“Oggi si respirano due cose, che non c’erano nei convegni su manifattura ed economia due o tre anni fa: la serenità degli imprenditori e la prospettiva di una positiva ripresa dell’economia. Gli imprenditori non si lamentano più. Chiedono consigli su cosa fare, come muoversi per digitalizzare in chiave Industria 4.0, mentre prima si concentravano su come fare per non chiudere. Questo cambiamento di atteggiamento dell’imprenditore, che è il motore dell’economia, è un dato molto positivo”. Marco Taisch, docente di Ingegneria Gestionale al Politecnico di Milano, argomenta così il suo ottimismo sul fatto che Industria 4.0 sia effettivamente una grande occasione che l’Italia riuscirà a cogliere, rispondendo all’implicita domanda posta dal titolo dell’edizione 2017 del report dell’Osservatorio Industria 4.0 della School of management del Politecnico di Milano (Industria 4.0: la grande occasione per l’Italia).
Il percorso del sistema Italia verso un vero obiettivo di Industry 4.0, in realtà, è appena iniziato, su questo punto si registra un accordo trasversale fra gli esperti. «Il dato che mi colpisce di più è il forte aumento registrato negli ultimi anni della consapevolezza sul 4.0» spiega Giancarlo Oriani, Ceo Staufen Italia. Da qui alla reale applicazione di un modello 4.0, però, ce ne passa. Dalla ricerca dell’Osservatorio Industria 4.0, emergono dati positivi anche sul fronte dell’adozione di tecnologie 4.0, stimolate dal piano del governo con super e iperammortamento, credito d’imposta ricerca e sviluppo, agevolazioni per gli investimenti in startup, solo per citare i benefici fiscali maggiormente rilevanti. Ma si segnalano anche una serie di rischi: investimenti effettuati per sfruttare gli incentivi senza aver predisposto un vero e proprio progetto 4.0, eccesso di domanda rispetto alle reali capacità del mercato. I numeri: il livello di conoscenza è molto aumentato. Nel 2016 c’era un 38% di imprese che non conosceva Industria 4.0, mentre ora la percentuale è scesa all’8%. Ed è salita dal 15 al 28% la percentuale di chi ha già implementato concretamente soluzioni sul tema, e dal 13 al 28% quella di imprese che stanno valutando come muoversi. Incrociamo questi dati con quelli di mercato: nel 2016 vale 1,6 – 1,7 milioni di euro (stima che considera esclusivamente gli investimenti digitali 4.0), la crescita è del 25% sull’anno precedente, e per il 2017 è atteso almeno un altro 30%, anche grazie al traino degli incentivi. “Se questi numeri saranno confermati – si legge nel report -, nel giro di due anni l’Italia avrà quasi raddoppiato i propri investimenti nella trasformazione digitale, mettendo decisamente in moto il percorso di recupero del ritardo accumulato rispetto alle più mature situazioni internazionali”.
Qui, si può sottolineare l’utilizzo dell’espressione “mettendo in moto il percorso di recupero…”, che evidenzia come la strada da fare sia ancora lunga. E’ vero che siamo all’inizio del percorso, spiega Taisch, che però insiste sull’ottimismo nei confronti del sistema Italia: “vedo solo dei più, più awarness, comprensione, formazione, investimenti, quindi più economia e pil”. Oriani introduce elementi di prudenza: «alcune aziende sono molto attrezzate, altre meno», specifica, e il punto critico non sono tanto le dimensioni (si dice spesso che le grandi imprese sono avanti rispetto alle Pmi), quanto “il mercato di riferimento. Le aziende internazionalizzate sono più disposte a fare ragionamenti per migliorarsi. Quelle che sono invece più concentrate su un ambito locale, con meno competizione, stanno un po’ afflosciandosi”. Dunque, apertura al mercato come stimolo a restare competitivi nella quarta rivoluzione industriale.
Tutti d’accordo sul fatto che ci sia da affrontare la questione del gap di competenze. Oriani lo rileva soprattutto sul fronte dei manager, dato preoccupante «perché è difficile definire una roadmap valida senza avere una reale conoscenza» della tematica da affrontare. La risposta migliore è la formazione, e la cosiddetta “digitalizzazione degli sprechi”: la tecnologia, da sola, non risolve i problemi, che invece si risolvono con l’organizzazione. “Il digitale supporta e potenzia l’organizzazione, ma bisogna stare attenti a non confondere i fini con i mezzi”. Esempio concreto: l’evoluzione della figura professionale del data scientist. Oriani si chiede se stiamo andando verso una sorta taylorismo digitale, quindi di organizzazione molto rigida delle modalità di lavoro, modello a cui oppone l’approccio lean, che fornisce all’operatore i dati sulla macchina, in modo che sappia intervenire in tempo reale in base a quello che succede. In parole semplici: «è importante che il data scientist non si limiti a stare in ufficio e mandare input, ma sappia valorizzare il rapporto fra nuove professioni e quelle più tradizionali».
La ricerca dell’Osservatorio ha dedicato uno specifico tavolo di lavoro Jobs and Skills all’evoluzione delle competenze e delle figura professionali 4.0. Concentrandosi su cinque aree aziendali (operation, supply chain, product-service development, industrial data science e integrazione fra IT (information technology) e OT (operational technology) ha identificato un centinaio di nuove skill tecniche 4.0, aggregate in 25 famiglie. Quella segnalata come preponderante dal report è «la capacità di definire, implementare e gestire un piano di adozione delle tecnologie 4.0» trasversale alle cinque aree.
Molte le risposte che gli esperti hanno fornito nel corso di presentazione della ricerca alla richiesta di identificare una o due skill al massimo. Taisch non ha dubbi: «la prima è la capacità di leggere i dati e trasformarli in informazione, e la seconda è sempre la capacità di leggere i dati e trasformarli in informazione». Conclusione: “Abbiamo iniziato la via italiana a Industria 4.0, siamo passati dal che cos’è, alla fase ‘ora l’ho capito e la calo nella mia azienda'”. E’ questa, dunque, la sfida dei prossimi anni.