Si parla da anni di come gestire la tassazione dei servizi resi su internet o, meglio ancora, dei servizi digitali, ma non si è ancor trovata una soluzione convincente, almeno in Europa. Questo perché, a mio avviso, si è sempre avuto un approccio non corretto al problema: il punto, infatti, non è tanto rincorrere (anche fiscalmente) i nuovi attori del web e le loro evoluzioni, quanto creare anche in Europa le condizioni economiche, sociali, fiscali e di sviluppo che si sono create in altre parti del mondo affinché si possa avere una significativa presenza dei big del digitale e del web con residenza (fisica, operativa e fiscale) negli stati membri della EU.
L’approccio dei paesi Ue e della Commissione alla tassazione dei big del web
Il tema è molto sentito soprattutto nei paesi dove i servizi sono sostanzialmente usufruiti ma non generati e, quando si parla di questo, si guarda immediatamente ai big di internet provenienti dagli USA.
Infatti, alcuni paesi europei stanno iniziando (vedi Francia ed UK) a introdurre una tassazione fissa sui ricavi generati nei loro paesi da aziende del digitale che rispondano a determinati criteri di fatturato, dimensione aziendale, numero di clienti business e consumer, e lo stesso sta cercando di fare la commissione europea. È sicuramente un primo esempio di tassazione vera ma il tutto va letto anche come un forte stimolo all’Europa per gestire e regolamentare il settore da un punto di vista fiscale.
In realtà non basta che l’Unione Europea trovi un metodo comune per dire che il problema è risolto, anzi. Sarebbe opportuno almeno una soluzione unica dei paesi membri dell’OECD per evitare che quello che è un giusto principio e diritto di ogni Stato diventi invece una guerra commerciale tra i continenti (Europa-USA-Cina/East Asiatico) per poi trasformarsi in un fattore di rallentamento dell’economia digitale e con esso un rallentamento dell’intera economia industriale, con il rischio di penalizzare soprattutto le PMI (piccole e medie imprese) europee.
Infatti, secondo la Commissione Europea, quasi un terzo della crescita della produzione industriale europea dell’ultimo periodo è dovuta all’adozione delle tecnologie digitali. La tassazione dovrebbe quindi sostenere, non ostacolare, la digitalizzazione e l’economia digitale che per sua natura non ha confini. Bisognerebbe comprendere che non esiste un’economia digitale da tassare, ma solo una “economia” (digitalizzata o meno).
Dove è veramente generato il valore
Ora il principio base di correttezza su cui un sistema di tassazione deve basarsi è che le tasse si paghino nel paese dove il “valore” ed il “profitto” sono generati. Ed è indubbio che il valore e profitto si generano in primis nel mercato dove il bene o il servizio viene reso. Vero però anche è che spesso i big del digitale, soprattutto le grandi piattaforme online di servizi cloud o eCommerce, elaborano dati grezzi raccolti in giro per il mondo tra i loro utenti e clienti e ci restituiscono un servizio o una informazione che per noi ha un “valore”. Ci si chiede quindi: dove è veramente generato il valore? Nel paese di utilizzo e resa del servizio o dove i big hanno i loro data centers?
La risposta non è banale e certamente il principio base sopra richiamato non può ammettere discriminazione dovuta al fatto che si parli di servizi materiali (tassati in loco) o immateriali/digitali (tassati nel paese dove fiscalmente risiede il fornitore ma erogati via internet in tutto il mondo).
Solo questo esempio ci basta per capire quanto difficile sia il tema della tassazione dei servizi digitali, nel quale oltre a questioni di principio generale si innescano questioni legate alla doppia imposizione fiscale, all’IVA, alla tassazione sui profitti e altri aspetti fiscali rilevanti e spesso in contrasto con accordi e trattati bilaterali tra stati che andrebbero tutti rivisti e, in alcuni casi, scritto da zero. Non è sicuramente questa la via più facilmente praticabile.
L’economia generata dalle piattaforme digitali
Dovrebbe quindi prevalere il business sia come driver per la tassazione sia come driver di sviluppo dell’intera economia. Infatti, grazie alle piattaforme digitali ci sono tante PMI che proliferano (e pagano regolarmente le tasse) in loco o vendono i loro beni e servizi all’estero. Ci sono anche tante aziende che sfruttano le piattaforme digitali (si pensi banalmente ai servizi cloud di MS-Office 365, Google App o AWS solo per citarne alcuni) per gestire le proprie infrastrutture e concentrarsi sui loro processi di business: tutte queste si troverebbero dei costi aumentati o vedrebbero tassati ulteriormente i loro servizi, il che li porterebbe in ogni caso ad essere meno competitivi.
Vero anche è che lo strapotere economico e sociale che le grandi aziende del web stanno acquisendo in questo momento storico, e la loro influenza sull’economia mondiale, va governato.
Bisognerebbe analizzare quanto è il contributo indiretto all’economia locale, e quindi alla tassazione locale, che le digital services companies generano in loco nei vari paesi, inoltre quale reale indotto economico e fiscale generano per la presenza di loro centri operativi o partners e system integrators (si pensi all’indotto di Amazon o altri).
