L’emergenza coronavirus sta proiettando il nostro Paese verso un processo di digitalizzazione a tappe forzate. Bene sarebbe fare di necessità virtù e cogliere questa occasione per imprimere a tale processo un’accelerazione in grado di produrre un concreto salto di qualità. Vediamo la situazione.
I dati: la richiesta di rete
In base ai primi dati forniti dai principali provider nelle prime settimane di marzo, l’incremento del traffico sulla rete internet aveva già prodotto un tendenziale rallentamento del traffico di circa il 10% per via del forte sovraccarico che ha investito le infrastrutture. L’operatore che ha registrato l’aumento di volume più consistente è stata TIM, con un incremento dl 90% su rete fissa e del 30% su rete mobile. Più contenuti, ma comunque significativi, anche gli aumenti di Vodafone (più 55% su rete fissa e più 30% su rete mobile) e di Wind-3 (più 40% su rete fissa e più 35% su rete mobile). Nello stesso periodo, il numero dei download è aumentato fra il 40 e il 70%, a seconda delle fasce orarie e delle aree territoriali considerate. Le attività maggiormente protagoniste dell’aumento del volume di traffico sono state lo streaming video (+30%), soprattutto per riunioni a distanza incrementate dallo smart working e lezioni on line di scuole e università, e il gaming, alimentato dai giovani a casa, che è addirittura quadruplicato.
E ciò sta accadendo in un Paese che, come sappiamo, non è tra quelli che più si distinguono sia dal punto di vista dell’alfabetizzazione informatica sia da quello dell’uso del web. Dobbiamo infatti considerare che, stando all’ultimo Rapporto europeo della Commissione europea sugli indici di digitalizzazione dell’economia e della società dei 27 paesi membri (DESI), l’Italia si colloca al ventiquattresimo posto, lasciandosi alle spalle soltanto Polonia, Grecia, Romania e Bulgaria. Di poco migliore è la collocazione italiana se ci si limita a considerare la graduatoria rispetto alle sole Pubbliche amministrazioni, rispetto alla quale il nostro paese si attesta al 18° posto. Molto più attrezzati sono invece paesi simili a noi per caratteristiche socio-economiche, come Francia, Germania, Regno Unito e Spagna. Inoltre, in base ad altri dati forniti da Agicom, soltanto il 36,8% delle reti italiane viaggiano ad almeno 100 Mbps, mentre il 68,5% si attesta sulla soglia dei 30 Mbps, cioè la velocità minima per attività in streaming e smart working. Infine, se è vero che nel corso degli ultimi anni il numero delle unità immobiliari servite dalla fibra ottica è cresciuto, passando dal 18% del 2016 al 23% del 2018, è altrettanto vero che siamo ancora diversi punti percentuali al di sotto del 29% di copertura della media dei paesi dell’Unione Europea.
Lo smart working
Nello stato di quarantena totale in cui l’intero paese si trova ormai da qualche settimana, a ritrovarsi in prima linea sul fronte di questa digitalizzazione forzata è soprattutto la Pubblica amministrazione: dall’introduzione dello smart working per tutelare i propri operatori assicurando al tempo stesso continuità di servizio all’organizzazione delle attività didattiche e curricolari nella scuola e nell’università, il settore pubblico è infatti quello che più di altri ha dovuto operare una rapida conversione dalle attività in ufficio a quelle a distanza. E lo ha fatto non senza intoppi e problemi, dalla paralisi che ha colpito molti portali di scuole e università all’inizio di marzo, a seguito del trasferimento delle attività didattiche on line, al recente crash del sito dell’Inps per il sovraccarico generato dal concentrarsi in poche ore di molte migliaia di domande per l’attribuzione del bonus di 600 euro Inps agli autonomi. Un problema che fortunatamente è rientrato ma che si sarebbe potuto evitare, da un lato, aspettandosi un volume di contatti superiore all’ordinario e quindi predisponendo gli opportuni accorgimenti per incrementare l’accessibilità del portale e, dall’altro, introducendo forme di collaborazione delegata utili ad alleggerire la pressione diretta sul sito dell’Inps e a smaltire il complesso delle domande lungo percorsi di accreditamento differenziati.
E se pensiamo che, sempre nei giorni scorsi, i lavoratori autonomi tedeschi che a causa del Coronavirus hanno perso clienti e fatturato sono stati raggiunti da un assegno di 5.000 euro direttamente sul loro conto corrente pochi giorni dopo aver compilato una dichiarazione on line, ci rendiamo conto di quanto la nostra Pubblica amministrazione sia ancora in ritardo e, di conseguenza, quanto un suo cambiamento efficace richieda di essere integrato con il supporto di realtà professionali in grado di agevolare il rapporto con cittadini, imprese e mondo del lavoro.
