il commento

Intelligenza artificiale, cosa manca per una vera strategia italiana



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Tante pedine sul tavolo. Un nuovo comitato tecnico e un fondo da 600 milioni di euro. Il sottosegretario Butti smuove le acque ma la distanza che ci separa da una strategia all’altezza di quanto fatto da altri Paesi è ancora molto grande. Ecco perché

Pubblicato il 26 ott 2023

Stefano da Empoli

presidente dell’Istituto per la Competitività (I-Com), autore di “L’economia di ChatGPT. Tra false paure e veri rischi



intelligenza artificiale ai act

Negli ultimi mesi, con una sensibile accelerazione nelle scorse settimane e giorni, il tema dell’intelligenza artificiale (IA) sembra essere entrato con uno spazio mai ottenuto prima nell’agenda politica italiana (anche se come spesso accade nel nostro Paese con annesso un quasi inevitabile contorno di polemiche).

Intelligenza artificiale per l’Italia

Sono partite diverse indagini conoscitive in Parlamento, attivate da Commissioni diverse a conferma della natura trasversale dell’IA, sono state istituite diverse task force ministeriali, da ultimo quella creata dal Sottosegretario Butti con il compito di aggiornare la strategia attuale, si è ripescata l’idea di un istituto per l’intelligenza artificiale da collocare a Torino, infine si è addirittura accennato alla possibilità di un collegato alla legge di bilancio in materia.

Naturalmente tutto questo attivismo è da salutare positivamente, dopo anni nei quali il tema è stato pressoché ignorato in modalità perfettamente bipartisan da governi e parlamenti di diverso colore politico.

L’ansia da prestazione, tuttavia, non necessariamente porta a buoni risultati, che in generale scaturiscono da almeno due condizioni: una regia di governo sufficientemente autorevole e riconosciuta da tutti i centri di potere (e spesa) e una strategia che tenga conto delle esigenze ma anche delle potenzialità concrete del sistema produttivo e della società e dunque che sia in grado di dialogare con le diverse componenti del Paese.

A questo si deve inevitabilmente aggiungere anche il tema delle risorse finanziarie: in un campo come questo è difficile se non impossibile fare le nozze con i fichi secchi. Su tutti e tre questi profili, il panorama che si è andato delineando non appare purtroppo confortante.

L’assenza di una regia unica nel Governo

La semplice nomina chiaramente non coordinata di due diverse commissioni di esperti, tutte e due facenti capo alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, sia pure a dipartimenti diversi, editoria da un lato e trasformazione digitale dall’altro (e ovviamente con scopi differenti), lascia trasparire l’assenza di una regia unica a livello di Governo.

Così come l’apparente competizione tra due diversi esponenti del Governo, il Sottosegretario Butti e il Ministro Urso, entrambi con competenze importanti in materia che avrebbe forse avuto senso riunire in un solo sforzo comune, insieme a quelle del Ministero dell’Università e della Ricerca, come fece il Governo Draghi con il piano strategico che proprio la task force voluta dal Sottosegretario della Presidenza del Consiglio con delega al digitale ha il compito di rivedere.

Quel piano, risalente al novembre del 2021 e a valere sul triennio successivo, presentava fin dall’inizio ampie lacune, che speriamo possano essere colmate con l’aggiornamento in itinere, ma quantomeno in premessa rimediava a un errore compiuto in passato che era appunto quello di avere ministeri che si muovevano ciascuno per conto proprio, senza un indirizzo unico.

Come del resto accaduto nei due Governi Conte, quando l’elaborazione di una strategia nazionale, da inviare a Bruxelles secondo la richiesta del Piano coordinato UE del dicembre 2018, fu appaltato all’allora Ministero dello Sviluppo economico. I cambi di governo e la scarsa attenzione politica del tempo frustrarono quei tentativi, che non approdarono a nulla nonostante il grande sforzo e fecero dell’Italia l’unico grande Paese europeo a non essere dotato per anni di una strategia in materia.

Ma certamente l’agenda parallela del Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca (diventato Ministero dell’università e della ricerca a partire dal Conte II) non contribuì positivamente a quelle prove abortite di strategia.

Il salto fu rappresentato proprio dal Governo Draghi che decise di mettere intorno allo stesso tavolo i Ministeri dell’innovazione tecnologica e della transizione digitale, dello sviluppo economico e dell’università e della ricerca, cioè i tre dicasteri con le maggiori parti in commedia e dai quali dipendevano i principali fondi (almeno potenziali). L’essere tornati a una logica monistica, per quanto in effetti a Butti spetti il coordinamento del Comitato interministeriale per la transizione digitale (pur non essendo un ministro, altro limite evidente della governance attuale del digitale), rischia di limitare fin dal principio il risultato finale e l’impatto che esso avrà sulle azioni di governo.

Un primo possibile segnale è dato proprio dal doppio annuncio proveniente dal Ministro Urso di un centro per l’intelligenza artificiale da collocare a Torino, un’idea originariamente partorita dalle prove tecniche di strategia durante i due esecutivi guidati da Conte, e di un collegato alla legge di bilancio 2024. Due elementi che avrebbero dovuto seguire e non certo precedere una strategia degna di questo nome.

