Per molti, Industry 4.0 è un semplice esercizio linguistico da utilizzare in occasione di eventi fiere o convegni, di fatto in pochi conoscono le reali potenzialità e meno ancora sono in grado di sviluppare macro processi progettuali di sviluppo digitale. Le aziende italiane che possono vantare una nomina nelle 100 European digital champions sono veramente poche e questo trova riscontro nella quasi totale mancanza di crescita di produttività.
Se poi guardiamo al panorama mondiale, siamo l’ultimo dei grandi Paesi europei ma nel contesto generale tutta l’Europa è comunque più debole degli Stati Uniti e anche della Cina, infatti nella top delle prime 2.500 imprese mondiali, in termini di digitalizzazione industriale, anche se l’Europa vanta qualche primato nel settore auto, non lo è nelle infrastrutture digitali, nella cybersecurity, nel settore elettronico e nei servizi. In sintesi significa che in Europa, ma soprattutto in Italia, le aziende pubbliche e private non fanno investimenti in ricerca e sviluppo, in software o in intellectual property e di conseguenza in capitale umano.
Investimenti non al passo
Ai molti non è chiaro che digitalizzazione e automazione sono e saranno sempre di più la chiave per creare nuovo lavoro vincendo la competizione sui mercati e mantenendo salari alti, al contrario di quello che sta avvenendo adesso dove la tendenza è di perseverare investendo in settori a bassa produttività, bassa digitalizzazione e di conseguenza scarsa capacità di penetrazione dei mercati e scarsa capacità di mantenere posizioni di mercato con conseguenti bassi salari.
Al netto delle considerazioni sui vari Governi degli ultimi 20 anni, uno dei motivi della mancanza di basi per creare un contest nazionale di sviluppo tecnologico è il sistema bancario vetusto ed obsoleto per cui l’importante sembra essere non prestare soldi a nessuno, men che meno a startup anche se innovative, eccezione fatta per chi già i soldi li ha. Tuttavia, esistono anche possibilità di crescita aziendale autonoma investendo in ricerca e sviluppo e tra nuova Sabatini, super bonus e varie altre forme di agevolazione, qualcosa si muove. Anche in questo caso però, dovrebbero essere i consulenti e commercialisti a dare le dritte ai propri clienti, cosa che raramente accade.
Lo sconvolgimento della blockchain
In Italia è in corso un cambiamento epocale e se non viene compreso che tra qualche anno il panorama economico nazionale verrà sconvolto, allora è inutile discutere di futuro. A dicembre è stato decretato per la prima volta in Italia un processo di implementazione digitale che porterà nel breve stravolgimenti importanti a partire dalla pubblica amministrazione. Mi riferisco alla regolamentazione dei principi di blockchain che personalmente ritengo pericolosi e devastanti in un contesto come quello italiano dove la capacità di innovazione tecnologica della PA ma ancor di più del management della maggior parte delle aziende piccole e micro è pari allo zero. I processi di implementazione dei registri di blockchain oggi viaggiano su decisioni binarie.
Prendiamo per esempio l’ambito legale. Le tecnologie del momento consentono di costruire in maniera adeguata un hardware che consenta di processare esadati ma non abbiamo ancora le tecnologie software per generare decisioni automatizzate che consentano di abbracciare tutte le possibili variabili.
Questo mi porta a pensare che prevedere un sistema blockchain in grado di autenticare e gestire le sentenze è la parte più facile, la parte difficile è rendere il processo decisionale autonomo e discrezionale. Allo stato attuale e con tutta la migliore volontà di rendere acritico un percorso decisionale tal che possa abbracciare una determinata casistica, in termini di intelligenza artificiale, i tentativi di passare da processi di solving booleano a processi di soluzione fuzzy sono ancora agli albori e ritengo che prima di 10 anni non siano in grado di garantire l’imparzialità necessaria in un ambito decisionale come quello legale dove sono appunto le sfumature a generare le decisioni giuridiche.
Investire in capitale umano
Tutto ciò ovviamente non deve fermare i processi di digitalizzazione ma anzi deve essere un punto di partenza per creare una coscienza proattiva invertendo il paradigma decisionale sia del management industriale sia della governance della PA. Digitalizzare significa creare lavoro ben pagato rimanendo sul mercato e per quanto attiene la PA significa essere competitivi ed attrarre investimenti esteri.
Quindi cosa dovrebbe fare lo Stato italiano? Parer mio è che sia necessario investire in capitale umano e sono consapevole che ciò sia di difficile attuazione visto che l’occupazione al momento aumenta solo in settori a bassa produttività con paghe da 1.000 euro mese, cosa che sta esasperando il tessuto sociale in molti paesi europei. In Francia i gilet gialli, in Italia il reddito di cittadinanza in Grecia la recrudescenza anarchica e suicidi a migliaia sono tutte facce della stessa medaglia, l’Europa si sta impoverendo perché non è al passo con i tempi e i Governi non investono in capitale umano.
Devono essere le banche a trainare lo sviluppo e devono essere i governi a creare i presupposti scegliendo di allocare risorse in maniera strategica verso la formazione, l’innovazione tecnologica, la ricerca e sviluppo, ponendo questo obbiettivo come asset strategico nazionale. L’Italia ha bisogno di coesione sociale e questa può passare solo attraverso l’istruzione e la formazione tecnica tal che possa rispondere ai bisogni industriali di innovazione e non come sta avvenendo spalmando a pioggia qualche miliardo di euro improduttivo. In tutto ciò l’Europa può essere un valore aggiunto in termini di ridefinizione dei budget nazionali ridestinandoli in questo ambito ma per tutto ciò vedremo a maggio chi andrà a governare l’Europa e cosa farà.