Il ritardo della PA verso la digitalizzazione
Ma al di là delle polemiche, che mai come in questo momento rischiano di essere del tutto fuori luogo, cerchiamo di comprendere meglio in che cosa consista davvero il ritardo della Pubblica amministrazione italiana rispetto alla digitalizzazione. Prendendo nuovamente a riferimento l’indice DESI, vediamo come il grado di digitalizzazione dei servizi pubblici venga calcolato attraverso la media ponderata di due ulteriori sotto indicatori. Un primo indicatore di e-government, inerente il numero di utenti dei servizi on line delle Pubbliche amministrazioni, la disponibilità di open data e di modulistica pre-compilata, oltre che la presenza di servizi digitali per le aziende e il grado di completezza dei servizi erogati on line. E un secondo indicatore di e-Health, relativo alla disponibilità di ricette on line e al grado di condivisione di dati fra gli operatori sanitari, oltre che all’esistenza di servizi di sanità a livello digitale.
Limitando la nostra attenzione al solo indicatore di e-Government, ben sapendo che soprattutto oggi l’indicatore di e-Health riveste comunque un’importanza strategica, possiamo in primo luogo osservare come l’Italia figuri al penultimo posto fra i paesi dell’Unione Europea per utenti dei servizi on line delle Pubbliche amministrazioni. Nel nostro paese, infatti, la percentuale degli utenti digitali dei servizi amministrativi è pari al 37%, a fronte di una media europea del 64%. Soltanto la Grecia realizza un risultato di poco peggiore, attestandosi sul 36%, mentre tutti gli altri 25 stati membri dell’Unione ci precedono, mostrando performance significativamente migliori. E questo indicatore già ci dice tutto circa il problema del nostro paese, che riguarda anzitutto il fatto che ben pochi utenti interagiscono con la Pubblica amministrazione servendosi dei portali digitali. Un dato che non può attribuirsi esclusivamente alle scarse competenze informatiche della nostra popolazione, perché in larga parte si deve anche alla limitata fruibilità dei servizi della pubblica amministrazione, che a differenza di quanto accade in altri paesi europei, invece di favorire e incentivare l’alfabetizzazione digitale della popolazione mettendo a disposizione i primi servizi che i cittadini reputano convenienti utilizzare, tende a disincentivare il ricorso a internet, così favorendo anche un suo scarso utilizzo in generale.
Se poi consideriamo la disponibilità di moduli pre-compilati il quadro si fa ancora più negativo. Tali moduli, infatti, sono indicativi della capacità della Pubblica amministrazione di incrociare i dati di diversi data base in suo possesso, per agevolare la presentazione di istanze, senza costringere cittadini e imprese a fornire ripetutamente informazioni di cui gli enti pubblici dovrebbero già essere a conoscenza. Per fare un semplice esempio, ad oggi, in Italia, non esiste ancora la possibilità di incrociare i dati inerenti le pratiche di rilascio di carta di identità, patente di guida e passaporto. Non è un caso, perciò, che l’Italia su questo indicatore si trovi in diciannovesima posizione nella classifica dei paesi europei, con un punteggio di 49 su 100, quando la media UE è di 59 su 100, cioè una decina di punti superiore.
La nostra situazione migliora sensibilmente se consideriamo l’indicatore relativo ai servizi digitali per le aziende, rispetto al quale siamo sostanzialmente allineati alla media dei diversi stati europei, con un punteggio di 85 su 100. Qui ciò che conta riguarda l’offerta di servizi direttamente tramite portale, come nel caso delle autorizzazioni amministrative per l’avvio di nuove attività, che vengono valutati con punteggi più elevati. E su questo terreno non vi è dubbio che il nostro paese abbia fatto importanti progressi, misurati attraverso la crescita dell’indicatore di cinque punti soltanto nel corso dell’ultimo anno. Possiamo perciò considerarci relativamente soddisfatti, poiché ci lasciamo alle spalle paesi quali la Germania e il Belgio, che si fermano a 80 punti su 100, mentre siamo ancora piuttosto distanti dal Regno Unito e dalla Danimarca che si attestano di poco sotto al 100.
Ancor meglio andiamo rispetto alla completezza dei servizi forniti online, che riguarda procedure comuni quali la registrazione delle nascite, il cambio di residenza, il passaggio di proprietà di un’auto, dove con 90 punti su 100 ci classifichiamo dodicesimi, due punti sopra la media UE, oltre che davanti a paesi come Francia, Germania, Belgio, Regno Unito. E infine, last but not least, realizziamo un’ottima performance rispetto alla condivisione degli open data, soprattutto grazie ai passi in avanti compiuti con la riforma Madia della riforma della Pubblica amministrazione, dove risultiamo quarti, con l’80% dei dati complessivamente disponibili, dopo Irlanda, Spagna e Francia e con ben sedici punti percentuali in più della media dei paesi europei.