Una strategia non è (solo) un esercizio intellettuale

Per costruire una strategia che non sia un libro dei sogni ma il miglior piano possibile attuabile date le circostanze, occorre che chi la scrive abbia un’interlocuzione non solo con i palazzi della politica ma anche e per certi versi soprattutto con la società civile, a cominciare dal mondo delle imprese (sia di chi sviluppa e offre tecnologie, sia di chi le dovrebbe adottare).

Questo è il motivo per il quale, al di là dell’inevitabile gioco dei nomi di chi entra (o resta fuori) nelle task force di esperti, quello che importa davvero è una composizione che rifletta i diversi profili tematici interessati ma anche e forse soprattutto una rappresentanza pluralistica di punti di vista diversi. Presupposto che porta nel mondo anglosassone, ma non solo, a guardare oltre ai professori a rappresentanti delle imprese, delle NGO e di altri soggetti che possano offrire una visione più ampia.

Anche perché il compito non è quello di decidere la strategia della ricerca nell’IA ma per l’appunto una strategia Paese che sia il più possibile olistica e completa. Né quello di produrre uno sforzo intellettuale da racchiudere in un bel volume collettaneo.

Tra parentesi questo volume risulterebbe incompleto anche da un punto di vista scientifico visto che tra gli eccellenti curricula accademici dei nominati nella task force di Butti manca del tutto chi sia in grado di valutare gli impatti economici dell’IA sul sistema produttivo e del lavoro, tanto per citare un esempio significativo. Cioè proprio la mission fondamentale che dovrebbe avere una strategia Italia per l’IA.

La dotazione finanziaria in tempi di vacche magre

Infine, la questione delle risorse finanziarie, che non è di poco conto. L’Italia è il Paese del G7 dove si investe nettamente di meno in IA, aggregando risorse pubbliche e private, e nelle classifiche internazionali veniamo superati da Paesi UE molto più piccoli di noi (dalla Svezia alla Finlandia per arrivare alla Spagna). Una delle principali carenze, anche se non certo l’unica, del piano triennale licenziato dal Governo Draghi era proprio quella di non aver destinato un budget specifico alla realizzazione della strategia ma di aver fatto riferimento a risorse già stanziate (e con ogni probabilità allocate per altri scopi, magari collegati ma pur sempre diversi e ulteriori).

La stessa idea di creare ex novo un centro per l’intelligenza artificiale di Torino con un budget annuale di venti milioni di euro appare del tutto depotenziata rispetto a quella originaria che, nei calcoli di chi l’aveva immaginata già qualche anno fa, sarebbe costata almeno quattro volte tanto, potendo così ambire ad acquisire quella massa critica che consente di raggiungere davvero l’eccellenza nella ricerca a livello internazionale (auspicabilmente in coordinamento con altri istituti di natura simile da sviluppare a livello europeo).

Più ambizioso appare il fondo di 600 milioni di euro (anche se con risorse reperite in gran parte dai privati) annunciato già qualche mese fa dal Sottosegretario Butti.

Anche se da sole appaiono purtroppo insufficienti a portarci su livelli paragonabili a quelli di altri Paesi simili al nostro (o anche più piccoli per popolazione e PIL come la Spagna).

Qualora dovessero concretizzarsi (ed essere ben gestite, a differenza di esperienze degli ultimi anni fin qui fallimentari come Enea Tech) segnalerebbero quantomeno un’inversione di rotta.

Insomma, di opportunità ce ne sono tante per fare bene. Ma la strada verso la cima appare impervia e scivolosa. E al momento non sembriamo in possesso dell’attrezzatura più adatta per arrivare in vetta.


Immagine che contiene testo, schermata, grafica, designDescrizione generata automaticamente“L’economia di ChatGPT. Tra false paure e veri rischi”, edito da Egea, appena uscito in libreria e sui principali store online, vuole spiegare le novità e gli impatti economici e sociali del fenomeno dell’IA generativa, che non nasce con ChatGPT ma che con il software di OpenAI e altri prodotti usciti successivamente ha conosciuto una popolarità senza precedenti.

Quando qualche osservatore già parlava di nuovo inverno dell’IA, dopo le promesse non mantenute dello scorso decennio, è infatti arrivata sui nostri dispositivi elettronici una IA di nuova generazione, facile da usare e alla (apparente) portata di tutti, con prodotti che a volte farneticano e spesso dicono banalità ma rispondono a un mix di sofisticazione contenutistica nonché stilistica, velocità di esecuzione e facilità d’uso senza precedenti nella storia umana.Il libro narra questa rivoluzione e soprattutto le sue possibili implicazioni economiche nei prossimi anni e decenni.

Con benefici che potrebbero essere enormi qualora eviteremo di commettere alcuni errori. Il primo dei quali è pensare che in prospettiva le macchine debbano essere come le persone umane oppure all’opposto deificarle, elevandole su un piedistallo per noi irraggiungibile. In entrambi i casi, rinunceremmo all’unica visione corretta, quella di un IA al servizio della specie umana perché in grado di complementarla anziché sostituirla. Per farlo, occorre concentrarsi sui veri rischi, lasciando da parte la fantascienza.

Con la speranza che l’Europa e l’Italia possano in futuro tornare a giocare un ruolo maggiore di quello attuale, puntando sugli investimenti oltre che sulle regole. 

 

 

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