Su Impresa 4.0 è ormai palese che il governo non ha affatto le idee chiare: manca una visione sul ruolo del nostro Paese sulla scena internazionale e si continua a ragionare con un’ottica di breve periodo. Serve, piuttosto, una strategia di lungo respiro per accompagnare il Paese attraverso una transizione epocale e sarà essenziale non mollare la presa, ma insistere sulla formazione continua per combattere lo crescente skills mismatch e la disoccupazione giovanile; rafforzare la formazione terziaria professionalizzante e l’alternanza scuola lavoro; sbloccare il potenziale dei Competence Center, il cui lancio è rimasto intrappolato oltre due anni tra le maglie della burocrazia.
Il futuro è nelle nostre mani, non lasciamoci prendere dall’isteria.
A parole, il ministro Luigi Di Maio si è sempre proclamato un sostenitore entusiasta della rivoluzione digitale e delle opportunità che essa schiude alle imprese italiane, in linea con le idee più volte espresse da Davide Casaleggio. Il ministro dello Sviluppo Economico vede se stesso come l’araldo di una smart nation – così la chiama – che sarà l’incubatrice di tante nuove start-up. Per realizzare questo sogno ha pure promesso un fondo da un miliardo attivo dall’inizio di gennaio, anche se dopo il frontale con la Commissione Ue sulla manovra, dal quale l’esecutivo è uscito malconcio, è lecito nutrire qualche dubbio sulla realizzazione di questa promessa.
Industria 4.0, l’approccio erratico del Governo
Il problema di fondo, però, è che queste uscite cozzano con la direzione di fondo della politica industriale fin qui seguita, almeno a livello di enunciazioni, dal governo. Governo che ha esordito ad ottobre, con il Documento programmatico di bilancio (DEF) inviato a Bruxelles, primo atto della lunga partita con le istituzioni europee che si è appena chiusa, tagliando pesantemente i finanziamenti per il piano Impresa 4.0, soprattutto quelli relativi all’iperammortamento, la misura che ha più spinto gli investimenti in beni digitali.
Non solo. Il credito per la formazione 4.0, introdotto dalla precedente legge di bilancio in via sperimentale per il 2018 (e solo per le spese incrementali fino ad un milione di euro), era stato addirittura cancellato. Le proteste dei sindacati e delle associazioni industriali sembrano aver convinto il governo a fare marcia indietro. Speriamo vada davvero così. Ma questa vicenda dice molto dell’approccio erratico – per non dire altro – che caratterizza l’attuale maggioranza nei suoi rapporti con il mondo produttivo in generale e, nel caso in questione, con quello dell’industria.
L’impressione è che non vi sia grande spazio per essa nei pensieri dei due partiti (il discorso va allargato anche alla Lega) che le hanno dato vita dopo le elezioni del 4 marzo. Alle piroette su Industria 4.0 dobbiamo aggiungere quelle che hanno per mesi tenuto in scacco l’Ilva, caso emblematico della cultura antindustriale che permea tutto il Paese, un gigantesco spot al contrario sulla capacità dell’Italia di attrarre investimenti. E che dire del modo in cui si è proposto, modificato, poi modificato di nuovo il cosiddetto eco-bonus, un provvedimento spot, che in realtà ha poco di “eco” e se pur poteva essere meritevole di favorire la transizione energetica nel settore automotive, non tiene assolutamente conto della necessità di progettare le infrastrutture necessarie a questa transizione. Così com’è, rischia solo di ritorcersi contro i lavoratori rendendo carta straccia il piano di 5 miliardi di euro presentato da FCA e danneggiare i consumatori senza benefici reali per l’ambiente.
Industry 4.0, piano e attuazione: tutto ciò che c’è da sapere
Assenza di visione sul ruolo del Paese sulla scena internazionale
Credo che questo breve elenco rifletta in definitiva l’assenza di una visione complessiva sul posto che il nostro Paese occupa nell’economia internazionale, sul suo posizionamento nelle catene del valore, e sul ruolo che esso intende svolgere nel futuro per rimanere agganciato al vagone di testa. Diversamente sarebbe impossibile dare una spiegazione a quanto tutti i giorni accade sotto i nostri occhi.
