Negli ultimi mesi sono usciti due documenti importanti che raccontano un poco la visione industriale dell’élite manageriale e imprenditoriale di questo paese:
- Il rapporto “Una nuova strategia Industriale per l’Europa” redatto da Carlo Calenda e votato a maggioranza assoluta dalla Commissione ITRE del parlamento europeo,
- il discorso all’assemblea 2020 nella nuova Confindustria di Carlo Bonomi ripreso poi nel “Il coraggio del futuro”.
Una visione che sembra essere rimasta ferma a 40 anni fa, almeno, e che non tengono conto in alcun modo di come il mondo sia cambiato e continui a cambiare a gran velocità.
I due documenti: qualcosa è andato storto
In generale, leggendo i due documenti – entrambi acclamati da molti (meno il secondo che è stato criticato in modo duro dai sindacati) – la prima cosa che viene in mente è: qualcosa è andato storto.
In Europa e soprattutto in Italia, per priorità, visione e temi sembra di leggere due documenti redatti negli anni ’80 del secolo scorso. Con una aggravante nel rapporto ITRE; l’aggiunta termini alla moda, tipo intelligenza artificiale, totalmente svuotati del significato e dell’impatto. Nessuno sembra essersi accorto che nel frattempo il mondo è leggermente cambiato. Il Far East con in testa la Cina sono diventati in un primo momento la fabbrica del mondo, oggi invece iniziano a rappresentare l’avanguardia delle nuove industrie high tech. Mentre gli USA hanno visto il totale stravolgimento di quello che sono le loro grandi industrie con una capacità di adattamento ai nuovi paradigmi estremamente invidiabile e grazie a cui hanno mantenuto la leadership mondiale.
Le prime 5 aziende Usa per capitalizzazione sono Microsoft, Apple, Amazon, Alphabeth, Facebook, tutte digitali che adottano nuovi modelli di business, e non dispongono di asset produttivi diretti.
In Italia sono ENI, ENEL, Intesa San Paolo, Unicredit, Generali, esattamente la stessa tipologia di azienda che avremmo visto negli USA negli anni 80 e 90.
Lacune e paradossi dei due documenti
Nei due documenti, ad esempio, non si parla in nessun punto di Platform business, forse la più grande innovazione nei modelli di business dell’ultimo ventennio, o di venture capital, zero riferimenti all’open innovation e alla necessità dei grandi gruppi di cambiare attraverso l’acquisto di startup tecnologiche: si vive quasi il digitale e i nuovi mercati come qualcosa a cui bisogna reagire.
In compenso, in entrambi i documenti si parla del ciclo dell’acciaio e, aspetto più disarmante, si immagina una politica industriale europea che è la copia della politica agricola , con aiuti automatici, a pioggia, senza bandi e via crediti di imposta. Strumento inutilizzabile da chi è piccolo, magari necessita di finanza nell’immediato, e forse deve investire più di quanto i crediti fiscali permettano.
In linea con quanto richiesto da Bonomi, si punta a rendere il mercato comune europeo un grande Sussidistan, il nuovo Eldorado per le imprese esistenti che performano bene. Con l’idea di fondo che chi performa bene è più bravo, e quindi deve essere aiutato a fare innovazione ed investimenti. Non domandandosi allo stesso tempo perché avendo grandi disponibilità economiche non investono già oggi senza aiuti.
Dove gli aiuti alla ricerca per le imprese arrivino tramite crediti di imposta e senza nessuna competizione a imbuto, fattori che invece hanno reso estremamente efficaci ad esempio i progetti Horizon, o lo stesso Venture Capital. Alcuni dei quali hanno fatto nascere unicorni. Entrambi i documenti immaginano, poi, un Europa dove gli aiuti di Stato, sugli investimenti materiali non entrano mai nel merito. Non guardano la bontà del progetto e non valutano l’impatto, se questi creano nuovi business e filiere. Invece di potenziare questi meccanismi a imbuto, sempre nel rapporto ITRE se ne suggerisce lo smantellamento perché troppo difficili per le imprese.
Attenzione, la difficoltà non è di natura burocratica, anzi. Ma lamentano la selezione. Come se le sfide di un mondo globalizzato ed ipercompetitivo si affrontassero con progetti semplici. Nel rapporto ITRE la parola startup è citata solo 5 volte ed è sempre associata a PMI e microimprese; nel rapporto di Confindustria neanche una volta. Di fatto dimostrando di non aver capito neanche lontanamente cosa sia nel 2020 una startup hi-tech.
