l piano Industry 4.0 è passato intatto, come previsto, con l’approvazione della legge di Stabilità e ora si tratta di guardare avanti. Con pratico spirito di ottimismo. «Le priorità del piano Industria 4.0 non sono cambiate, ma la crisi di governo ha inserito un elemento di incertezza all’attuazione», anche per quanto riguarda le novità sugli investimenti delle imprese in tecnologie, a partire dall’iperammortamento, osserva Giovanni Miragliotta, docente di Ingegneria Gestionale al Politecnico di Milano. Salvatore Majorana, direttore del Technology Transfer dell’Istituto Italiano di Tecnologia (IIT), si augura che non ci sia un impatto negativo sul piano, in base alla considerazione che «le politiche industriali non debbano essere vestite di preferenze politiche, ma sono nell’interesse del paese». Ottimismo anche da parte di Michele Colajanni, direttore del Centro di Ricerca Interdipartimentale sulla Sicurezza e Prevenzione dei Rischi (CRIS) dell’Università di Modena e Reggio Emilia, che a sua volta spera non ci siano conseguenze sull’attuazione del piano inserito in manovra: «immagino che sia andato abbastanza avanti, e c’è un interesse multiparte per cui ipotizzo che possa continuare con le sue gambe».
Il più dubbioso, quindi, resta Miragliotta, che in effetti pone delle problematiche relative proprio all’attuazione di una misura fondamentale come quella sugli investimenti in tecnologie 4.0: «gli investimenti in software devono essere collegati a quelli in beni materiali – sottolinea – ma non è precisato in cosa debba consistere questo collegamento. Ci sono dei punti da chiarire per la trasformazione operativa» (per i dettagli su questo punto, vedi scheda sulle tecologie in manovra).
Un altro punto che rischia il rallentamento è quello relativo ai finanziamenti ai competence center: 20 milioni di euro per il 2017 e 10 milioni per il 2018 (comma 115, articolo 1), che necessitano di un decreto ministeriale attuativo.
In questo senso, «il piano avrebbe beneficiato di stabilità politica».
Nell’attesa di capire esattamente che cosa succederà del piano, analizziamo con gli esperti le misure relative alle tecnologie 4.0 che sono state inserite, e il modo in cui le imprese dovranno sceglierle e, soprattutto, svilupparle in ottica innovativa.
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Secondo Miragliotta, il punto di partenza è il seguente: «non si può fare la quarta rivoluzione industriale se non hai fatto bene la terza. Non dico completata, ma almeno se non hai iniziato a fare bene la terza». A questo punto, l’impresa può scegliere due strade: «usare le tecnologie per migliorare i fattori competitivi tradizionali (che possono essere la qualità, il tempo, l’efficienza), quindi per fare meglio rimanendo nel vecchio modello di business. Oppure usare le tecnologie per cambiare il modello di business». «Il piano del governo enfatizza l’aspetto della connettività». Connettività della fabbrica, dalla fabbrica, verso i fornitori. Ci sono poi linee di investimento su asset specifici (come la robotica o i software di progettazione virtuale). Però c’è un accento particolare su collegare macchinari, dipendenti, e precedente patrimonio informativo». Il riferimento è all’iper ammortamento al 250%, in base al quale «non si può incentivare un macchinario qualsiasi, quello rimane incentivato con il superammortamento. Per avere l’incentivo al 250%, «il macchinario deve essere connesso. Lo stesso dicasi per il software, che deve essere utilizzato per valorizzare oggetti connessi. La linea di demarcazione è la connessione. Quindi l’Internet delle cose, che sopra si porta il cloud, e a quel punto avrai bisogno dei big data perché con tutti i dati che producono i macchinari non ne viene fuori a mano».
