Emergono con chiarezza due elementi dall’analisi e dai commenti delle parti sociali, imprese e sindacati, sulle misure del piano Industria 4.0 in manovra. Una critica, praticamente unanime, sull’eliminazione degli incentivi sulla formazione (con proposte varie per recuperare questa parte del Piano, magari rimodulandola in altro modo), e il riconoscimento del fatto che le novità introdotte vanno incontro, almeno in parte, alle esigenze delle PMI, correggendo quindi un eccessivo sbilanciamento sulle grandi imprese che veniva rilevato con le misure degli anni scorsi.
Ci sono poi ulteriori riflessioni, che riguardano ad esempio la mancanza di una vision, che al terzo anno di applicazione del piano dovrebbe ormai indicare con maggior precisione quale strada l’Italia vuole prendere per cavalcare la quarta rivoluzione industriale, al di là degli incentivi fiscali. E una sostanziale differenza di vedute sull’impianto generale del piano, con i sindacati nettamente più critici delle imprese (anche perché viene sacrificata la parte a loro più cara, quella sulla formazione).
«Il giudizio complessivo sulle nuove misure Industria 4.0 in manovra è positivo» commenta Stefano Valvason, direttore generale di API, associazione piccole e medie imprese, che argomenta: «il piano Calenda era smaccatamente concepito per gli investimenti grande impresa, come abbiamo denunciato subito. Ne abbiamo apprezzato impianto e la traiettoria di politica industriale, ma avevamo detto, e ripetiamo, che ci vuole continuità. Anche e soprattutto per dare modo alle Pmi di capire, interiorizzare e predisporre i progetti. E avevamo detto che bisogna rimodulare gli incentivi andando maggiormente incontro alle pmi. E questa manovra lo fa». Paolo Manfredi, responsabile innovazione di Confartigianato, si inserisce in quest’ottica proponendo però un’ulteriore considerazione: «il tema fondamentale è che dovremmo fare una grande convenzione, diciamo degli stati generali, per capire dove vogliamo andare a parare. Il Piano Industry 4.0 nasceva con una visione molto industrialista, pian piano si è corretta la rotta. Oggi che è passato del tempo, e che è cambiata la maggioranza di Governo, cosa vogliamo fare su Industry 4.0?». Fra l’altro, rileva Manfredi, «non è stata più convocata la cabina di regia». Sul fronte sindacale, come detto, la reazione è decisamente più critica. «Mi sembra che le novità intervengano in modo peggiorativo», rileva Massimo Bonini, segretario della Camera del Lavoro di Milano. «Non che ritenessimo ottimali le precedenti misure, abbiamo criticato gli ammortamenti, che però servono in effetti per comprare macchinari, e quindi investire in innovazione. Ma ora ci sono due problemi: manca la formazione per i lavoratori, e resta il rischio di dare più aiuto alle grandi imprese».
Drastico Marco Bentivogli, segretario generale Fim-Cisl: «il Piano Industria 4.0 rappresenta uno dei provvedimenti di politica pubblica di rilancio del lavoro più efficace degli ultimi 20 anni. Gli incentivi messi in campo nella precedente
legislatura hanno avuto l’effetto di rimettere in moto gli investimenti sui macchinari, svecchiando e modernizzando gli impianti produttivi. Gli effetti sulla competitività del paese non hanno tardato a manifestarsi. Ma tutti i benefici fin qui ottenuti rischiano di essere in gran parte vanificati».
Bentivogli: “Su Industria 4.0 si rischia il passo del gambero”
Le critiche sul capitolo formazione
Partiamo quindi dall’analisi della parte che riguarda la formazione. Forse, bisognerebbe dire che “non riguarda”, visto che la novità in questo senso è che dal 2019 non ci sarà più il credito d’imposta sulla formazione 4.0, che dunque proseguirà solo fino alla fine del 2018. «Questa è la parte peggiore della manovra – dichiara senza mezzi termini Bonini -. Stiamo svuotando il principio in base al quale l’incentivazione può mettere in moto l’occupazione». Fra l’altro, il sindacalista della Cgil sottolinea che la formazione serve anche agli imprenditori». Questo è un punto centrale anche secondo Manfredi: «noi insistiamo sul tema della awarness». Secondo Marco Bentivogli, «il taglio del credito d’imposta sulla formazione denota miopia rispetto alle condizioni del sistema industriale del nostro paese. In Italia in un caso su tre le imprese hanno difficoltà a trovare un candidato idoneo. Nei prossimi cinque anni serviranno 469mila tecnici specializzati per soddisfare le richieste delle imprese, ma già oggi circa il 33% delle professionalità tecniche necessarie risultano introvabili. Tagliare i fondi alla formazione significa non avere chiaro quello che capiterà nei prossimi anni».