Perché l’Europa svaluta il suo patrimonio umano e tecnologico
Ma soprattutto questa rinuncia a priori alla competizione con Cina e Usa dimostra anche un aspetto a mio parere molto grave: la totale svalutazione e mancanza di considerazione del patrimonio immateriale di persone e tecnologie di cui l’Europa dispone già oggi.
L’Europa ha più laureati STEM, ben due volte più dottorati STEM e più sviluppatori software (6,1 milioni contro 4,3 milioni nel 2019) rispetto agli Stati Uniti. Con il più alto livello qualitativo medio al mondo. Tale esercito di potenziali innovatori oggi avrebbe bisogno di essere messo al centro di una vera politica industriale, o almeno essere citato nei documenti. Nel mentre, in tutti e 2 i documenti ci si lamenta, giustamente, della mancanza di figure specializzate. Non si risponde però alla domanda: come avranno fatto gli USA a creare colossi nel mondo digitale con numeri dimezzati? Ed invece in entrambi i documenti si parla di acciaio, settore dove l’Europa ormai pesa meno del 10% a livello mondiale. Dove non è assolutamente competitiva, tant’è che sopravvive grazie ai dazi, e dà lavoro in tutta Europa a circa 300.000 persone, un ventesimo degli sviluppatori.
In nessun punto dei due documenti si accenna, neanche in modo marginale, al più grave danno patrimoniale perpetuato nei confronti dell’Europa moderna. Ad esempio, la copertina di TIME già nel 2004 raffigurava una ricercatrice calabrese e si domandava: “how Europe lost his science stars” (come l’Europa perde i suoi migliori scienziati) oppure, un più recente articolo Forbes su Davos in cui si cita il Ce Google Sundar Pichai affermare: “why the global war for talent matters, and why Europe is losing this war” (Perché la guerra globale per accaparrarsi i talenti conta, e perché l’Europa sta perdendo questa guerra). Usando non a caso il termine “guerra”. Tale spunto è diametralmente all’opposto rispetto a quanto richiesto velatamente da Confindustria, che mentre vorrebbe 10 volte più laureati STEM, punta non alla guerra per il mantenimento dei talenti, ma alla gabbie salariali come fattore di competitività. Che più semplicemente vuol dire abbassamento dei salari nelle regioni più povere del paese, e che non essendo correlato come un carello della spesa, si traduce in una accelerazione della fuga di talenti già in atto da sud ma anche da gran parte di questo paese. Nel documento di Bonomi per circa metà delle 23 pagine si parla della contrattazione collettiva.
L’errore di fondo è pensare che una società digitale ha bisogno di generazioni di nativi digitali. Un customer service, un commerciale, un impiegato amministrativo, un project manager, un product manager, amministrazione e controllo, etc. sono mestieri che hanno lo stesso grado di digitalizzazione in un’azienda manifatturiera tradizionale che in un’impresa high tech, al netto della personalizzazione degli strumenti. Il ricollocamento e la riformazione di fronte a di campioni è possibile.
Quello che i documenti non dicono
Nessuno dei due documenti affronta il tema che anche l’Europa, con forte ritardo, sta comunque sfornando un numero crescente di unicorni: il conteggio totale è di 174, oltre il 50% era sostenuto da VC. Più dell’intero valore di Borsa Italiana. Ma questi nella competizione globale sono più piccoli e meno numerosi degli equivalenti cinesi ed americani. In entrambi i documenti si invoca l’innovazione ma allo stesso tempo se ne ignorano le leve, gli ecosistemi e gli attori dell’innovazione disruptive. Immaginando l’innovazione come realizzabile solo nei grandi laboratori delle grandi imprese.
Un altro aspetto che trovo disarmante di questi rapporti però è un altro. Specie sulla relazione ITRE non c’è un numero, neanche uno, non c’è un obbiettivo auspicato quantificabile. Sono 32 pagine di buone intenzioni, dove non si capisce la visione.
Le equivalenti relazioni di indirizzo cinesi ed americane partono da. “Noi oggi siamo i primi nel settore X, terzi in Y, decimi in Z. Entro 10 anni ci poniamo come obbiettivo di mantenere la leadership in X passare da 100 aziende a 1000 in Y abbandonare Z come non strategica, e puntare molto su un settore emergente H”. In questo modo ignorano il fermento che c’è in Europa ed invitano il talento alla fuga.
L’unico obiettivo chiaro della nuova commissione è il Green New Deal, ma che senza una visione di rivoluzione industriale e di modelli di business rischia di essere un fiume di soldi dato a pioggia ad aziende che non hanno nessun interesse a cambiare, ma saranno utilissimi a un bel po’ di Green Washing con soldi pubblici. E andrà a finire con l’acquisto dalla Cina di batterie, pannelli fotovoltaici, pale eoliche etc. Settori nei quali, tra l’altro, Pechino ha fatto fortuna vivendo per anni dei contributi a pioggia europei.
