Una diversa organizzazione del lavoro, determinata da una produzione che deve diventare sempre più flessibile anche in termini di orari e luoghi, una possibile riduzione dei posti di lavoro nelle fasce di competenza medio-basse, ma una contemporanea creazione di nuove figure professionali, necessità di continua formazione on the job, sul luogo di lavoro, una crescente responsabilizzazione del lavoratore. E un diverso paradigma anche sul fronte della relazioni industriali, ovvero del rapporto fra lavoratori e imprese. Sono questi gli elementi su cui fondamentalmente concordano le analisi e gli studi sul modo in cui la fabbrica digitale, ovvero industry 4.0, sta cambiando e soprattutto è destinata a cambiare il mondo del lavoro. Un dato che fotografa la situazione è contenuto in un report del World Economic Forum, “The future of Jobs“, che ha fatto il giro del mondo: il 65% dei bambini che iniziano ad andare a scuola in questi anni, quando termineranno il ciclo di studi faranno un lavoro che ora non esiste. Un altro dato, contenuto nello stesso report, fa invece maggiormente discutere, e riguarda direttamente l’impatto occupazionale della quarta rivoluzione industriale: entro il 2020 spariranno 7,1 milioni di posti di lavoro nel mondo, e ne verranno creati 2 milioni, il che significa una perdita netta di 5,1 milioni di posti.
«Se avessimo chiesto all’inizio dell’800 come sarebbe stato il mondo del lavoro senza l’agricoltura, probabilmente avrebbero previsto la disoccupazione totale» commenta Francesco Seghezzi, direttore Adapt University Press, sottolineando che parlare di industria 4.0 sostanzialmente vuol dire parlare del futuro, ovvero di scenari che saranno compiuti e misurabili intorno al 2030. Al momento, «non possiamo sapere con precisione quali saranno i modelli di business», e non significa che se non esisteranno più i lavori di oggi ci sarà il vuoto. E’ vero però che, nell’ambito specifico della manifattura, sicuramente si perderanno posti di lavoro, a causa dell’automazione.
Questo, comunque, non è un fenomeno nuovo e legato a Industry 4.0. La ricerca “Factory of the future. Tecnologia, competenze e fattore umano nella fabbrica digitale“, promossa dallo IAL Nazionale in collaborazione con FIM Piemonte ed Istituto Boella e condotta da Torino Nord Ovest srl impresa sociale, sottolinea come il numero di operai in Italia sia drasticamente in calo da decenni: negli anni ’50 alla FIAT c’erano cinque operai per ogni impiegato, negli anni ’90 il rapporto era di due a uno. E oggi, considerando l’intero settore manifatturiero del paese (comprese le PMI, che occupano il 55% della forza lavoro), gli operai sono circa i due terzi del toale, e ci sono già imprese dove il rapporto è iverito (sono più numerosi gli impiegati).
Seghezzi ritiene che con ogni probabilità, i lavori più a rischio siano quelli con mansioni di livello medio-basso. Però, al contempo, «ci saranno figure che invece cresceranno, anche nella stessa industria manifatturiera, per esempio nell’ambito dell’analisi dei dati». Industria 4.0 significa, fra le altre cose, che «il prodotto ha vita più lunga, perché viene monitorato anche dopo la sua vendita, attraverso sensori. Questo porterà figure nuove, oggi nessuna professionalità si occupa del prodotto dopo la vendita, se non a livello di manutenzione». L’ipotesi più probabile è che si apriranno altri scenari, e ci sarà spazio per competenze di alto livello, oppure sui servizi».
Salvatore Cumino, nel report dello IAL, propone una descrizione del blue collar 4.0: è digitalizzato (lo studio propone gli esempi dell’Alstom, dove gli operai sono dotati di tablet, e dell’Avio, dove guidano o monitorano flussi da terminale), se lavora in un gruppo internazionale ha una conoscenza almeno di base della lingua inglese, il livello di istruzione normale è l’istruzione secondaria superiore. Fra le altre figure fondamentali individuate, attraverso interviste nelle fabbriche digitalizzate italiane:
- il sistemista, che per esempio all’Alstom ha la «capacità di dominare tutte le tecnologie coinvolte, in processi che, nel caso del Pendolino, hanno 50mila componenti diversi»;
- Il tecnologo: in Avio, «fornisce le istruzioni operative ai processi in modo che l’operatore intervenga il meno possibile».
