impresa 4.0

Innovation manager: ecco come le pmi vogliono usare il voucher per la trasformazione digitale

In che modo le PMI si stanno preparando alla novità del digital innovation manager e quali sono le loro esigenze reali? Lo abbiamo chiesto a Federbio, Federmeccanica e ANIE- Associazione Nazionale Imprese Elettroniche ed Elettrotecniche, Confcommercio e Confartigianato

Pubblicato il 24 Gen 2019

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Le aziende si preparano a sfruttare il voucher, previsto dalla legge di bilancio 2019, per ogni Pmi che si avvalga di una consulenza specialistica per la propria trasformazione digitale. E le principali associazioni di settore raccontano ad Agendadigitale.eu i diversi modi in cui le loro aziende intendono sfruttare questa opportunità per innovarsi.

In particolare, il contributo a fondo perduto coprirà il 50% dei costi sostenuti, fino a 40.000 euro, dalle micro e piccole imprese e il 30% dei costi sostenuti, fino a 25.000 euro, dalle medie. In caso di reti di imprese, il limite del voucher (a copertura del 50% dei costi) aumenterà fino a 80.000 euro. L’intervento sarà finanziato fino al 2021 da un fondo Mise dedicato di 25 milioni di euro l’anno. Purché la consulenza sia finalizzata a sostenere i processi di trasformazione tecnologico-digitale legati al Piano Nazionale Impresa 4.0 con le relative ristrutturazioni gestionali-organizzative, compreso l’accesso ai mercati finanziari e dei capitali.

Non solo tecnologia, quindi: l’impresa 4.0, nella sua declinazione più completa, prevede l’integrazione tra i sistemi fisici tradizionali e quelli digitali in tutte le fasi del ciclo produttivo, per un suo adattamento in tempo reale. Tra i noti vantaggi: il monitoraggio del flusso della domanda, l’ottimizzazione delle scorte di magazzino, dei consumi energetici, della logistica, la maggiore disponibilità di spazio e tempo per la ricerca nonché la possibilità di una maggiore personalizzazione del bene o servizio.

La figura dell’innovation manager

La figura dell’Innovation Manager è chiamata da un lato ad ottimizzare le prestazioni delle “tecnologie abilitanti”, quindi attuarne appieno le potenzialità nella routine quotidiana aziendale; dall’altra però a valutare prima, a partire dalle esigenze reali, in che modo la digitalizzazione possa aiutare l’impresa e solo dopo consigliare la soluzione tecnologica più efficace e la modifica della filiera produttiva.

I requisiti di qualificazione e selezione per l’iscrizione all’albo degli innovation manager o simili figure certificate sono demandati ad un decreto Mise attuativo entro 90 giorni dall’entrata in vigore della legge di bilancio (presumibilmente entro marzo 2019).

Come le piccole e medie imprese italiane si stanno preparando? Quali sono le loro esigenze reali nei diversi settori produttivi? In cosa avrebbero bisogno del supporto di un Innovation Manager?

Lo abbiamo chiesto a Federbio, Federmeccanica e ANIE- Associazione Nazionale Imprese Elettroniche ed Elettrotecniche, Confcommercio e Confartigianato.

Le esigenze di FederBio

«L’innovation manager potrebbe aiutare le nostre aziende a trovare soluzioni per migliorare la tracciabilità dei prodotti». Roberto Pinton è consigliere delegato di Federbio, federazione che raccoglie gli operatori dell’agricoltura biologica e biodinamica, dai produttori agli organismi di certificazione fino ai trasformatori ed i distributori.

L’Italia è tra i dieci maggiori produttori di cibo biologico al mondo, il primo in Europa. Un mercato che cresce ininterrottamente da dieci anni: nel primo semestre 2018 la domanda di 5.612 milioni di euro (+8% rispetto al 2017) ha compreso 3.552 milioni di mercato domestico e 2.060 milioni destinati all’export (fonte: Nomisma/AssoBio Osservatorio SANA 2018).