L’Italia, giova ricordarlo, è ancora la seconda manifattura d’Europa e la settima potenza industriale al mondo. Il settore metalmeccanico occupa un posto centrale: ad esso si deve il 52% dell’export e gran parte dei 47,5 miliardi di surplus commerciale che il nostro paese ha realizzato lo scorso anno vengono dall’industria metalmeccanica. Si può dunque sostenere che buona parte della ricchezza prodotta in Italia dipende dalle sorti delle manifattura. Ciò nonostante notiamo una diffusa mancanza di consapevolezza verso le politiche di sviluppo che pure sarebbero necessarie per costruire un habitat favorevole alle imprese e al lavoro: dalle infrastrutture, materiali e immateriali, agli investimenti sulla banda larga, alla formazione, allo snellimento burocratico, al sistema del credito, fino ad un sistema giuridico efficiente e veloce etc… Si tratta in realtà di problemi noti, sui quali a parole c’è un vasto consenso, consenso che fatica però a tradursi in azioni concrete. Una delle ragioni è che ci lasciamo dominare dalla legge del breve periodo, un vizio dal quale pochi sono immuni nella nostra società, men che meno una classe politica che pensa e agisce come se fosse in un’eterna campagna elettorale.
Ma il breve periodo, per forza di cose, non è l’orizzonte giusto per politiche che devono dispiegare negli anni i loro effetti ed hanno il compito di accompagnare il Paese attraverso una transizione epocale. Il piano Impresa 4.0, pur non essendo immune da difetti, ha contribuito ad accorciare la distanza che ci separa dai paesi che prima di noi hanno imboccato la strada della rivoluzione digitale.
Industria 4.0, lo stato dell’arte
Eppure c’è ancora molto da fare. Secondo i dati di un’indagine pubblicata dal MiSE-Met (“Imprese e tecnologie 4.0”) a luglio, su un campione di 23.700 imprese appena l’8,4% utilizza una tecnologia 4.0. Inoltre solo il 4.7% ha in programma investimenti specifici nel prossimo triennio, mentre una maggioranza schiacciante (86,9%) afferma di non avere in programma di utilizzare tecnologie 4.0 (parliamo di robot interconnessi, manifattura additiva, simulazioni, realtà aumentata, materiali intelligenti, cloud, Big Data, sistemi di cyber security) nel prossimo futuro. L’indagine evidenzia come il processo di trasformazione 4.0 per il 56% delle imprese è avvenuto utilizzando almeno una misura di sostegno pubblico. Un dato, quest’ultimo, che dovrebbe spingere a riflettere.
L’opportunità dei Competence center
Un problema che andrebbe risolto al più presto è quello dei Competence Center, il cui lancio è rimasto intrappolato oltre due anni tra le maglie della burocrazia. Adesso che questo iter, con la pubblicazione della graduatoria, si è chiuso potremo valutare sul terreno se il sistema sarà in grado di produrre quel trasferimento di competenze in vista del quale è stato pensato. La Fim, peraltro, è l’unico sindacato inserito stabilmente in uno dei Competence Center, quello milanese, che dovrebbe partire a metà 2019.
L’idea di puntare sulla formazione continua è ormai un patrimonio della nostra organizzazione. L’introduzione di un vero e proprio diritto soggettivo, una delle conquiste più rilevanti raggiunte con la firma dell’ultimo contratto nazionale, è un passo importante perché chiarisce che la formazione, insieme al salario e alla sicurezza, rappresenta il diritto al futuro.
Il ruolo della formazione terziaria professionalizzante
Per combattere la skill obsolescence e chiudere la forbice tra domanda e offerta, una delle piaghe del nostro mercato del lavoro, serve un sistema formativo continuo. In un paese che ha un crescente skills mismatch tagliare sulla formazione vuole dire puntare sulla disoccupazione. Il 42% delle imprese metalmeccaniche non trova competenze digitali e il 48% non trova neanche quelle “generiche”. Già oggi il nostro Paese, di fronte ad una disoccupazione giovanile che vede oltre 6 milioni di under 35 inattivi, ha una carenza cronica di tecnici specializzati necessari all’industria e alle evoluzioni tecnologiche in corso. Nella quarta rivoluzione industriale, lo sviluppo della formazione terziaria professionalizzante degli Its (Istituti tecnici superiori) sarà fondamentale. L’82% dei diplomati Its entro un anno dal diploma ha trovato un lavoro a tempo indeterminato e coerente col percorso di studi concluso. Per il 70% dei giovani si prospetta una sostituzione di molti lavori rutinari e disumanizzanti che però verranno sostituiti da lavori ad alto ingaggio cognitivo e competenze sui quali una risposta può arrivare dagli Ist. E se in Francia sono 240 mila gli studenti degli Its e in Germania 880 mila, in Italia circa 10 mila.
