L’Italia è percepita come protagonista di propri e autonomi modelli digitali nel settore dell’agroalimentare, del turismo, dello sport, delle smart city? C’è un “modello digitale italiano” dotato di proprie metriche e metodiche, ideato e prodotto con competenze ed esperienze tutte italiane? La risposta è no.
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È tutto questo una esigenza primaria per essere protagonista nell’economia digitale? Per un Paese come l’Italia che dispone della più grande offerta di biodiversità, cultura, tipicità territoriale? La risposta è sì ed è essenziale per l’identità internazionale, per la sicurezza dei cittadini avere un sistema digitale non colonizzato né influenzabile e terzo nell’organizzazione nevralgica dello Stato.
Il progetto di produrre e affermare un “modello digitale italiano” è una iniziativa recente perseguita da molte strutture di ricerca ed innovazione, di pensiero e di produzione? Risposta: l’unico ente, no profit, che ha 40 anni di storia in Italia nelle relazioni internazionali e che partecipa a forum sull’economia e che ha posto il tema, avviato ricerche e con propri investimenti dato vita ad un progetto, è l’Istituto Italiano per l’Asia e per il Mediterraneo.
Il progetto perseguito e da oltre un anno frutto di lavoro è di innovazione e già capace di integrare, per la prima volta, competenze italiane di discipline ed esperienze diverse in un modello per verticali economiche e sociali.
Può esistere in Italia, visto il risultato negativo sancito dall’Unione Europea, qualcuno che decida in piena libertà da condizionamenti di business di strutturare, analizzare, ricercare, progettare e proporre innovazione partendo dal Territorio e di mettere in campo la capacità di integrare competenze diverse tra di loro ma unite dalla stessa volontà di rappresentare l’Italia nell’economia digitale? La risposta è sì.
Se Enrico Ruggeri decide di lasciare la SIAE per affidare a Soundreef la raccolta e la gestione dei diritti d’autore è difficile capire che si tratta di un problema di “modello digitale” anziché di un modello informatico di SIAE? Mille esempi dimostrano che il principale errore è essere partiti dalla spesa informatica senza aver prima neanche provveduto ad effettuare un check digitale dell’impresa. I primi a dover essere interessati sono proprio gli azionisti delle aziende informatiche italiane perché hanno bisogno di ritrovare un senso in un mercato che, a “zero confini”, li pone oramai a confronti stremanti per il loro core business. La Banca S. Giorgio di Genova è stata la prima banca al mondo. Prima di Monte dei Paschi di Siena. Quelli erano innovatori perché conoscevano i Clienti, perché l’interesse della Banca era il successo del Cliente. Oggi il BTC Bitcoin compie 9 anni, un ragionevole tempo per dare ai cittadini una visione, una informazione corretta, una idea di banca digitale che manca.
La capitalizzazione di mercato dei Bitcoin è stata pari a gennaio 2018 oltre 266 miliardi di dollari. Malta ha inserito la criptovaluta nella sua azione di Governo, la Svizzera ha la più alta densità di bancomat. È cambiato il mondo eppure si legge che in CaRiGe si spera in una alleanza, non con una azienda informatica italiana, ma con IBM. Un grande “mea culpa” qualcuno lo farà? Mica sarà colpa della politica.
In questi giorni il quotidiano La Stampa riporta una serie di articoli sul pericolo delle Fintech in Italia ed una analisi del Presidente delle banche private. Se uno pensa ai miliardi di euro fatti spendere alle banche in informatica e poi si reca in una agenzia si rende conto di cosa stiamo parlando.
L’errore strategico della chiusura in Italia delle Casse di Risparmio, in Germania tutelate, ha lasciato indifeso l’imprenditore italiano, che non è uno “scemo di serie B che non conosce l’inglese” e che ha tutti i diritti di essere messo nella condizione di essere protagonista dell’economia digitale.
Negli anni ’90 già si insegnava che la Persona è al centro e guida il modello digitale. In Italia vediamo tanti spot per le varie offerte di internet banking ma “zero banca digitale”.
La Banca Digitale non è una soluzione solo informatica. In ogni settore si ritrovano errori simili, riparabili con competenze integrate e specifiche tutte italiane. Sono tetsimone che esiste la volontà di essere meno coriandoli autoreferenziali e più voglia di essere una tinta unica forte nell’economia digitale. Più che il mio auspicio è la constatazione di questi ultimi anni di lavoro con Aziende, Università e Centri di Ricerca Applicata.
Il Parlamento ha scelto e deciso che “al fine di affermare un modello digitale italiano come strumento di tutela e valorizzazione economica e sociale del Made in Italy e della cultura sociale e produttiva della tipicità territoriale” viene incaricato l’Istituto Italiano per l’Asia e per il Mediterraneo. Molto bene, era ora perché l’obiettivo è di sistema e le attività sono a sistema e come sempre ha fatto l’Istituto con il coinvolgimento di Università, Centri di Ricerca Applicata, Media, Regioni, Amministrazioni Comunali, Aziende.
Questa scelta nata come emendamento è stata fatta propria al Senato dal relatore di maggioranza della legge di bilancio ed è diventata legge pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 29 dicembre. Nei tre passaggi parlamentari non ha avuto né obiezioni né proposte di modifica. Con il parere favorevole del Governo e della Ragioneria dello Stato, l’Italia si avvia in una strada che può farle superare il ritardo accumulato nei confronti degli altri Paesi dell’Unione Europea.
Dare un senso digitale italiano alla qualità creativa, sociale e produttiva, residente in ogni Territorio raggiunto dalla Banda Ultra Larga non è un obiettivo informatico o solo dell’informatica e questa è già una innovazione.
Come ha detto il Premier Paolo Gentiloni: “in legge di bilancio 2018 abbiamo fatto cose importanti per l’innovazione”.