Bonini propone un collegamento fra Piano Industria 4.0 e reddito di cittadinanza, nel senso che da una parte le norme sul 4.0 dovrebbero ricomprendere formazione e competenze, dall’altra manca totalmente una parte relativa alle Politiche attive. E qui si inserisce appunto la norma sul reddito di cittadinanza, che ancora non è stata messa a punto, in manovra ci sono solo le risorse, interverrà poi un successivo provvedimento con le misure specifiche. «in questo provvedimento ci dovrebbe essere una parte sulle politiche attive, legata ai centri per l’impiego. E qui potremmo chiederci: quali politiche attive? Ci sarà attenzione ai cambiamenti in atto?».
Anche Valvason ritiene negativa la mancanza di incentivi alla formazione, e formula una proposta: «cerchiamo di fare rientrare questi investimenti nella mini Ires». Il riferimento è alla misura inserita in manovra che prevede uno sconto Ires di nove punti, portando quindi l’aliquota al 15%, sugli utili che vengono reinvestiti in macchinari o assunzioni. «Così come sui macchinari e sulle assunzioni, si potrebbe applicare lo sconto Ires anche alla formazione. Tagliare fuori la formazione è un punto molto critico, non ha nessun senso non agevolare la formazione dei dipendenti».
Voucher per gli innovation manager
Qui inseriamo un nuovo elemento: in realtà, una nuova misura che si può inserire nel capitolo formazione e awareness in manovra c’è, ed è rappresentata dai voucher per gli innovation manager. Si tratta di un contributo a fondo perduto fino a 40mila euro (80mila per le reti di impresa), per il 2019 e 2020, per prestazioni consulenziali di natura specialistica finalizzate a sostenere i processi di innovazione tecnologica e digitale attraverso le tecnologie digitali 4.0, e quelli di ammodernamento gestionale e organizzativo dell’impresa. Su questo, sono tendenzialmente positivi i pareri degli imprenditori, meno quelli dei sindacati. «E’ uno strumento utile, come lo è stato a suo tempo quello sul voucher per il temporary export manager. Introduce competenze esterne manageriali. Però – insiste – bisogna anche formare i dipendenti. Quindi, inseriamo nella mini Ires la formazione. Il credito d’imposta dell’anno scorso è stato un disastro, principalmente a causa dell’attuazione troppo complicata. Per quanto riguarda la nostra esperienza, non l’ha utilizzato nessuna nostra impresa associata, nonostante abbiamo investito sull’iperammortamento (acquistando quindi macchinari 4.0). Pur avendo bisogno di formazione, non hanno utilizzato il credito d’imposta. Era troppo complicato». Positivo sui digital innovation manager anche Manfredi, anche perché «vanno incontro all’esigenza di fare awareness, che noi consideriamo primaria». Ma anche Confartigianato ripete: «continuiamo però a lavorare anche sulle competenze».
Bonini è più critico: «riteniamo che i cambiamenti non siano solo in fabbrica, ma anche negli altri settori produttivi. Bisogna considerare fattori economici, sociali, di abitudine. Una figura di quel tipo è molto tarata su competenze molto specifiche, mentre in realtà in un processo di trasformazione come quello in atto servono le soft skill». A questo proposito, «noi ci stiamo interrogando sugli inquadramenti contrattuali, e in particolare sulle mansioni, che sarebbero da riscrivere completamente. Oggi le mansioni sono più trasversali, è difficile rinchiuderle in una casistica come quella prevista dagli inquadramenti attuali. Rinchiudere un lavoratore in una specifica mansione non serve a gestire un’organizzazione modellata sul 4.0. Pensiamo a un operaio: oggi ha un tablet in mano, ha funzioni di controllo, opera delle scelte, prende decisioni in autonomia. Tutto questo negli inquadramenti non è previsto. Come gestiamo questa trasformazione? Fra l’altro, potrebbe esserci una ricaduta positiva su salari. Aumento di competenze, quindi di responsabilità, maggior autonomia, quindi un aumento salariale».
«Nel contratto metalmeccanico abbiamo inserito il diritto soggettivo alla formazione – sottolinea Bentivogli -, proprio perché pensiamo che per combattere la skill obsolescence servirà un sistema formativo continuo. In un paese che ha un crescente skills mismatch tagliare sulla formazione vuole dire puntare sulla disoccupazione. Il 42% delle imprese metalmeccaniche non trova competenze digitali e il 48% non trova neanche quelle “generiche”. Mi chiedo dove abbiano la testa quando preferiscono i sussidi a queste misure. Una politica che pensa solo alle elezioni e ai clic sui social ci riporterà al medioevo.