Quando si parla di tassazione sui ricavi si deve considerare che anche una piccola percentuale (2%-3%) in termini di impatto sui costi è elevatissima perché in aziende (soprattutto PMI) che hanno una marginalità “di mercato”, il 3% può anche rappresentare una cifra pari o superiore all’utile netto che mediamente la società genera e quindi può essere una tassazione molto elevata in termini relativi ed assoluti. Ancora una volta con il rischio di penalizzare l’economia reale in loco e non i big del web.
La chiave per risolvere il problema dall’interno
In un mondo globalizzato e digitalizzato non si può pensare di risolvere il problema della DST con iniziative proprie di una nazione o di un continente, bisognerebbe prendere atto che il sistema sociale che sottende la nuova tassazione è anche esso globale ed interconnesso ed evolve molto più velocemente di qualunque altro sistema industriale e sociale visto fino ad ora e, per giunta, senza confini fisici e con blande barriere.
Considerando che i sistemi tendono a trovare una propria posizione di equilibrio che minimizza le forze in gioco se lasciati evolvere naturalmente, nel nostro caso sarebbe più opportuno concentrarsi sul mettere in campo le forze che vanno ad equilibrare l’economia tra i vari continenti e le varie industries.
Ovvero, appunto, creare le condizioni per avere una significativa presenza di aziende del digitale e del web con residenza Ue.
A questo punto lo scambio commerciale dei servizi digitali e la bilancia commerciale dei servizi digitali sarebbero più equilibrati ed il tema della tassazione cambierebbe aspetto ed approccio.
È avvenuto nella prima rivoluzione industriale, poi nella seconda quando le nostre aziende iniziavano ad esportare prodotti verso gli USA e altri continenti. Deve necessariamente avvenire anche in questo caso.
È quindi questa la chiave per risolvere il problema dall’interno del sistema “digitale”, per farlo bisogna puntare su innovazione e capacità di generare servizi ad alto valore percepiti a livello mondiale.
Creare l’ambiente idoneo per lo sviluppo di aziende innovative
Se per ora l’Europa ha perso il primo match dei social network, della logistica e dell’e-commerce, dovrebbe approfittare delle rivoluzioni in arrivo rappresentate dalle tecnologie del 5G, dell’Internet delle cose e dell’intelligenza artificiale. Tutte queste tecnologie aprono ad un mondo di applicazioni, ergo di servizi digitali, sempre più localizzati e personalizzati. Aprono al tema delle smart city, delle smart communities e dell’internet non più delle cose ma della persona.
Tutte attività “digitali” che potrebbero essere anche molto penalizzate da una tassa sui servizi digitali.
L’Europa o, in generale, un paese illuminato dovrebbe fare la corsa ad essere il primo a creare l’ambiente idoneo affinché aziende di questa natura si sviluppino. Ciò sapendo che difficilmente si potranno creare nuovi colossi come quelli esistenti (Apple, Google, Amazon, Netflix, Facebook, Alibaba, Tencent e simili) che singolarmente hanno fatturati enormi, ma tenendo presente che la nuova economia sarà fatta soprattutto da PMI molto innovative del mondo digitale e che complessivamente genereranno un fatturato molto più alto dei big.
Infatti, sono le nuove tecnologie che stanno creando dal di dentro del sistema quelle forze che lo faranno riequilibrare, noi dal di fuori dovremmo indirizzare rapidamente queste forze altrimenti rischiamo di rimanere ancorati a concetti (anche fiscali) e tempi che non solo non danno valore aggiunto alle nostre economie ma rischiano anche di affossarle o banalmente farle rimanere ancora più indietro.
Creare le nuove SAP e Olivetti
La nostra carenza strutturale di grandi aziende del digitale nasce dalla debolezza iniziale anche del sistema finanziario o dei venture capital: investire in una idea che conquistasse il mondo era vista come una utopia e poiché anche “immateriale” non capita dal sistema finanziario tradizionale italiano ed europeo. Anche questo ha fatto si che si accumulasse ritardo a vantaggio di paesi invece più aggressivi e culturalmente preparati a questo.
E come avvenuto in altre industry (ad esempio l’automobilistico) una grande azienda crea intorno a sé un grande indotto, una competenza diffusa ed un tessuto imprenditoriale diffuso, crea appunto un sistema sociale ed industriale che genera valore per la comunità in cui risiede.
In Europa nel digitale abbiamo un bell’esempio (uno dei pochi) rappresentato da SAP, colosso mondiale nato in Germania che si è affermato circa 20 anni fa per l’innovazione portata prima degli altri negli ERP ma in una epoca pre-internet di massa e pre-social network. Prima ancora abbiamo avuto in Italia la Olivetti, gioiello invidiatoci ancora oggi in tutto il mondo.
Ecco, piuttosto che rincorrere la DST con il rischio di non farcela o farla male, concentriamoci nel creare le nuove SAP e le nuove Olivetti. Questa è la vera opportunità che il digitale ci pone.