Quello che devono fare le imprese, prosegue Miragliotta, è «analizzare il loro stato attuale di digitalizzazione dei processi operativi, dal punto di vista dei processi di fabbrica, di progettazione, gestione ciclo prodotto, processi di collaborazione dal punto di vista della catena del lavoro». Il Politecnico di Milano ha messo a punto specifici protocolli di analisi per capire quanto matura sia un’azienda dal punto di vista della digitalizzazione. «Poi, deve completare le aree di cui ci siano dei gap di partenza, e analizzarle rispetto alle nuove possibilità offerte dal digitale, stabilire in quali ambiti le tecnologie possono maggiormente determinare un vantaggio competitivo» ad esempio sul fronte del recupero efficienza, o per il miglioramento del prodotto – servizio. Se per ipotesi un’impresa appartiene a un segmento in cui c’è elevata competizione sul prezzo, e quindi fra i fattori critici c’è l’efficienza, la continuità dei macchinari, la qualità del prodotto, supponendo che sia matura dal punto di vista della terza rivoluzione industriale, la sfida consisterà nel connettere i macchinari, acquisire i dati, monitorare i processi, migliorare l’utilizzo attraverso politiche manutentive smart, riuscire a far crescere il coinvolgimento dell’operatore su tutte le pratiche che portano a rendimento dei processi e recupero produttività». Esempio: «nel settore alimentare, un’impresa lavorerà su velocità, qualità e genuinità del prodotto, e le tecnologie utili saranno quelle che aiutano a migliorare la tracciabilità, contenere i tempi di gestione, trasporto, spedizione». Ogni settore produttivo sceglierà quindi le tecnologie giuste.
E questo è l’approccio classico, che consiste nel potenziare i propri asset strategici. Ma le nuove tecnologie aprono anche a «nuovi modelli di vendere il prodotto-servizio, secondo il trend della servitizzazione. Quindi, io non vendo l’ascensore, vendo al corsa dell’ascensore. Lo progetto meglio perché ne conosco gli usi, posso monitorare quante corse fa e quante no, e sviluppare un modello di business differente». Alla fine, «quello che faccio pagare al mio cliente è, nel tempo, un utilizzo più efficiente del prodotto».
Salvatore Majorana si concentra invece sulla possibilità di sviluppare nuove tecnologie innovative attraverso la ricerca scientifica, utilizzando il credito d’imposta, strumento che «consente all’azienda di assumersi il rischio di sperimentare soluzioni nuove, come sistemi di controllo adattivi, che consentano la coesistenza dei robot sulla linea di montaggio con gli operatori umani, come sistemi di raccolta dati e analisi delle performance del sistema produttivo. Investimenti che richiedono una quota di attività di ricerca». La misura è contenuta nel comma 14 della manovra, che raddoppia il credito d’imposta al 50%, allunga il periodo al 2020 (dal precedente 2019), aumenta l’investimento a 20 milioni (dai precedenti 5 milioni). Non solo: il credito d’imposta è esteso anche a imprese residenti e stabili organizzazioni di soggetti non residenti, che eseguono le attività di ricerca e sviluppo nel caso di contratti stipulati con imprese residenti, oppure appartenenti a paesi UE o dello Spazio Economico Europeo. La legge, dunque, punta ad attirare imprese estere a sviluppare ricerca in Italia.
Tecnicamente, la norma va a modificare l’articolo 3 del decreto legge 145/2013 (che aveva introdotto il credito d’imposta ricerca e sviluppo), prorogandolo e potenziandolo, e (come prevede il comma 16 dell’articolo 1 della Legge di Stabilità), ha efficacia a decorrere dal periodo d’imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2016. Non necessita quindi di provvedimenti attuativi, essendo una proroga di misura esistente, e quindi almeno dal punto di vista tencico non c’è impatto diretto della crisi di Governo e della conseguente instabilità politica che ne deriva.
Il fatto che il credito d’imposta venga potenziato fa ben sperare perché l’esperienza del’ITT, sottolinea Majorana, dice che si tratta di una misura che, anche nella precedente versione, era già sfruttata «da imprenditori che abbiano un progetto in cantiere, ed è quindi efficace nello smuovere i progetti dai cassetti».