La maggior parte delle 60.000 aziende biologiche aderenti a Federbio (di cui 56.000 agricole) sono micro, piccole e medie imprese. La declinazione per il primo settore di impresa 4.0, spesso chiamata Agricoltura 4.0, prevede l’introduzione di sistemi di agricoltura di precisione che sfruttino i dati generati da sensori nei campi o sui macchinari: il GPS nel trattore per mantenere il solco dritto è solo un esempio.

«Per chi coltiva senza sostanze chimiche, controllare sia le condizioni meteo che gli stress idrici del suolo è fondamentale» evidenzia Pinton. «Dovremmo arrivare al punto in cui, attraverso l’incrocio dei dati, prima di acquistare del concime naturale, riusciremo a capire che tipo ne serve e quanto a seconda dell’estensione e delle condizioni in tempo reale del terreno nonché della compatibilità con le analisi svolte in precedenza».

Anche la fotografia digitale dai droni, oltre a segnalare le zone più produttive, può essere usata per migliorare la tracciabilità e, sottolinea Pinton, «Per ridurre i tempi e le spese delle ispezioni nelle aziende da parte degli organismi di controllo». Le aziende biologiche sono infatti sottoposte da una a quattro visite l’anno per le certificazioni del prodotto e della filiera: il monitoraggio fotografico di droni da remoto ed in tempo reale potrebbe riconfigurare parte del processo. Un altro nodo dello stesso processo è per Pinton «la mancanza di interoperabilità delle diverse piattaforme che non comunicano tra loro e frammentano l’archiviazione ed il caricamento delle informazioni da parte delle aziende».

Una partita relativa alla tracciabilità si gioca sui barcode, i qrcode, i rfid e tutti i sistemi di “etichetta intelligente”: dal codice a barre al riconoscimento immagine fino ai chip richiamabili per tag. Ma «non più di 100 imprese su 60.000 riusciranno ad usufruire del voucher», avverte Pinton.

«Come beneficiari ideali penso alle cooperative o i consorzi che per dimensioni sono a metà tra l’azienda a conduzione familiare e la grande distribuzione». Snocciola quindi qualche dato di settore: in Italia solo il 22% degli agricoltori biologici ha meno di 40 anni (gli agricoltori tradizionali il 9%); quasi il 19% ha più di 65 anni (il 37,2% nell’agricoltura complessiva); il 50% ha un diploma di scuola media superiore o laurea (il doppio dell’agricoltura nel suo complesso). «C’è ancora una scarsa apertura alla novità» – constata Pinton – «a cui si aggiunge il grande tema delle infrastrutture, sia fisiche che digitali: l’attuazione della banda larga come servizio universale, i trasporti ed i relativi collegamenti tra le campagne e le città nel nostro paese, perché le merci devono viaggiare», ricorda il consigliere Federbio. «Promuoveremo la comunicazione del voucher per l’innovation manager, è una misura utile ad individuare le soluzioni migliori per la trasformazione digitale, ma non dimentichiamo la logistica fisica, altrimenti la collaborazione uomo-macchina nelle operazioni produttive del primo settore sembrerà ancora per molto tempo fantascienza».

Federmeccanica e ANIE

L’incontro tra il settore OP e quello IT è la grande promessa dell’impresa 4.0 declinata sul fronte industriale: riuscire a far collaborare in uno standard produttivo quotidiano il meccanico, l’informatico, il tecnico di gestione. Ovvero: la parte operations di progettazione, logistica, ricerca e sviluppo con la parte IT dei sistemi di informazione e comunicazione. A che punto siamo?

«C’è ancora un gap importante da colmare», spiega Marco Vecchio, responsabile dell’Associazione Nazionale di Industrie Elettrotecniche ed Elettroniche per Industria 4.0. «La digitalizzazione è un concetto assodato, insieme alla manutenzione predittiva o l’efficienza energetica, ma si fa ancora fatica a spiegare lo smart manufacturing come processo». Un processo sistemico che virtualizza in parte la linea produttiva o crea per simulazione un “gemello virtuale” dell’oggetto o dell’azienda. «Altri temi ancora ostici sono la condivisione dei dati, per un malinteso senso di sicurezza, e il Product Lifecycle Management, ovvero la gestione del ciclo di vita del prodotto, dalle materie prime alla manutenzione e lo smaltimento: probabilmente perché non tutte le Pmi si occupano per intero del processo».