Le modifiche sugli ammortamenti
Infine, gli ammortamenti. Stop al superammortamento, che quindi sarà utilizzabile solo fino al 31 dicembre 2018 (resta valida l’opzione di estenderlo al 30 giugno 2019, a condizione che l’ordine sia stato fatto entro dicembre con il pagamento di almeno il 20% del dovuto), mentre c’è la proroga dell’iperammortamento, rimodulato. Resta al 250% solo per investimenti fino a 2,5 milioni di euro, scende al 200% dai 2,5 ai 10 milioni di euro, e al 150% da 10 a 20 milioni. «Quando sull’iperammortamento era stata ipotizzata l’intensità agevolativa, facendolo salire al 280%, siamo stati i primi ad essere critici, sottolineando che il 250% era già un ottimo livello di incentivazione, e che era quindi meglio dedicare risorse economiche ad altre agevolazioni – rileva Valvason –. La rimodulazione quindi è positiva sia per l’articolazione di fasce, sia per non aver aumentato l’intensità, che non era richiesta e nemmeno necessaria». Quanto al superammortamento, la soppressione va letta in relazione all’introduzione della mini Ires. «E’ una misura non temporanea, ma stabile, e ha un impatto di nove punti sull’IRES. Il superammortamento invece di fatto impattava per 7,2 punti percentuali. Quindi c’è un incentivo maggiore». Il punto, rileva Paolo Manfredi, è che si incentivano gli utili e non l’investimento. Il paese ha velocità molto diverse: ci sono territori che vanno molto bene, e che hanno risolto il credit crunch, altri dove invece questo non è accaduto, e che sono quindi svantaggiati da una premialità che fa leva sugli utili». Obiezione accolta da Valvason: «questa è una zona grigia. Bisogna però capire a quali utili si riferisce la norma (utili cumulati, periodo d’imposta in corso, periodo precedente). Se la riduzione è sugli utili cumulati negli anni, allora non è così impattante». In realtà, però, la norma si riferisce specificamente agli utili del periodo d’imposta precedente, quindi l’attuale formulazione sembra escludere la possibilità di un’interpretazione estensiva. Un altro punto a favore, però, secondo Valvason, è che la mini IRES è strutturale, dal 2019 in poi, quindi dà maggiori garanzie di continuità alle imprese. Ed «è anche vero che diventa difficile per un’impresa fare investimenti di una certa entità se non ha maturato utili». Qui Manfredi dissente: «gli investimenti si possono fare a debito. Per esempio, con un leasing per comprarmi un braccio robotico: investo sugli utili che farò». In questo senso, quindi, era più utilizzabile il superammortamento.
Bentivogli non ritiene ci sia un reale sforzo a favore delle PMI, «non confondiamo la giusta necessità di essere maggiormente selettivi con la propaganda: si taglia complessivamente uno strumento di politica pubblica che stava avendo effetti importanti, e si rischia alla fine di penalizzare tutto il sistema industriale, comprese quelle piccole e medie imprese che nell’immediato apparentemente godranno di sgravi e finanziamenti. La mini- Ires sulle nuove assunzioni è già operativa a partire dal primo ottobre, ed è stata nei fatti neutralizzata dal decreto dignità. Credo che per le piccole imprese si potrebbe sperimenatare un sistema di incentivi legato alla contrattazione territoriale, individuando in modo preciso quali investimenti finanziare, anche per quel che riguarda la formazione. Attraverso la leva fiscale si potrebbe cercare inoltre di promuovere le attività di formazione che prevedono il coinvolgimento di scuola (percorsi di alternanza scuola – lavoro) e università, a cominciare dagli Its».
In ogni caso, conclude Manfredi, il punto è che «non si vede una strategia chiara. Mi piacerebbe che si riuscisse a fare questo salto successivo. Si deve anche riunire la cabina di regia, altrimenti stiamo andando in ordine sparso». Bentivogli fa i conti in tasca al piano: «le risorse destinate agli investimenti agevolati con l’iperammortamento fiscale scendono di 2 miliardi di euro (da 12 a 10) . Sul credito d’imposta per la ricerca e sviluppo il taglio è di 300 milioni, c’è il taglio secco del credito d’imposta sulla formazione per il quale lo scorso anno erano stati stanziati 250 milioni. Un’assurdità quest’ultima: avere macchinari e tecnologie e non le competenze per farli funzionare non ha senso.
L’abolizione dell’ACE per le medie e grandi imprese e l’eliminazione dell’IRI, l’imposta sul reddito imprenditoriale pensata per le PMI, è di fatto servita per dirottare le risorse verso il progetto di estensione del regime forfettario attraverso la flat tax al 15% per le partite IVA. Per questo guardando i primi numeri l’impressione che ho è quella di un arretramento: si è presa una coperta, si è tagliata e tirata da una sola parte, con il risultato che non servirà a nessuno. Le medie e grandi imprese sono quelle che trainano l’export e l’innovazione ( il 52% dell’export e gran parte dei 47,5 miliardi di surplus commerciale del nostro paese vengono dall’industria metalmeccanica) e hanno un effetto di traino anche sulle piccole, che spesso sono contoterziste. Se penalizziamo le medie e le grandi pensando di fare un favore alle piccole, stiamo in realtà facendo un danno ad entrambe».