Esperienza concreta di un’azienda che negli anni passati ha utilizzato il credito d’imposta: un’impresa che ha «investito in una diversificazione del modello di business, rivolgendosi a una ricerca che consentisse di adeguare il prodotto a un settore completamente nuovo. Si tratta di un’azienda che fa macchine per la stampa roll to roll, destinate a clienti che stampano etichette, fanno packaging, producono gratta e vinci. La visione dell’azienda è che il futuro passa non più per carta e plastica da stampare, ma sistemi funzionalizzati con elettronica stampabile. Per stampare l’elettronica era necessario fare della ricerca, che consentisse di imparare a fare macchine che stampassero elettronica. L’azienda ha con noi avviato una fase di studio che è durata quattro anni, nella quale abbiamo messo a punto un sistema per stampa con macchine roll su roll di celle fotovoltaiche».
In questo caso, l’impresa aveva già una vision. Più frequentemente, «l’azienda viene a capire cosa sappiamo fare e insieme ci vengono delle idee. Con ogni probabilità, se non ci fossero stati incentivi come il credito d’imposta, progetti come questo appena descritto avrebbero avuto un respiro meno ampio, quindi una minore probabilità di successo. Quindi, l’incentivo è straordinariamente valido nella creazione della filiera perfetta. Servono però aziende con visione, voglia e capacità di investire». Si tratta di investimenti che possono richiedere qualche centinaia di migliaia di euro negli anni.
L’ITT di Genova si occupa di robotica, scienze della vita, scienze dei materiali, per settori che vanno dal pharma alla chimica, passando per l’automazione industriale. E fa ricerca sull’intelligenza artificiale. «La robotica che entra nelle aziende è destinata all’automazione delle filiere produttive, e incorpora un approccio classico, a cui noi contribuiamo dando soluzioni orientate alla robotica collaborativa, all’aumento della qualità del controllo del lavoro svolto, e quindi una facilitazione sia del lavoro delle persone in linea, sia della qualità del prodotto finale». La vision che lo studioso ha delle tecnologie 4.0 è espressa in una citazione: «la velocità è la nuova valuta dell’industria. Velocità di risposta al consumatore, alle nuove tecnologie, tutto ciò introducendo sistemi che in automatico rispondano più velocemente.
L’intelligenza artificiale è già presente e lo sarà sempre di più nei prodotti (esempio, il cruiser control dell’autovettura, che regola la velocità per assicurare l’andatura migliore, quindi raccoglie informazioni, le elabora, e fa delle scelte). Applicata all’industria, significa «pilotare macchine di produzione che facciano delle scelte. Il tornio intelligente, la linea. Ci sono nastri trasportatori corredati di sistemi che fanno scelte a seconda del tipo di oggetto che stanno trasportando, sono già esistenti e installabili. Rendono più flessibile il sistema produttivo e consentono di reagire in qualità a richieste che possono essere parcellizzate e personalizzate. Andiamo verso il su misura, la produzione in lotti piccola senza compromettere la economicità della produzione.
La robotica, aggiunge Miragliotta, «non serve a produrre a prezzo inferiore. In tutti i processi in cui è entrata per prima, non si è spiegata per costo, ma per una questione di qualità. Il driver che ha portato automazione nelle fabbriche, non è mai stata la riduzione dei costi, ma la possibilità di assicurare un livello qualitativo uniforme. Tutti quelli che pensano che hanno messo i robot per fregare le persone sappiano che non potresti andare a 350 km all’ora con un pneumatico montato a mano. La robotica lavora per automatizzare una nuova generazione di funzioni, meno ripetitive di quelle che si facevano dieci anni fa».
In generale, le nuove tecnologie 4.0 tendono a portare la produzione più vicina al consumo. Fra l’altro, l’Italia è fra i primi produttori al mondo di macchine industriali (ceramica, utensili, packaging, medicali). Le imprese manifatturiere possono contare su un buon ecosistema dal lato dell’offerta, fatto dalle branch italiane dei grandi brand tecnologici, dai system integrator, dalle grandi aziende che fanno automazione.