Le sfide da affrontare
L’insieme di questi dati ci dice che abbiamo la concreta possibilità di fare meglio, sfruttando la positiva esperienza maturata rispetto ai servizi digitali alle aziende e alla completezza dei servizi forniti attraverso i portali on line. Ma che per fare meglio occorre anzitutto incrementare la nostra capacità di sfruttare le banche dati già esistenti, incrociandone e mettendone in condivisione i contenuti fra le diverse amministrazioni, così come dalla riforma Madia in avanti abbiamo iniziato a fare piuttosto bene con gli open data. E soprattutto dobbiamo incentivare il ricorso da parte di cittadini e imprese ai servizi della Pubblica amministrazione on line. Perché tali servizi non devono diventare un privilegio per pochi utenti evoluti ma l’espressione più concreta di una cittadinanza digitale che metta cittadini e imprese nelle condizioni migliori per essere partecipi al sistema paese.
Si tratta di una scelta strategica, che nel momento in cui i costi sociali ed economici della pandemia da coronavirus si fanno più pesanti, lasciandoci intravedere una recessione ben più lunga e grave di quella che ci siamo da poco lasciati alle spalle, deve anzitutto passare da una più sistematica diffusione della fibra ottica e da una decisa accelerazione nello sviluppo della banda ultra-larga e delle reti di quinta generazione. L’Antitrust ha di recente condannato TIM a una sanzione pecuniaria di 116 milioni di euro per aver tenuto una strategia anti-concorrenziale volta a ritardare l’ingresso della fibra ottica nella sua forma più innovativa (Fiber to home) nelle aree territoriali più deboli dal punto di vista del mercato. Questa cifra – sebbene non sufficiente – potrebbe comunque rappresentare un primo investimento a fondo perduto per una più capillare diffusione della fibra ottica nelle aree meno avanzate del paese.
Open data e condivisione delle banche dati pubbliche, messi opportunamente a frutto attraverso l’applicazione del machine learning, cioè algoritmi in grado di trattare grosse quantità di informazioni per produrre previsioni di medio-lungo termine, potrebbero rappresentare un degno corollario di questo scenario, producendo un impatto molto positivo sul mondo del lavoro e dell’impresa e creando al tempo stesso maggiori opportunità di crescita economica. L’uso di questi strumenti, che il Governo ha inteso mettere in campo proprio in questi giorni nominando una task force per l’innovazione che si dovrebbe occupare della costruzione di applicazioni in grado di tracciare movimenti e comportamenti individuali per contrastare la diffusione del contagio, non va limitato a sole ragioni di sicurezza. Ma deve essere esteso ad altri ambiti, a partire dalla Pubblica amministrazione e dalle attività di autorizzazione amministrativa, proprio per la valenza strategica che l’efficacia e l’efficienza di tali attività sarà inevitabilmente destinata ad assumere nel momento in cui si tratterà di tornare alla vita di tutti i giorni.
Il problema del digital divide
Resta infine da colmare quel digital divide che, al di là delle scelte a favore della digitalizzazione messe in campo dal governo, continua a rappresentare una pesante ipoteca su qualsiasi politica di innovazione si voglia implementare in maniera efficace. Senza dimenticare come anche il mondo delle imprese sia tenuto a un insieme di adempimenti amministrativi che richiedono tempo e competenze, non sempre presenti fra le mura aziendali, rispetto alle quali si è soliti avvalersi di professionisti, a cui tali attività, per lo più di autorizzazione amministrativa, vengono delegate, al fine di evitare errori, omissioni, abusi, nonché di tutelare sia l’utente sia la stessa Pubblica amministrazione.
E qui, a mio avviso, un contributo decisivo può essere fornito dai professionisti delle pratiche amministrative, la cui esperienza e professionalità può risultare estremamente preziosa per un paese che, uscito dall’emergenza, intenda semplificare gli adempimenti amministrativi collegati alle attività produttive. Sono ormai anni che ci battiamo a favore dell’introduzione della procura digitale, ridefinita da un recente ordine del giorno della Commissione Affari Costituzionali del Senato, che precedenti Governi avevano già accolto, come “delega”, non solo per il doveroso riconoscimento di una competenza professionale, ma anche per l’introduzione di uno strumento sempre più importante per rendere rapidi ed efficaci i rapporti con il mondo della Pubblica amministrazione. Mai come in questo momento, una figura come quella del procuratore digitale potrebbe risultare utile, vuoi per accompagnare il processo di digitalizzazione del paese, vuoi per integrare l’azione degli enti pubblici nella produzione dei propri servizi a cittadini e imprese.
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