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Industry 4.0, Paolo Dario: il Sant’Anna di Pisa punta a Industria 5.0

La Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa interpreta la mission di competence center puntando su robotica collaborativa e realtà virtuale a livello tecnologico, e su una vision che incorpora ricerca in ergonomia, leggi sulla robotica, ripensamento del concetto fisico della fabbrica che diventa distribuita: l’analisi di Paolo Dario, coordinatore del competence center

Pubblicato il 03 Mar 2017

Paolo Dario, Direttore dell’Istituto di BioRobotica della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa e coordinatore del competence center

«La nostra mission è guardare al futuro: industria 4.0 non è l’obiettivo finale, è l’obiettivo dei prossimi 2-3 anni. Ma in realtà noi vogliamo puntare a quella che definisco industria 5.0». Paolo Dario, Direttore dell’Istituto di BioRobotica della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa e coordinatore del competence center, interpreta così l’impegno nell’ambito del piano italiano Industria 4.0. La sua è una vera e propria vision: tecnologie (avanzatissime), ergonomia, il lavoro che cambia, formazione, la fabbrica distribuita, che arriva nelle case e nei laboratori degli artigiani. Tutti aspetti che vanno miscelati, per dare valore al prodotto, non solo sempre più customizzato (su misura, uno dei parametri di Industry 4.0), ma anche arricchito da una maggior qualità. Trasportando a tutti i settori del manifatturiero l’eccellenza che l’Italia ha saputo mettere nel design, nella moda, nel cibo. In vista, lo ricordiamo, c’è il decreto attuativo che conterrà i criteri per il bando con il quale verranno selezionati i competence center. Nell’attesa, iniziamo un’indagine su come si stanno preparando le Università che intendono partecipare al bando.

Prima di tutto, spiega Paolo Dario, «stiamo riflettendo, analizzando a fondo la situazione, studiando il panorama nazionale e internazionale, come è nostro costume. Industria 4.0, in realtà è la prima iniziativa di politica industriale da 30 anni. E’ una grande occasione, come sistema paese». Quindi, bisogna cogliere le ultime novità che si verificano nel mondo, analizzarne l’impatto in modo da essere pronti con azioni adeguate. Il punto è «trovare il modo di agire insieme alle imprese per trasferire questa conoscenza, per aiutare soprattutto le PMI a utilizzare tutte queste tecnologie» 4.0, anche facendo loro capire che «la tecnologia non è stratosferica, è semplicemente un uso molto intelligente della connessione di macchine sempre più intelligenti, attraverso connessioni sempre più efficaci, supervisione, comunicazione con l’uomo. Tutte cose che in alcuni casi di buona pratica ci sono già, la sfida è quella di estendere questo tipo di esempio e diffonderlo capillarmente». Lavorando insieme alle imprese che costruiscono componenti, hardware, software, cercando di capire, con chi ha già adottato questo modello, come si possa fare questo nel modo migliore. Le tecnologie abilitanti di industria 4.0 sono tante: robotica, digital manufacturing, ambienti virtuali, automazione.

Il Sant’Anna di Pisa intende puntare principalmente su due cose: la robotica, in particolare i robot collaborativi, e gli ambienti virtuali. Quella che sta avvenendo nel mondo della robotica, è una rivoluzione: «prima i robot vivevano in gabbia. Erano chiusi, non sensorizzati, di fatto lavoravano da soli. Lavoravano benissimo, e lo fanno ancora. Ma il futuro è dei robot che lavorano insieme all’uomo. Quando dico insieme, intendo proprio a contatto di. Questa è una tecnologia già disponibile, certificata, e noi la vorremmo estendere a moltissimi casi. Anche ad applicazioni in cui la collaborazione fra umano e robot è sempre più efficace. Il robot aiuta l’uomo, senza sostituirlo, magari svolgendo operazioni che richiedono più forza, mentre l’uomo può svolgere operazioni che richiedono più intelligenza, esperienza. Potrà anche mettere in gioco maggiormente le sue capacità, l’esperienza magari nel saper fare, e così via».

Poi, come detto, «possiamo offrire la nostra competenza nel campo degli ambienti virtuali, quindi della simulazione sempre più spinta. Sia per progettare, quindi utilizzando strumenti sofisticati di realtà virtuale, e poi per includere queste competenze in fabbrica, quindi realtà aumentata. I processi diventano sempre più interattivi, attraverso l’interazione fra simulazione (quello che si è fatto prima) con la realtà (quello che avviene), il processo diventa più efficace.

Ci sono altre specificità del Sant’Anna: «digital manufactoring, ergonomia, siamo anche molto bio-ingegneri, abbiamo competenze nelle scienze nella vita. Il lavoratore è al centro di Industria 4.0: quindi bisogna concentrarsi su ergonomia, riduzione della fatica. Ci sono aspetti molto importanti, legati all’accettabilità, alle leggi che regolano l’introduzione della robotica, che noi abbiamo contribuito a portare a livello di commissione UE ma non solo. Il management, quindi l’organizzazione del dato, l’inclusione di nuovi tipi di lavoratori, che invecchiano, o magari sono immigrati. Problemi che noi tendiamo ad affrontare a tutto tondo». Ancora: i modelli macro-economici. «Il robot toglierà o aggiungerà lavoro? Per rispondere a questa domanda stiamo studiando modelli macro economici, che vengono poi tradotti in modelli di micro economia». Risultato: «la nostra è un’impostazione a tutto tondo, olistica, puntata bene su alcuni temi tecnologici, ma anche con una visione».