E qui siamo alla Cybersecurity, perché come è facile intuire «nel momento in cui si mette elaborazione nei sistemi, ogni sistema diventa un potenziale obiettivo». Colajanni spiega che «un attacco può avvenire per furto di informazioni (e questa è l’ipotesi più tradizionale), ma molto più pericoloso è l’attacco per sabotaggio», che può avere impatto sulla sicurezza fisica dei lavoratori, sulle persone, sulla società. Oltre che sul funzionamento dell’impresa. Gli episodi, anche recenti, di attacco anche a primari player informatici internazionali non mancano. Sono 20 anni che parliamo di cybersecurity, e «i problemi non sono ancora risolti». Ora che la questione riguarda da vicino l’industria, il clima è cambiato. «Devo dire che le industrie sono molto più serie. Il concetto di norme per la safety, la continuità del servizio, standard, certificazioni, ce l’hanno già. Il costo per fare le cose fatte bene è più limitato rispetto a quello di un un impianto».
Il consiglio alle imprese: spendere un po’ di più, rivolgendosi a fornitori seri, certificati, anche in considerazione del fatto che «nel medio lungo termine, il fatto che facciate industria sicura diventerà un vantaggio competitivo di marketing». Un buon sistema di sicurezza ha il compito di impedire il blocco impianti, che prima «era dovuto a cattiva manutenzione, usura, blackout, mentre oggi può essere dovuto anche a un attacco informatico. Si tratta di un fronte su cui l’Italia non è così indietro, secondo l’esperto: «tante aziende medie e grandi utilizzano impianti connessi, sensori, RFID (radio frequency identification) per la logistica, per il tracciamento produzione, materiali, per i magazzini automatizzati.
Il sistema di sicurezza «individua gli elementi critici, e li separa da tutto il resto dell’azienda. Un sistema informatico aziendale non è una rete piatta, è una rete segmentata, separata, in cui ci sono ambienti meno critici e ambienti più critici». Dunque, «bisogna lavorare su separazione, controllo, monitoraggio continuo», e soprattutto, come detto, sul coinvolgimento del management». Non c’è una soluzione generica per tutti, l’impianto deve essere studiato, in genere da un’equipe di tecnici, che trovano la soluzione più adatta, lavorando per un obiettivo specifico: la garanzia della continuità operativa. La manutenzione preventiva, i backup elettrici, le linee duplicate, in alcuni casi anche il condizionamento (aria controllata), sono tutte soluzioni per migliorare la continuità operativa».
Ma il problema non è solo tecnologico, perché «la sicurezza passa attraverso i singoli dipendenti, che hanno posta, profilo social, device. Come si risolve non è banale. ci vuole uno sforzo che riguardi l’intera organizzazione aziendale, con delle policy precise. Ed è sempre necessario separare l’impianto industriale dalle connessioni
Un’impostazione più orientata all’execution che non alla messa a punto di nuovi piani. Tenendo presente che in vista c’è l’entrata in vigore della norma europea NIS, che prevede un’agenzia che detti le regole, determini i controlli, e sanzioni per alcune categorie critiche, come il settore dell’energia elettrica, che hanno normative più stringenti.