Ma l’aspetto più disarmante di questi rapporti è proprio la totale ignoranza sui meccanismi che hanno reso gli Usa leader nell’innovazione e che hanno portato i Cinesi a fare non uno ma due programmi per dominare nelle aree high-tech e di produzione chiave e diventare leader nell’economica della conoscenza entro i prossimi 20 anni.
Economica della conoscenza, questa sconosciuta
Ed ecco il grande concetto assente nei due documenti: l’economia della conoscenza, che non è stata citata neanche una volta. Invece di fare una grande proposta di piano tipo “Europe, the Talent Heaven” oppure “The world largerst Talent Ecosystem” oppure più semplicemente un grande piano sulla per la riduzione delle barriere normative alle aziende High Tech che vogliono basarsi in Europa, si erigono decine di trincee invisibili in tutti settori, dalla chimica, al fintech, ai Big Data, al food, tali da scoraggiare qualsiasi attività di sperimentazione dietro la bandiera di difesa del consumatore europeo. Quando in realtà sono pure barriere commerciali all’ingresso di nuovi attori sul mercato.
Nessuno dei due documenti capisce che l’innovazione vera non si fa per decreto. Inondare di soldi facili le aziende non le porta ad innovare. Perché difficilmente una grande azienda strutturata potrà mai adottare modelli di business disruptive, semplicemente perché non è in grado di reggere internamente la transizione che l’innovazione spesso obbliga. Finirà come i piani Industria 4.0 dove si danno soldi per la sostituzione di macchinari, a partire dai forni della pizza delle piccole pizzerie alla ruspa dell’impresa di costruzione (entrambe agevolate migliaia di volte dai decreti Industria 4.0). Vantandosi poi della crescita degli investimenti, ci mancherebbe pure, sono soldi pubblici regalati, ma con che impatto sulla crescita della produttività.
E come se nel momento in cui è nata l’industria dell’automobile avessimo inondato di soldi gli allevatori di cavalli per accompagnarli nella transizione. Non funziona. Aiuti di questo tipo si limitano ed essere un ribaltamento di costi interni a spese del pubblico. Se analizziamo la storia nella maggior parte dei casi, queste risorse aggiuntive di trasformeranno in un extra utile che finirà o all’azionista o nel riacquisto azioni proprie. Prima voce di investimento degli utili per gran parte delle BigCorp al mondo. Dimenticando come questa patologica avversione all’innovazione disruptive porta l’Europa ad essere la cenerentola sulla produzione di valore aggiunto nonostante sia il vero campione del commercio mondiale.
Una politica industriale incentrata sulla produzione di beni e non sulla creazione di nuove aziende e nuovi modelli di business, non incentrata sulla componente immateriale dell’azienda, sui talenti, sulla tecnologia, vuol dire non aver capito la più grande rivoluzione avvenuta da fine anni 90. Rendere la produzione di beni fisici nel 90% dei casi una commodity. Guidata da paesi che hanno il disperato bisogno di trovare qualcosa di remunerato da far fare a eserciti di poveri. Dove Cina ha ancora la necessità di togliere dalla povertà 600 milioni di cittadini, l’India quasi un miliardo, l’Indonesia, il Pakistan, il brasile e la Nigeria oltre 200 milioni di cittadini a testa e a scendere, gran parte nel mondo si trova in questa condizione. L’idea che gli asset per la produzione di beni di massa siano il fattore principale per la competitività industriale, cosi come sottointeso nei due rapporti, vuol dire semplicemente non avere idea di quanto è cambiato il mondo negli ultimi 30 anni. Pensare come leva competitiva l’operaio specializzato, per quanto abbia una grande professionalità, vuol dire ignorare che la sola Cina nell’ultimo decennio ha sfornato 70 milioni di tecnici ed ingegneri specializzati, pari alla popolazione della Germania.
Conclusioni
Ma per concludere facciamo un’analisi di dei testi
Nel discorso all’assemblea di Confindustria la parola contratti è citata 18 volte, innovazione 4 (sempre legata ad incentivi), talento 0, startup 0, open innovation 0, Tecnologia 1, siderurgia 2, acciaio 1. Nella relazione ITRE: contratti 2, innovazione 31 (anche qui spesso legata ad incentivi) talento 0, startup 5 (sempre legato al concetto di PMI e microimpresa, mai in modo autonomo) open innovation 0, Tecnologia 6, Acciaio 2.
Ecco tornando alla frase di Sundar Pichai CEO di Alfabeth “why the global war for talent matters, and why Europe is losing this war”. Dai due documenti forse ne avete una prima risposta.