- Il coordinatore tecnico: questa è una figura professionale presente in Ducati (che ha previsto un apposito piano formativo), ha elevata competenza tecnica, comina funzioni tradizionali di controllo con competenze tecniche elevate.
- L’ingegnere 4.0: è una delle figure professionali su cui concentrano maggiormente i cambiamenti. Cumino individua due driver fondamentali: un professionista più attivo nel campo di ricerca e innovazione, che “opera nell’ambito di reti cooperative orizzontali, in sinergia con ricercatori e ingneri di imprese partner, concorrenti, istituzioni universitarie e delle ricerca, nell’ambito di piattaform condivise. E una specializzazione relativa all’engineering, sviluppo e progettazione dei processi, che lavora in forte integrazione con i responsabili di funzioni a valle (tecnologi, manutenzione), sia operando direttamente in reparto sia nei laboratori di realtà virtuale».
Vale a questo punto la pena di ricordare che, sullo sfondo di queste analisi, ci sono gli obiettivi indicati dalla Commissione Europea: passare, entro il 2020, al 20% del pil comunitario rappresentato dal manufatturiero, dal 15,6% del 2012. Significa un allargamento del mercato, che potrebbe compensare la eventuale riduzione dei posti di lavoro nelle singole fabbriche. Giancarlo Oriani, managing director Staufen Italia, fa presente una regola fondamentale: «secondo me l’occupazione dipende dalla quantità di prodotti venduti. E’ chiaro che una maggior efficienza (che non dipende solo da industria 4.0), genera dei cambiamenti. Ma la disoccupazione si genera quando l’offerta supera la domanda, e qui industria 4.0 non peggiora le cose. Il problema vero è che richiede un ulteriore aumento di competenze, interno alle fabbriche».
In realtà, Industry 4.0 riporta “il lavoro dell’uomo al centro della fabbrica”, spiega Gianni Potti, presidente CNCT Confindustria Servizi Innovativi e Tecnologici, che prosegue: “alla fine del 1900, 15 anni fa, si pensava che l’ICT portasse l’innovazione e alla fine i robot eliminassero l’uomo dalla fabbrica”. Oggi invece, anche l’esperienza tedesca ci dimostra “che l’uomo torna al centro della fabbrica, perché industriy 4.0 significa flessibilità nella produzione e l’elemento più flessibile è quello umano. Certo, ci vorranno skill completamente diversi, sia per l’ operaio sia per l’impiegato”.
Il working paper Adapt dedicato a “Lavoro e relazioni industriali in Industry 4.0“, curato dallo stesso Seghezzi, offre ulteriori spunti in questo senso: la realtà manifatturiera non è oggi interamente digitalizzata e automatizzata e difficilmente lo sarà nella sua totalità, in virtù dell’importanza del capitale umano e del suo valore aggiunto nei processi di innovazione. La presenza di gruppi di tecnici altamente specializzati nei diversi settori della produzione manifatturiera, impiegati in operazioni di gestione e controllo, può essere un fattore determinante in ottica di risultati e competitivtà». E infine, «non possiamo non riconoscere un nesso di causalità fra il genio e la creatività umana e la macchina». L’autonoma (anche il robot, ovvero una macchina dotata di intelligenza artificiale, quindi in grado di mgiliorare le proprie prestazioni), «non è in grado di produrre da sè salti qualitativi. Resta quindi necessario un legame di controllo e subordinazione della macchina all’uomo, anche per poter consentire un continuo processo di innovazione». A maggior ragione, si potrebbe aggiungere, nel paese del Made in Italy, che del valore aggiunto rappresentato dalla creatività e dalla capacità di innovazione ha fatto un vero e proprio marchio.
