La “Quarta Rivoluzione Industriale” è un fenomeno globale dirompente che si contraddistingue per una serie di innovazioni che fondono il mondo fisico e il mondo digitale. L’Italia negli anni scorsi ha prodotto il “Piano Industria 4.0” per intercettarne le opportunità, ma il suo impatto è ancora limitato. Secondo un recente rapporto del Ministero dello Sviluppo Economico, le imprese che ancora oggi non utilizzano tecnologie 4.0 né hanno in programma interventi futuri in tal senso “rappresentano la grande maggioranza della popolazione industriale, pari all’86,9% del totale”.
Il problema varia con le dimensioni aziendali, riguardando nove imprese su dieci che impiegano fino a 10 addetti ma solo il 50% di quelle che ne impiegano oltre 250. E ha conseguenze concrete anche sugli utilizzi degli incentivi pubblici, a partire dalla misura più celebre, il super/iper ammortamento. Le imprese 4.0, infatti, dichiarano di avervi fatto ricorso nel 36,8% dei casi, contro il laconico 12,8% di quelle tradizionali. Capillare diffusione dell’innovazione tecnologica nel paese? No, troppo spesso semplice sostituzione di vecchi macchinari.
Non sui macchinari, ma sulle persone
Politiche di questo tipo sino a quindici anni fa potevano agevolare l’industria italiana nel tornare ad essere competitiva sulla scena dell’Occidente, ma oggi le cose sono cambiate. Non è il “macchinario pesante” il protagonista di questa rivoluzione, sono le persone.
Molto bene quindi la policy per le startup e le PMI innovative, gli incentivi per ricerca e sviluppo, l’accesso al credito tramite Fondo di Garanzia e bene ovviamente anche gli ammortamenti. Però, per dare la svolta, occorre investire nelle idee, nella formazione, nella creazione di reti tra stakeholder.
A rigor di logica si partirebbe dalla nuova classe dirigente, dai ragazzi di oggi che sin dalle scuole superiori hanno bisogno di venire a contatto diretto con il sistema produttivo, sia attraverso efficaci esperienze di internship che grazie a un’offerta formativa più attuale, che parli di mindset per la nuova imprenditorialità, soft skills e del panorama delle frontiere tecnologiche strategiche (IoT, blockchain, fintech, cloud computing, intelligenza artificiale, biotecnologie, manifattura digitale, realtà virtuale ed aumentata). Per le imprese 4.0, dicono i dati del MISE, è più facile sia superare criticità legate alle competenze del proprio personale che investire in assunzioni e formazione.
Formazione per tutti
Quest’ultima, però, non riguarda solo i nuovi ingressi nel mercato del lavoro. Si riferisce anzi in maniera più accentuata a chi già oggi si trova con un impiego: dai blue-collar ai white-collar, l’innovazione pervade ogni ambito produttivo: produzione, logistica, management, marketing. Nessuno deve rimanere indietro.
Un tassello fondamentale per avviare e condurre un processo innovativo è aprirsi, abbattendo i muri fisici e virtuali e fare rete. E’ così che finalmente vedremo i frutti di una ricerca pubblica (da potenziare) ed esempi diffusi e di successo di trasferimento tecnologico oppure che si moltiplicheranno le esperienze di open innovation tra startup e – perché no? – medie imprese. Il lancio, tardivo, dei “competence center” previsti dal Piano per mettere a sistema l’università e l’innovazione in azienda si spera vada presto in questa direzione.
Lo Stato innovatore e il capitale di rischio
Alla base di tutto questo, a servizio del protagonista della Quarta Rivoluzione Industriale, ci deve essere uno Stato Innovatore: efficiente, digitalizzato, sburocratizzato, aperto. Sembra banale ricordarlo ma l’Italia è tra i Paesi meno interoperabili, dotato di un parco servizi della pubblica amministrazione totalmente frammentato e fuori standard. Molto c’è da fare e tutto questo servirà anzitutto ad efficientare i processi interni per poi generare benefici diretti per gli utilizzatori.
Per ultimo, ma non per importanza, occorre parlare di capitali. L’innovazione tecnologica richiede un flusso di denaro notevole per poter dare i suoi frutti. Non parliamo di prestiti o incentivi, parliamo di un mercato decine di volte inferiore rispetto a simili paesi Europei: il capitale di rischio. Già perché con i nostri 130 milioni di euro annui non possiamo finanziare un bel niente! Non riusciremo mai, con questi numeri, a creare innovazione diffusa. Il venture business investe in maniera quasi statistica seguendo una ratio ormai nota e confermata: statisticamente un certo (grande) numero di startup fallisce ma al contempo un (piccolo) numero di startup sopravvive, ha successo o, addirittura, diviene “unicorno”. Questi paradigmi ed esperienze, in Italia, sono totalmente assenti.
La quarta rivoluzione industriale italiana
Su questo punto in particolare il Parlamento opererà già da settembre attraverso un’indagine conoscitiva in attività produttive. Sarà aperto un canale diretto tra istituzioni e stakeholder per capire le problematiche del venture business e individuare possibili soluzioni. Il Ministro Di Maio ha già dichiarato in sede di commissione parlamentare, esponendo le linee programmatiche del suo ministero, che intenderà istituire una piattaforma pubblica per gli investimenti coinvolgendo gli operatori privati, a partire da fondi pensione, casse di previdenza e assicurazioni.
Il ruolo del Governo è dunque chiarissimo: dare il via alla Quarta Rivoluzione Industriale Italiana. Lo faremo a stretto contatto con gli stakeholder, investendo nelle scuole e nella formazione, potenziando la ricerca pubblica favorendo il trasferimento tecnologico, innovando la pubblica amministrazione nell’ottica di un sistema interoperabile e sbloccando una volta per tutte quello che è un mercato oggi latente, quello dei capitali di rischio.