Per Vecchio, «su tutte le imprese italiane, solo un 20% è pronto ad una visione così sistemica, da cui occorre escludere le imprese che per vocazione mai arriveranno ad una trasformazione completa ma si adatteranno come parte di una filiera più ampia. Delle 1800 aziende associate ANIE», precisa, «un piccolo gruppo fornisce tecnologie 4.0, composto per la maggior parte da multinazionali: abbiamo poi un 80% di Pmi elettromeccaniche, fornitrici di componenti, produttrici di elettrodomestici o ascensori potenzialmente interessate al voucher».

L’innovation manager potrebbe aiutarle a «implementare soluzioni dopo la fase di apprendimento: non basta aver capito che innovare è obbligatorio in uno scenario competitivo globale, occorre anche saperlo fare», sottolinea Vecchio.

«Serve quindi qualcuno con capacità ed esperienza che sappia leggere correttamente i dati di mercato, di filiera, di produzione e trasformarli in un circuito virtuoso anche in termini di ritorno di investimento».

Dello stesso avviso Sabrina De Santis, direttore Education di Federmeccanica: «La misura del voucher funzionerà solo se l’innovation manager sarà in grado di acquisire la fiducia dell’imprenditore attraverso un ascolto attivo della realtà produttiva. Non trattando dell’industria 4.0 in generale, ma della soluzione di un problema reale già percepito dall’impresa o individuato dallo stesso manager dopo l’analisi del contesto».

Un esempio: l’interruzione o il rallentamento del ciclo produttivo dovuti alla manutenzione manuale, classica dei macchinari, può essere superata dall’introduzione dell’Internet of Things nel processo. Ovvero, l’installazione di sensori che rilevano alcuni parametri di funzionamento dei macchinari e attraverso l’analisi dei dati riescono a prevenire e predire (manutenzione predittiva) il guasto prima che si verifichi.

«Ma per far vedere agli imprenditori come potrebbe evolvere il business a partire dalla soluzione di un problema occorre sapersi porre, saper ascoltare» insiste De Santis. L’industria metalmeccanica italiana occupa 1.600.000 addetti: è la seconda in Europa, dopo la Germania. «Il tessuto industriale di Federmeccanica è composto per il 90% da Pmi», spiega De Santis .«Le aziende hanno bisogno di managerializzazione, perché la tradizionale attenzione del titolare alla qualità del prodotto oggi non basta a fare la differenza sul mercato. Immaginiamo una piccola impresa di qualche decennio fa, con una proprietà non più giovanissima, non sempre propensa all’innovazione digitale, che incontra un innovation manager più giovane, con una certa expertise negli strumenti: usare il giusto registro comunicativo, non troppo tecnico, diventa una delle chiavi di un intervento efficace».

Sia ANIE che Federmeccanica inseriscono la misura del voucher in un quadro più ampio: «continuiamo il processo avviato da due anni con lo sportello di consulenza 4.0 alle aziende, abbiamo intensificato il lavoro sulla formazione perché c’è fame di specialisti competenti», spiega Vecchio. «Speriamo che sull’innovation manager non ci sia la solita corsa all’italiana con n mila consulenti improvvisati, monitoreremo attentamente i requisiti richiesti per l’iscrizione all’albo».

Per De Santis, «occorre continuare a costruire un ecosistema intorno ad ogni realtà produttiva: l’innovation manager è una figura necessaria ma non sufficiente alla trasformazione digitale delle imprese. Quindi occorre continuare a formare le giuste competenze, sia attraverso un rapporto costante con la scuola e l’università sia all’interno delle stesse aziende. Da questo punto di vista, troviamo contraddittorio da parte del Governo l’introduzione del voucher da una parte e il taglio delle ore di alternanza scuola-lavoro dall’altra, ora sostituite da percorsi di orientamento e acquisizione di competenze trasversali non necessariamente in contesti produttivi reali».