E qui torniamo alla necessità di nuove competenze. Secondo il report del World Economic Forum, i driver del cambiamento del lavoro nella fabbrica digitale sono intelligenza artificiale e machine learning, robotica, nanotecnologie, stampa 3D, biotecnologie. I settori in cui maggiormente si concentreranno le riduzioni di posti di lavoro sono l’area amministrativa (-4,7 milioni) e la produzione (-1,6 milioni). I posti in crescita, invece, riguardano informatica, ingegneria, area finanziaria. Anche nei settori in cui i livelli occupazionali sono visti più stabili, come il marketing, o la logistica, nel giro di pochi anni cambieranno gli skill richiesti dal mercato del lavoro. La classifica al 2020 delle competenze più richieste: problem solving, capacità critica, creatività, risorse umane, collaborazione, intelligenza emotiva, orientamento al servizio, negoziazione, flessibilità mentale.
Un’altra tendenza, fotografata invece da Cumino, è l’integrazione (lean production) fra diverse funzioni e diversi reparti: «integrazione della supply chain, tra ordine e produzione, tra magazzino e reparti, e via di seguito», fra attività progettuale e sviluppo del prodotto, la fase di prototipazione che «perde i tratti di primo tempo dello sviluppo» e si fa direttamente sulle linee di produzione, avvalendosi anche «di tecnologie di simulazione e in qualche caso di prototipazione rapida» (è un’applicazione delle stampanti 3D). In generale, un’integrazione sistematica «fra il lavoro dei tecnologi che istruiscono la fase produttiva e gli addetti manufacturing», con reparti in cui lavorano diverse figure produttive, di controllo e supervisione, di sviluppo tecnologico.
Le nuove comptenze si possono acquisire sul posto di lavoro, con opportune politiche interne di riqualificazione. Al momento, di formazione in chiave 4.0 sui luoghi di lavoro si parla molto, ma ancora se ne fa poca. «Bisognerebbe fare di più da due punti di vista – spiega Seghezzi -: un miglior collegamento fra unversità e lavoro, operazione che aiuta gli studenti a entrare in contatto con il mondo dell’impresa, ma serve anche alle imprese. Il secondo fronte è invece la riqualificazione di coloro che stanno già lavorando».
Sulla necessità di lavorare sul rapporto scuola-università e mondo del lavoro insiste particolarmente anche Gianni Potti, che propone un esempio: una figura al centro di Fabbrica 4.0 è un ingegnere gestionale che abbia anche competenze economico finanziarie e competenze digitali. Il sistema scolastico italiano non forma questa figura professionale. A Vienna ci sono lauree in Economia informatica, in Svizzera, in Germania ci sono corsi di studio specifici. La Germania, con il sistema duale, permette di abbinare studio e lavoro”.
Gli imprenditori e le associazioni datoriali sul fronte della formazione sono attive. Confindustria organizza workshop per le imprese specifici dedicati alla formazione come leva della competitivtà nella fabbrica digitale. Fra le iniziative, la web chat del prossimo 18 marzo di Federmeccanica dedicata in particolare al mentoring femminile “Fabbrica 4D. La metalmeccanica si rinnova”. E’ possibile paretcipare iscrivendosi online, al netork di donne (imprenditrici, lavoratrici, studentesse) attive per portare nuove compoetenze femminili nelle smart factory dell’Industria 4.0. Piero Dell’Oca, presidente e amministratore delegato di Tecnofar, che produce trafilati in acciaio inossidabile e materiali per l’industria in Valtellina, racconta che API Sondrio (associazione piccola industria), di cui è presidente, sta organizzando corsi di formazione, utilizzando i fondi del FAPI, la parte dell’associazione che si occupa specificamente dei corsi di aggiornamento.
