tech/ ↑
- L. Demichelis, “Se il clima fosse una banca”, 28/03/2023 – https://naufraghi.ch/se-il-clima-fosse-una-banca/ ↑
- L. Demichelis, “La società-fabbrica. Digitalizzazione delle masse e human engineering”, Luiss UP, Roma, 2023, pag. 259 e segg. ↑
- L. Demichelis, “Se il clima fosse una banca”, 28/03/2023 – https://naufraghi.ch/se-il-clima-fosse-una-banca/↑