E passiamo a un altro approccio, sottolineato invece da PierAntonio Macola, presidente di Smau, che punta sul rapporto con le startup, un modello di open innovation che è a sua volta incentivato dal piano Industria 4.0, potenziando un trend «che noi vediamo già molto concreto, soprattutto con le misure come quelle sull’assorbimento delle perdite delle startup da parte delle imprese investitrici, la detassazione dei capital gain sugli investimenti a medio e lungo termine, lo stimolo (attraverso acceleratori e fondi di investimento), alla creazione, e sviluppo, di nuove start up nell’ambito Industria 4.0. Trovo sia questo il vero elemento di cambiamento». Sul fronte delle tecnologie abilitanti 4.0, «subito la realtà aumentata, che consente nuova modalità di manualistica, di gestione del ciclo di vita del bene industriale. L’Iot abbraccia ambiti molto ampi: sensori, vita nuova alle macchine, intelligenza alle macchine. E infine il cloud, che consente di potenziare le cose dette prima, di semplificare processi molto complessi, e di operare in modalità “a consumo” con potenzialità virtualmente illimitate. Detto questo, il presidente di Smau resta convinto che «dei tre assi del piano (ammortamenti, credito d’imposta sulla ricerca, detrazioni fiscali su investimenti in startup), l’ultimo relativo alle startup sarà quello che avrà, forse a sorpresa, l’impatto più significativo in termini di innovazione e sviluppo delle nostre imprese manifatturiere». L’università, «tradizionalmente abituata a parlare con la grande impresa, ha sempre avuto oggettive difficoltà a dialogare con la piccola e media. Le startup innovative e gli spin off rappresentano, da questo punto di vista, una formidabile occasione per allacciare un nuovo rapporto tra il mondo delle imprese e il mondo delle ricerca. Le startup consentono, infatti, alla ricerca di uscire dall’ambito accademico, e farsi portatrici di innovazione verso l’impresa, anche perché parlano già la lingua dell’impresa».
Quindi, «l’Italia deve puntare sul fatto di essere un laboratorio privilegiato a livello internazionale in ambito Open Innovation e su una nuova modalità di collaborazione a rete, che si sostituisce al vecchio distretto industriale e prescinde dal territorio di appartenenza, ma facilita rapporto fra impresa che ha competenza, mercato, finanza e le startup innovative che portano in dote conoscenza, ricerca e innovazione». Qui si introduce un nuovo elemento, legato a un modello di innovazione che non prevede più, come nel vecchio distretto, la vicinanza fisica delle imprese che fanno parte della stessa rete. Dai dati presentati a SMAU Milano sull’Open Innovation, con Assolombarda e Italia Start UP, emergono tre elementi che Macola considera «molto rilevanti: nelle 6mila startup innovative, quasi 2mila sono già oggi partecipate da imprese in logica Open Innovation». E «la startup partecipata nel 60% dei casi non appartiene al medesimo territorio dell’impresa». Emerge anche «un ruolo importante delle regioni del sud Italia quali Calabria, Campania, Puglia, le cui startup, e relativi ecosistemi (università, acceleratori, incubatori), hanno valore strategico anche per le imprese del nord». Macola propone l’esempio di un’impresa innovativa nel settore dell’aerospazio in Campania, che opera in filiera. Fa carrelli per movimentare i motori d’aereo. Ha una tecnologia che è un mini campione, ma non è noto, proprio perché opera in filiera».
Fra le misure più rilevanti di stimolo all’innovazione, secondo Macola, oltre agli incentivi per l’acquisto di macchinari e software, quelle «sull’assorbimento delle perdite delle startup da parte delle imprese investitrici, la detassazione dei capital gain sugli investimenti a medio e lungo termine, lo stimolo (attraverso acceleratori e fondi di investimento), alla creazione e sviluppo, di nuove startup nell’abito Industria 4.0. In Italia ci sono attori intermedi (acceleratori, incubatori, parchi scientifici) che possono interfacciarsi con le imprese e rappresentano i nuovi hub per l’innovazione delle stesse in logica Industria 4.0. All’estero questi attori sono già oggi considerati le nuove business school per le imprese». Esempi: il parco tecnologico padano (con un’eccellenza mondiale nel settore agrifood), H-Farm in Veneto, Nana Bianca in Toscana, I3P in Piemonte, Digital Magic. Tutti hanno un programma di formazione culturale per le imprese e le aiutano a raccordarsi in maniera adeguata all’ecosistema delle startup innovative».