Continuità, rimodulazione degli incentivi con particolare attenzione alle PMI, e capitale umano: sono gli aspetti che emergono con particolare forza dalle opinioni degli esperti sulle misure Industria 4.0 che sarebbero opportuno inserire in Legge di Bilancio 2019.
Sono concetti che poi vengono coniugati facendo proposte diverse, che vanno da una proroga degli incentivi più lunga (cioè non solo di un anno) per le piccole imprese, alla necessità di inserire misure che riguardino specificamente il lavoro, per esempio un credito d’imposta, all’urgenza di far partire i competence center, magari potenziandoli, all’idea di introdurre sistemi di certificazione delle competenze.
Vediamo tutto, in vista dell’imminente presentazione della manovra 2019, e dell’inizio del cammino parlamentare per l’approvazione entro la fine dell’anno e l’entrata in vigore nel 2019.
Gli incentivi agli investimenti
La proposta più articolata sugli incentivi arriva da Giovanni Miragliotta, direttore dell’Osservatorio Industria 4.0 del Politecnico di Milano, che parte dalla seguente premessa: «la cosa più importante quando un’impresa deve fare un piano di lungo termine è la stabilità del contesto e delle informazioni. Quindi, comunicare quali saranno gli orizzonti del piano ben oltre il singolo anno», dando «una profondità adeguata», con un orizzonte che ad esempio potrebbe essere di tre anni. Il rinnovo degli incentivi è utile in questa fase storica anche sulla base della considerazione che «non è assolutamente completato l’atto di moto, specie delle medio-piccole. Si potrebbe dunque pensare ad un prolungamento di un anno per le medio-grandi, magari riducendo le aliquote, tanto le grandi si sono già in larghissima misura mosse sul tema, prolungando invece per tre anni gli incentivi per le piccole imprese, a parità di aliquote».
Si tratta di una proposta che si inserisce nel quadro di un dibattito molto accesso nelle ultime settimane, focalizzato sulla necessità di prorogare gli incentivi con una rimodulazione che sia rivolta in particolare alle imprese che fino ad oggi si sono mosse di meno sul fronte degli investimenti 4.0, le Pmi appunto. Secondo Francesco Seghezzi, direttore Fondazione Adapt, l’importante è rimodulare l’incentivo «facendo in modo da favorire le Pmi e allo stesso tempo non penalizzare le grandi imprese». Per favorire le piccole e medie imprese, prosegue l’esperto, sarebbe anche utile «mettere a tema incentivi per la costituzione di reti di imprese». Miragliotta, invece, pensa a iniziative a favore di «imprese di classe dimensionale piccola che abbiano fatto operazioni di M&A, che le abbia portate nella fascia dimensionale delle medie», con l’evidente obiettivi di favorire la crescita dimensionale delle imprese.
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Infine, un’altra area di intervento, sempre secondo il docente del PoliMI, consiste nell’incentivare «progettualità che meglio colgano il vero spirito di Industria 4.0», che non riguarda solo impianti rinnovati e connessi. Ad esempio: «includere applicazioni cloud, specie per tutte le iniziative di collaboration ed integrazione informativa, e investimenti infrastrutturali nelle architetture dati aziendali, come data lake di gestione e distribuzione dei dati raccolti (da campo, da sistemi legacy, etc.). Anche solo il menzionarli nella lista dei beni incentivabili segnerebbe un cambio di prospettiva del regolatore, dall’hardware upgrade al dato».
Sul fatto che gli incentivi vadano prorogati, comunque, c’è una notevole identità di vedute. Innanzitutto, «hanno portato buoni risultati», insiste Seghezzi. «Vanno sicuramente confermati, ma con più attenzione alle competenze e agli asset intangibili», aggiunge Alberto Carnevale Maffè, economista dell’Università Bocconi. Il quale formula una critica: fino a questo momento il Piano Impresa 4.0 «ha privilegiato il ferro rispetto all’intelligenza», ovvero ha incentivato l’acquisto di macchinari lasciando invece indietro le competenze e i processi di formazione. Il risultato è che «molti imprenditori hanno comprato macchine ipertecnologiche e non hanno investito in competenze e in software, senza le quali l’hardware rischia di essere poco utile». E ora «abbiamo un enorme gap di competenze, soprattutto al Nord (penso alla meccanica fra Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna), con imprese che hanno sovrainvestito e non hanno tecnici specializzati». Fra l’altro, «nel Def, il documento di economia e finanza, non c’è nemmeno una riga, nè un euro, sul capitale umano», rileva il docente riferendosi al documento di economia e finanza appena presentato dal Governo.
Competenze e formazione 4.0
Francesco Seghezzi, direttore di Adapt, insiste (da sempre) su un punto: «l’elemento che continua a mancare è quello dell’organizzazione del lavoro», ed è «centrale per rendere gli investimenti in tecnologia motore di produttività e cambiamento del lavoro». E propone anche uno strumento specifico: «un credito di imposta (o altra forma di detassazione) per le imprese che avviano processi di riorganizzazione del lavoro».
Carnevale Maffè, invece, punterebbe sulla «formazione certificata». Una sorta di «autocertificazione del capitale umano, simile a quella che devono fare le imprese quando fanno certificare il bilancio finanziario. La mia proposta è di chiedere alle imprese di certificare il capitale umano sul fronte della capacity digital employability». Si può pensare, per esempio a «incentivi specifici per questa autocertificazione delle competenze digitali del capitale umano, per fare in modo che le imprese facciano un check up periodico, e alleghino al bilancio un documento sulla certificazione delle competenze», così formulato: se rispetto a uno standard di 200, questo check up evidenzia che siamo a 90, o a 110, facciamo un piano per recuperare la differenza. Potrebbe anche essere un modo per «attirare l’ingresso di capitali. Io la chiamo asset quality review delle risorse», con un termine che si usa nel mondo finanziario, perché avrebbe un obiettivo simile a quello delle banche quando valutano se gli attivi valgono quello che c’è scritto in bilancio. Ci sarebbe anche più bisogno di «coordinamento fra formazione 4.0 e agenzie per il lavoro».
Qui si può inserire una considerazione di Giovanni Miragliotta: «tante volte negli ultimi 24 mesi mi hanno chiesto informazioni sull’iperammortamento, solo una o due volte mi hanno invece chiesto delucidazioni sulla formazione. Forse lo schema così come è definito non è molto attrattivo».
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Competence center
Secondo Teodoro Valente, prorettore al trasferimento tecnologico della Sapienza di Roma, una priorità è anche quella di “fare partire al più presto i competence center», obiettivo che comunque non necessita di ulteriori passaggi legislativi. C’è già la graduatoria del ministero, è in corso l’ultima fase prevista dall’iter, quella della negoziazione, che serve a ripartire le risorse. Nel Def è indicato che non ci sono criticità, e dunque è solo questione di tempo (speriamo di poco tempo, si potrebbe aggiungere). Anche qui però, c’è una proposta che invece può riguardare il legislatore. Francesco Seghezzi ritiene che occorrerebbe ripensarli, i Competence Center, perché «per come sono immaginati oggi (e la lentezza nel crearli lo dimostra) non sono in grado di trasferire competenze alle imprese e ai loro lavoratori». Quindi, «occorre ripensarli integrando meglio non sono università e impresa, ma anche tutti gli altri attori che sul territorio possono aiutare (scuole, agenzie per il lavoro, Centri di ricerca).