Come si vede, industria 4.0 significa nuova organizzazione aziendale, della produzione e non solo, nuove competenze e conseguenti esigenze di formazione. Sullo stato dell’arte in Italia, l’indagine di Staufen “Sulla strada della fabbrica del futuro” fornisce dati precisi: le funzioni più coinvolte dalle applicazioni 4.0 sono la produzione (86%) e la logistica (78%), mentre la terzo posto vengono indicate le vendite, con un 61%. Nella stragrande maggioranza dei casi, il 76%, le imprese non offrono formazine ai dipendenti, il 14% include l’argomento industria 4.0 nei corsi di formazione interni o esterni, solo il 6% prevede corsi specifici sull’argomento, il 4% risponde che la formazione è in programma ma ancora non avviene. Di consguenza, il livello di preparazione dei dipendenti, al momento, è considerato molto basso dai rispondenti: in nessun settore il personale adeguatamente preparato o preparato raggiunge il 30%. Ecco, in tabella, le risposte nel dettaglio:
Infine, l’ultimo elemento di cambiamento individuato, ovvero l’impatto della fabbrica intelligente sui contratti di lavoro e sulle relazioni industriali. “In uno scenario caratterizzato, grazie al dominio della tecnologia, da una maggiore collaborazione e presenza di lavoratori specializzati nella fornitura di prestazioni più che nella mera esecuzione di ordini e direttive, emerge un paradigma del lavoro nel quale la dimensione del contratto e la relazione di dipendenza fra lavoratore e impresa è indubbiamente meno cogente”, si legge nello studio di Adapt. C’è una maggior flessibilità a due livelli: quello delle mansioni, che come sopra spiegato prevede maggior specializzazione e modalità di lavoro che privilegaiano lavoro di squadra, interazione, responsabilizzazione, e quello di orari e luoghi di lavoro: produzione non standardizzata e quindi scomparsa del ciclo continuo della catena di montaggio, tempi di produzione che variano da prodotto a prodotto, personalizzazione del prodotto, che può rihicedere molte ore di progettazione e realizzaizone in tempi brevi. Risultato: orari più flessibili rispetto alle tradizionali turnazioni. La nuova organizzazione del lavoro spesso non richiede la presenza fisica sul luogo di lavoro: la parte di progettazine, che come visto ha un ruolo centrale, può essere svolta da remoto, con condivisione delle informazioni attraverso il cloud. Si registrano già diversi casi di imprese che «utilizzano istemi di webcam per monitorare l’andamento della produzione, e grazie alla rete riescono ad intervenire in azioni di problem solving da remoto. Infine, c’è un mercato più veloce e competitivo («maggior replicabilità delle produzioni con meccanismi imprevedibili sul fronte della concorrenza», logiche di design innnovativo che rendono più instabili le commesse). Risultato: il fabbisogno di lavoratori di un’azienda può variare «rapidamente e imprevedibilmente». Risultato: «difficilmente l’industry 4.0 può sposarsi con un modello contrattuale di tipo subordinato» e a tempo indeterminato.
Industry 4.0 vuol dire rischio precarizzazione? “No”, risponde Seghezzi, per paradosso «il lavoratore ha più compoetenze del datore di lavoro, il quale deve affidarsi a lui, e pagarlo in base alla produttività». Penso si possa andare incontro a u«una diversa forma di lavoro dipendente, che non è una precarizzazione. Non dico che verranno aboliti i contratti, anzi scomparendo i lavori meno responsabilizzati il lavoratore può essere rimesso al centro, e può aumentare il suo potere contrattuale». Altre conseguenza di questo trend, un maggior coinvolgimento dei lavoratori nel processo decisionale, sul modello tedesco («non a caso – sottolinea Seghezzi -, il sindacato tedesco è quello che maggiormente spinge su Industry 4.0»), e una sempre maggior centralità della contrattazione aziendale rispetto a quella nazionale. Qui, come si vede il disco si allarga parecchio. Comunque,e conclude Seghezzi, è un dibattito che «si sta avviando, sia a livello sindacale che datoriale. Federmeccanica ha una task force su questi temi, la Fim (metalmeccanici Cisl) ha pubblicato recentemente uno studio (“Sindacato futuro nell’era dei big data e di industry 4.0”, ndr), del tema si discute anche in sede di rinnovo del contratto dei metalmeccanici».