Confcommercio e Confartigianato

Solo per la grande industria, solo per superesperti: sono alcune delle barriere culturali all’innovazione, anche digitale, che una piccola e media impresa può trovarsi a dover gestire. «A fronte di una sovrabbondanza di offerta tecnologica, il digitale è stato spesso visto con diffidenza, come una minaccia concorrenziale: il negozio online che “mangia” quello reale», spiega Roberto Pone, referente del settore Politiche per lo Sviluppo di Confcommercio. I dati dell’organizzazione che associa più di 650.000 imprese riportano che il 46% dei negozi italiani non ha un sito web, il 41,6% non usa strategie SEO, il 63% non usa i social network per comunicare e solo il 16% vende online.

«L’innovation manager potrebbe fare molto nell’approfondire ed ottimizzare la relazione con il cliente: non solo durante l’interazione nel punto vendita, ma prima e dopo» sottolinea Pone. «Prima, quando occorre farsi trovare, conoscere, nonché intervenire al momento giusto e farsi scegliere. Dopo, quando il cliente torna a casa, utilizza il prodotto, può consigliarlo oppure ha un problema e chiede aiuto».

L’ottimizzazione del customer journey all’interno del punto vendita potrebbe invece avvenire grazie all’adozione di «registratori di cassa in cloud che forniscono ed analizzano parametri sullo scontrino medio, la rotazione del magazzino, gli articoli più venduti; oppure grazie a sensori che monitorano il numero di persone ferme in vetrina o entrate nel negozio, il loro percorso tra gli scaffali» spiega Pone. Ma «un parrucchiere, un fornaio ed un ristoratore hanno esigenze diverse» precisa «L’innovation manager per noi è quindi una figura di filtro che sa coglierne le differenze perché viene dal digitale, ha studiato retail e può accompagnare l’azienda nella trasformazione a partire dalle reali necessità come un mentor, aiutandola a testare soluzioni concrete».

Anche per Confartigianato, confederazione che racchiude 1 milione e mezzo di imprenditori artigiani con 3 milioni di addetti, «le agende per serie di macrosettori verticali o macroterritori sono molto diverse» sottolinea Paolo Manfredi. «È necessario spostare l’ottica da fornitore di tecnologia ad un quadro che comprenda il mercato, i consumatori, le spinte competitive. Quindi lavorare sulla awareness, la consapevolezza di efficacia e di creazione reale di valore, che può spingere un piccolo imprenditore ad investire risorse non infinite sull’innovazione».

Un autoriparatore può partire dall’interazione con il cliente per arrivare all’autoproduzione dei pezzi di ricambio con le stampanti 3D; al sarto potrà servire un configuratore-bodyscanner che prenda ed archivi le misure del cliente anche a distanza; al gommista una filiera di tracciabilità che certifichi la scansione delle sue operazioni in caso di incidente stradale. Soluzioni su misura che l’innovation manager avrà la sfida di dover proporre a costi più possibile contenuti.

«I limiti sono nel mercato ma anche nelle nostre teste», chiosa Damiano Pietri.«Comprare una tecnologia è più facile che farla produrre secondo le potenzialità o cambiare i processi produttivi e gestionali. Le piccole imprese sono molto più tecnologiche di quanto si pensi» puntualizza. «Ma fanno fatica con l’interconnessione delle macchine ai sistemi gestionali, con l’utilizzo e la lettura dei dati, anche perché spesso lavorano a fianco delle maestranze: occorre formazione e ben venga la figura dell’innovation manager. Confartigianato è tra i promotori di questa misura», precisa.

«Aspettiamo di vedere i requisiti nel decreto attuativo. Abbiamo da anni costituito una rete di Digital Innovation Hub su base provinciale in cui continuiamo a formare il personale interno e quello delle diverse aziende associate».

Sui Digital Innovation Hub si sofferma anche Domenico Rizzi, referente per gli incentivi e le politiche di coesione di Confcommercio: «proveremo a chiedere che vengano inseriti come soggetti abilitati, ovvero che siano certificati dal Mise come possibili enti consulenziali da iscrivere all’albo, proprio per il loro ruolo di formazione ed accompagnamento alle imprese».

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