Il 2016 si chiude con l’auspicio che il nuovo Governo a guida Gentiloni prosegua nel tentativo di implementare e diffondere l’Industria 4.0.
Al ministro Calenda va riconosciuto il merito di aver dato concretezza ad un progetto in fase di stallo, rimettendolo al centro dell’agenda industriale governativa. Tuttavia, è il Parlamento che per una volta è stato degno protagonista di quello che dovrebbe essere il suo ruolo, promuovendo l’automazione della nostra industria, studiandola, e favorendo un piano che il Governo ha poi sintetizzato con una serie di importanti provvedimenti nella legge di Bilancio 2017. Le due tipologie di super-ammortamento che il Governo ha introdotto è un passo avanti rispetto a quanto fatto fino a qui e mira alla risoluzione di due problemi cronici che affliggono da anni il settore manifatturiero italiano: il parco macchinari e la scarsa intraprendenza negli investimenti digitali.
Come rilevato infatti dalla ricerca UCIMU 2015 la quota di macchinari considerati “tradizionali” è ancora del 74% e il livello di automazione generale dei macchinari è cresciuto nel decennio 2005-2015 meno che in quello precedente. Così tra il 2005 e il 2015 le macchine automatizzate sono passate dal 31% del totale al 32%.
Se si considerano poi gli investimenti nel digitale la situazione non è più rosea: le imprese italiane destinano mediamente l’1,37% del proprio fatturato in investimenti alla digitalizzazione dei processi e dei sistemi produttivi mentre la media europea è del 3.6%. Uno scarto considerevole che deve stimolare riflessioni sulla competitività della nostra industria e sul suo livello di innovazione.
Gli ammortamenti, che coinvolgono macchinari, hardware e software sono stati ben accolti dall’universo industriale e perlomeno testimoniano un certo impegno nel supporto alla digitalizzazione del paese. Tuttavia la manovra presenta alcune criticità.
Il primo nodo da affrontare riguarda le PMI che rappresentano all’incirca il 95% dell’industria italiana di cui il 4,6% è costituito da piccole imprese (tra 10 e 50 dipendenti) e lo 0,5% da medie imprese (tra 50 e 250 dipendenti). Posto che nel migliore dei casi tutte le aziende cercheranno di sfruttare il vantaggio fiscale acquistando macchine rispondenti ai requisiti e integrando il parco già presente, non vi è alcuna certezza che a livello culturale, manageriale e occupazionale le PMI siano stimolate ad accogliere pienamente i nuovi paradigmi di produzione 4.0.
La realtà ci dice che la maggior parte delle aziende ha smesso di investire nell’innovazione da tempo e non ha interesse a farlo nel breve periodo. Perlomeno finché gli strascichi della crisi economica si protrarranno e rappresenteranno un forte deterrente all’utilizzo di budget per investimenti “non tradizionali” considerati onerosi e rischiosi.
Il secondo punto fondamentale, strettamente connesso al primo, riguarda l’implementazione della strategia Manifattura 4.0. Manca ancora un piano preciso che accompagni le imprese, soprattutto quelle di dimensioni minori, verso il cambiamento.
Per creare un vero ecosistema favorevole ai nuovi modelli di produzioni è necessario pianificare in modo dettagliato la strategia da seguire. Non è solo l’industria a dover subire una rivoluzione. Questo cambiamento coinvolge anche l’educazione, la creazione di nuove competenze e il mercato del lavoro che in Italia fatica ad accogliere e adattarsi ai mutamenti in corso. Occorre poi monitorare l’evoluzione del piano, studiarne a fondo i risvolti e informare in modo adeguato tutti gli attori del mercato.
Le soluzioni, da questo punto di vista, sembrano ancora poco consistenti. La legge di Bilancio stabilisce una linea programmatica sull’allocazione di fondi e risorse nei diversi settori, ma non è in grado di comunicare la strategia di fondo. Per questo motivo sarà compito del nuovo governo di concerto con tutti i diretti interessati indicare la strada e porre i paletti per il vero cambio di marcia. Il rischio è di vanificare gli sforzi fatti e i soldi spesi.