Piano Calenda

Impresa 4.0, le vie per includere scettici e ritardatari

Impresa 4.0 è un programma di politica industriale organico che, però, non sfugge alle difficoltà “prometeiche” del fare innovazione. Spetta ora al Governo e al Parlamento dare al Piano Calenda una prospettiva meno tattica e più strategica e dunque pluriannuale

Pubblicato il 04 Ott 2017

Paolo Manfredi

Confartigianato

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Il primo bilancio del Piano Calenda, ribattezzato Impresa 4.0 a dare il senso di uno sforzo realmente sistemico per tutto il sistema produttivo italiano, è stato certamente positivo.

Lo dimostrano i dati che il Ministro dello Sviluppo Economico ha sciorinato, a partire da quel picco di ordinativi per le imprese della meccanica (+11, 6%) che ci riportano a livelli di effervescenza del mercato da tempo dimenticati.

Lo provano anche indicatori certamente più soft ma ormai solidificati, come il sentiment prevalente tra gli imprenditori che sto rilevando in un viaggio per l’Italia a raccontare cosa la manifattura digitale può fare per gli artigiani e che toccherà a fine 2017 oltre 30 città.

Nei territori, ancora pochi e ancora quasi solo al Nord, dove l’economia è ripartita le imprese per quanto piccole stanno investendo risorse anche significative nell’acquisto di nuove macchine e tecnologie.

Oggi le condizioni del bilancio pubblico e l’incertezza di un anno pre-elettorale non consentono pronunciamenti certi da parte di nessuno sulla prosecuzione delle misure del Piano Industria 4.0, ma alcuni segnali deboli e informali lasciano ben sperare. Non sarebbe del resto sensato, dal punto di vista del raggiungimento degli obiettivi ambiziosi ma realistici che informavano il Piano sin dall’inizio, non dare alle misure un respiro almeno pluriennale, che è quello che come sistema di rappresentanza e sostegno alle imprese caldamente auspichiamo.

Per fare cosa? Innanzitutto per capitalizzare e sistematizzare i risultati raggiunti in termini di propensione all’investimento e di curiosità verso la trasformazione digitale.

Molte imprese hanno approfittato degli incentivi per (finalmente) svecchiare il proprio parco macchine e, in una prospettiva pluriennale, questi front runner potranno rappresentare la prima linea delle imprese anche molto piccole che lavora sulla frontiera della trasformazione digitale, cogliendo sempre meglio le potenzialità degli strumenti e il loro valore trasformativo. Fra queste “lepri” ci sono anche molte imprese di Confartigianato che con generosità si stanno prestando ad essere ambasciatori della nuova manifattura presso le imprese associate, contribuendo così al secondo e più rilevante (e ben più difficile da raggiungere) obiettivo: includere gli scettici, i ritardatari e chi non sa e non ha capito.

Visione affascinante del futuro della produzione e sorretta da un programma di politica industriale organico, Impresa 4.0 non sfugge però alle difficoltà “prometeiche” del fare innovazione.

Mostrare i miracoli possibili non basta, bisogna umilmente disegnare soluzioni quasi a misura, se non della singola impresa (come pure capita tutti i giorni), quantomeno del settore di attività e/o del territorio. Questo è possibile lavorando per accrescere il livello di competenze e le capacità di lettura fine delle esigenze e delle possibilità delle imprese da parte dei mediatori culturali dell’innovazione che si situino tra le imprese e il sistema dei fornitori delle tecnologie.

Un esempio che amo citare è quello degli orafi, un settore profondamente artigiano e che oggi è all’avanguardia nell’utilizzo di tecnologie 4.0, su tutte la stampa 3D. Fondamentale nell’innovazione del settore orafo è stata la capacità di mutuare tecnologie nate per altro, il biomedicale, e di comprenderne le potenzialità di “protesi” della creatività di questo fiore all’occhiello dell’artigianato italiano sin dal Rinascimento.

Ancora per troppe imprese (il 72% di chi fa manifattura digitale secondo una ricerca della Fondazione Nord Este del 2016) la fonte primaria e spesso unica di approvvigionamento delle informazioni sull’innovazione tecnologica sono i fornitori. Questo è certamente comprensibile e per molti settori inevitabile (si pensi alle imprese in filiera o alla meccanica) ma per il popolo dell’economia del su misura e le imprese della creatività artigiana (dai sarti ai mobilieri a chi fa servizi), è necessario moltiplicare gli stimoli all’innovazione grazie alla capacità di tradurre l’offerta del mercato in soluzioni concrete e ragionevoli, indipendentemente dalla loro provenienza.

Questa è la missione dei 30 Digital Innovation Hub che Confartigianato lancerà entro la fine del 2017 su tutto il territorio. Sarà una rete di punti di riferimento per la trasformazione digitale delle imprese che per la prima volta offrirà formazione, consulenza e soluzioni per la trasformazione digitale delle imprese partendo dalla lettura della domanda e non dal sistema dell’offerta. Per questo stiamo formando colleghi che conoscono il sistema delle imprese e lo frequentano quotidianamente e costruendo alleanze anche con fornitori di tecnologie e sistema della ricerca, ma cercando di includere il più possibile realtà oggi ancora troppo ai confini dell’innovazione d’impresa come i maker space e gli ITS. La convinzione sempre più chiara è che esista nel Paese un bacino di competenze ancora inesplorate che, qualora fossero messe al servizio dell’innovazione del sistema delle micro e piccole imprese, potrebbe realmente spostare in avanti le statistiche sull’adozione delle tecnologie, e in prospettiva anche il PIL.

Per questa ragione guardiamo ad esempio con grande e attivo interesse lo straordinario lavoro di Cristina Tajani e del Comune di Milano per organizzare i lavoratori della conoscenza e riportare la manifattura in città offrendo luoghi di incontro e di lavoro che stanno contribuendo a cambiare in meglio il tessuto produttivo e la funzionalità della città e speriamo che si possano presto trovare modalità organiche di collaborazione agli scopi che ho accennato prima.

Similmente, dovranno essere costruite modalità virtuose di collaborazione con i Punti Impresa Digitale del sistema delle Camere di Commercio e, quando (e se) saranno individuati e avviati, con i Competence Center.

Ultimo e non ultimo, il necessario focus sugli investimenti in ferro, necessari per sostenere la patrimonializzazione delle imprese, dovrà ampliarsi agli investimenti più soft ma essenziali come ad esempio quelli a sostegno dell’approdo delle imprese al sesto continente dei mercati digitali.

Vaste programme  si sarebbe detto ed effettivamente le cose da fare sono molte. Spetta ora al Governo e al Parlamento continuare a dare consistenza al programma, dando al Piano Calenda una prospettiva meno tattica e più strategica e dunque pluriannuale. Noi siamo pronti.

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