E qui ci stiamo avvicinando al concetto di Industria 5.0. Tutto questo, prosegue Paolo Dario, «ha un valore economico. Non è speculazione, se le nostre imprese sapranno usarli bene, questi elementi rappresentano un vantaggio competitivo». Gli aspetti regolatori, l’ergonomia, l’attenzione alla persona umana, il design, la circular economy, sono valori che hanno un impatto economico. Sono tutti pezzettini di un modo di pensare l’industria che è proiettato davvero al futuro. In materia di circular economy, ad esempio, l’ateneo lavora sulla robotica che si prende cura del ciclo ottimale dei rifiuti.

Per riassumere: si parte dalle tecnologie 4.0, in particolare robotica collaborativa, ambienti virtuali e aumentati, e si approfondiscono via via altri elementi che arricchiscono profondamente l’approccio, e lo migliorano.  E siamo alla Germania. «I tedeschi riescono a farsi pagare i prodotti di più, perché li ammantano di una serie di considerazioni legate a qualità, affidabilità, design, robustezza, ambiente. Sono tutte cose che hanno un valore. Il consumatore del futuro è sempre più attento a questo tipo di cose, non soltanto al costo. E comunque, l’industria italiana non può competere solo sul costo, deve competere sulla qualità. Un approccio articolato e multiforme può dare un vantaggio vero ai prodotti italiani, come avviene nella moda e nel cibo. Settori in cui ci facciamo pagare molto bene per questi motivi. Perché non ripeterlo sistematicamente nei prodotti che Industria 4.0 saprà generare?».

Quindi, la seconda nostra mission è guardare al futuro, ovvero a Industria 5.0. Significa «un’industria più evoluta, in larga misura da immaginare. Una nuova generazione di impresa, molto attenta agli aspetti etici, al design, all’ambiente, alla social innovation, al crowdfunding, al 3D manufacturing, al mondo artigianato che cresce, alla personalizzazione spinta. Che abbia collegamenti con agricoltura, artigianato, sanità, servizi». Si ripensa il concetto di produzione in serie, ma anche quello di fabbrica. «La fabbrica del futuro potrebbe anche essere fatta di pezzettini connessi fra loro in rete in ambienti piccoli in cui uno lavora a casa, senza andare in fabbrica. Non sto dicendo che avverrà così per tutto, ma che questo scenario si possa aggiungere». Il concetto di fabbrica distribuita porta l’integrazione fra diverse culture, compresa quella umanistica.

In conclusione, «la nostra vision non è solo industria 4.0, ma anche quella di avere una roadmap», per una via italiana a Industria 4.0 che vada oltre, e sia proiettata verso industria 5.0. Perché se no, «industria 4.0 è un inseguimento, e a me non piacciono gli inseguimenti. Noi vogliamo essere leader: non “me too”, ma “me first”.

Tornando sulla terra, come si fa tutto questo nella pratica di un competence center? «Vogliamo essere una reaserch factory, una fabbrica simulata in cui industria e ricercatori lavorino insieme. L’idea è di ascoltare le imprese, che esprimono bisogni fondamentali. Noi ricercatori possiamo anche proiettarci verso industria 5.0, ma al momento industria 4.0 è guidata dalle imprese, che sanno cosa fare, hanno dei bisogni che noi possiamo sviluppare insieme. Abbiamo laboratori congiunti con grandi aziende, dimestichezza su come si lavora con le imprese, grandi e piccole, esperienza con le startup». Oltre a dedicare un luogo fisico all’incontro fra industria e ricerca (in realtà ce ne sono vari), bisogna mettere in rete tutta una serie di altre competenze, una struttura che promuova questa informazione verso le imprese: lo strumento principale sarà il web, ma anche incontri.

Quindi, «noi il piano lo abbiamo: agire, parlare alle imprese, in modo proattivo, con tutta una serie di operazioni maieutiche, per capirne i bisogni, incoraggiarle ad esprimerli, aiutarle con tutti gli strumenti disponibili, ovvero incontri fisici, rete. E poi tradurre questo in contratti di collaborazione. Perché uno degli strumenti fondamentali è il lato fiscale». Gli incentivi possono essere usati dalle imprese per comprare attrezzature nuove, macchine, e per finanziare la ricerca. «Solo noi, con sei istituti, e altre università che coinvolgeremmo, come Pisa, Firenze, abbiamo la possibilità di attirare ed educare centinaia di dottorandi. Le imprese hanno ora gli strumenti per finanziare questi dottorati a costi ridottissimi. E’ un investimento sui giovani, che potranno lavorare sulle imprese. E’ l’occasione per formare una nuova generazione di persone, prevalentemente tecnici ma non solo, capaci di arricchire le imprese con le loro conoscenze». Quindi, anche per i competence center, la sfida è quella di utilizzare gli incentivi per formare competenze. Quindi, anche un messaggio positivo per i giovani: «Dobbiamo essere seri e leali. Innovare e creare posti veri e non fasulli. Fare Università e ricerca che non sia solo per pubblicare. Anche le Regioni devono fare la loro parte. L’Italia è paese manifatturiero, non ce lo dobbiamo dimenticare. Noi non facciamo software, costruiamo macchine, impianti, auto, moto, oggetti di moda che si vendono in tutto il mondo. Abbiamo la cucina, l’agricoltura. Usiamo le mani, siamo un paese manifatturiero. I nostri giovani a questo devono essere incoraggiati. Industria 4.0 è adatta anche a persone che abbiano studiato lettere e filosofia».

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