Per questo la Fim insiste sulla necessità di un sistema formativo duale e nel dire che l’alternanza tra scuola e lavoro deve stare al centro del nostro sistema formativo, come il contratto di apprendistato, deve diventare la forma principale di accesso al mercato del lavoro.
Il paradigma di Industry 4.0 richiederà infatti competenze nuove e più complesse e un aggiornamento continuo. Siamo consapevoli che le nuove tecnologie porranno sfide rilevanti ai lavoratori, specie a quelli che svolgono mansioni routinarie, ma siamo al tempo stesso convinti che l’innovazione presenti nuove opportunità sotto forma di nuovi lavori, molti dei quali oggi neppure esistono: nella storia dell’economia questa è una costante. Come in passato, anche nel tempo che viviamo il cambiamento genera paure. Forse la differenza è che la voce di chi cerca di esorcizzarlo si è fatta più potente, amplificata com’è dai social media e dalla galassia di internet. Siamo immersi nell’infosfera, come la chiama il filosofo Luciano Floridi, e in questo ambiente affascinante ma sfuggente i nuovi impresari della paura, i neoluddisti che in Italia purtroppo vanno per la maggiore, si muovono a loro agio. Sta anche a noi dimostrare che parole come Internet delle cose (IoT), Intelligenza Artificiale, Big Data, Blockchain non hanno alcunché di minaccioso: per questo dobbiamo comprenderne il significato ed essere in grado di svelare ai lavoratori le loro potenzialità.
Le opportunità della blockchain
Proprio riguardo alla Blockchain, di cui certi improvvisati teorici della fine del lavoro stanno cercando di fare uno spauracchio, ho scritto insieme a Massimo Chiriatti un documento (“BlockChainItalia Manifesto per un nuovo bene pubblico digitale”) che si propone di chiarirne le possibilità di impiego e di sfatare alcuni falsi miti.
La tecnologia blockchain, non è applicabile a tutto ma può rappresentare la possibile chiave di volta per risolvere una serie di problemi legati al nuovo paradigma di Industria 4.0, ovvero il progressivo spostamento della produzione e della creazione di valore dagli aspetti puramente materiali di beni e servizi alla componente immateriale. Uno scenario del tutto inedito, in cui si sta verificando la concentrazione dell’amministrazione del diritto di accesso all’informazione nei cosiddetti “gatekeeper” (gestori delle piattaforme), che diventano il centro di controllo delle transazioni lungo le filiere produttive, sede rilevante del valore, e che sta generando una tendenza alla concentrazione e al monopolio. La blockchain può disarticolare questa concentrazione, ridando all’informazione il carattere di bene pubblico. I benefici potrebbero essere notevoli sotto molti aspetti: cicli di vita del prodotto, certificazione del riciclaggio, controllo della filiera produttiva, combattendo la contraffazione e le frodi, la qualità e la sicurezza dei prodotti, ma anche nella contrattualistica del lavoro attraverso gli smart contract .
Anche se l’impiego della blockchain potrebbe non risultare necessario e/o conveniente in tutti i settori, resta il fatto che fin d’ora essa si profila come una delle opzioni più importanti che la tecnologia mette a disposizione per eliminare problemi e introdurre nuove sfide.
Sviluppo tecnologico e trasformazione del lavoro
In ultima analisi, una considerazione approfondita del ruolo che lo sviluppo tecnologico riveste nelle trasformazioni del lavoro ci porta a dire che il futuro è nelle nostre mani: non esiste un esito predeterminato. La tecnofobia è un nemico insidioso, così come l’entusiasmo acritico. Purtroppo, però, anche su una questione di questa complessità il dibattito pubblico ricalca il canovaccio divenuto abituale per la politica: ci si divide in tifoserie, non si ascoltano le ragioni dell’altro, si lanciano anatemi.
Il nostro paese è già malato di un crescente dualismo economico-industriale, nanismo aziendale, scarsa produttività, bassa rigenerazione ceto imprenditoriale, mentre attorno a noi corrono e seguono pensieri e strategie di lungo periodo. Ci mancava un ceto politico che si divide tra anti-industriale e a-industriale, il secondo, anche se teoricamente progressista non sa pressochè nulla di industria e lavoro.
Se posso chiudere con un auspicio per il prossimo anno, mi auguro che all’isteria dominante si sostituisca gradualmente l’attitudine alla riflessione ponderata. Il Paese ne ha bisogno. Oggi più che mai.