Il senso di responsabilità, quando si affrontano problemi complessi come quelli che oggi pongono le trasformazioni del lavoro, è la premessa necessaria per poter guardare lontano e non inciampare nel ricatto dell’immediato.
Anche in un mondo completamente immerso nelle tecnologie digitali, occorre perciò ragionare di progetti che pongano l’umano al centro e coinvolgano tutti nella sfida.
L’Italia non sempre ha saputo valorizzare i suoi talenti ma in questo preciso momento storico in un mondo che vuole sempre più oggetti e manufatti personalizzati, la forza del nostra Paese è la tradizione: la digitalizzazione da noi deve necessariamente sposarsi con la tradizione, con i territori, con il saper fare, con il design.
Il che non significa fare le cose come si sono sempre fatte: la tradizione diventa la fonte culturale che insegna a distinguere le cose fatte bene. Le produzioni delle PMI e degli artigiani possono (attraverso l’Intelligenza artificiale, la blockchain, la stampa 3D, il commercio elettronico, la robotica ecc.) modernizzarsi ed imprimere una spinta innovativa inedita. La tecnologia in questo caso non sostituisce la dinamica culturale che dà luogo alla creazione e al riconoscimento del valore: l’Italia deve anzi preservare quelle caratteristiche che ne rendono appetibili sul mercato internazionale i prodotti.
A questo proposito e a premessa di questa mia riflessione, vorrei citare due splendide frasi ci restituiscono un idea di senso da dare al nostro cammino.
La prima è di Leonardo Da Vinci, quindi risale a oltre 600 anni fa: “l’arte è perfino più bella della realtà, che con il tempo svanisce” e per me sta a significare che non si incide sul futuro senza una visione di lungo termine. E sono l’opera e i progetti umani che vanno riportati su una dimensione creativa e di lungo respiro.
La seconda frase è di Papa Francesco, che nell’Evangelii Gaudium ci ricorda che “il tempo è superiore allo spazio”.
Dalla sharing economy al fintech, dove nascono gli unicorni
In Italia abbiamo imparato a conoscere le piattaforme legate alla sharing economy, soprattutto per l’animato dibattito emerso intorno alle app della food delivery e le proteste dei rider, ma non è di questo che intendo parlare. Le piattaforme hanno rappresentato in ordine di tempo gli ultimi “unicorni” della rivoluzione tecnologica, cioè quelle start-up capaci di capitalizzare oltre un miliardo di dollari in Borsa.
Nomi che oggi ci sono familiari: Airbnb, Uber, Delivery, Mturk ecc. Aziende che hanno reinventato e rivoluzionato, nel bene o nel male è altra questione, il business del trasporto pubblico e del turismo, delle produzioni, usando in maniera inedita le opportunità offerte dalla diffusione dei dispositivi digitali.
Qualche settimana fa il New York Times ha pubblicato, insieme alla società di analisi Cb Insights, una lista delle 50 start-up che hanno le maggiori possibilità di diventare “unicorni”. La cosa più interessante è che quasi nessuna di queste aziende appartiene al settore della sharing economy. Si tratta invece, nella maggioranza dei casi, di realtà che si muovono nella galassia del fintech (applicazioni tecnologiche legate al mondo della finanza).
Non mancano però neppure aziende attive in settori tradizionali, come l’agricoltura e, soprattutto, dell’industria manifatturiera. La cosa interessante di queste nuove imprese nate da piattaforme è che non sono lineari, non hanno un unico vertice o padrone. Il resto del mondo vive attorno a gerarchie, luoghi e spazi di lavoro attorno a cui costruiscono i progetti del nuovo lavoro e per questo falliscono.
Se cambiano le produzioni e il lavoro, o si cambiano i luoghi e le organizzazioni entro cui si dispiegano o le vecchie scatole daranno breve vita ai nuovi progetti.
E’ un’evoluzione interessante, che deve farci alzare le antenne, specie alla luce dei recenti dati Istat sul fatturato dell’industria, che ha registrato il calo più pesante degli ultimi 10 anni (-7%, 3% su base annua) e dell’export, la cui picchiata (-7,6%) è forse l’elemento di maggiore preoccupazione visti i risultati positivi degli anni scorsi.
Preoccupazione che non può non estendersi ai tagli voluti dal Governo sul piano Industria 4.0 ed alla riduzione dell’alternanza scuola-lavoro. AlmaLaurea e AlmaDiploma certificano che un ragazzo che ha frequentato l’alternanza lavoro ha il 40% di chance in più di trovare lavoro. Specie in un paese in cui non si spende quasi nulla per l’orientamento allo studio e al lavoro.
L’esempio di Tesla e dell’automotive
La nuova stirpe di aziende innovative che scalpitano per entrare nei business tradizionali non farà sconti. Basti pensare a quello che ha rappresentato Tesla in termini di spinta innovativa per tutto il settore dell’automotive. In pochissimo tempo la creatura di Elon Musk ha riposizionato, cavalcando l’emergenza climatica, la sfida competitiva dell’intera mobilità globale sul terreno della sostenibilità.
Una sfida che ha dato i suoi frutti. La società produttrice di auto elettriche fondata da Elon Musk ha sorpassato General Motors diventando così la prima casa automobilistica Usa per capitalizzazione. Con il +3% a circa 313 dollari in apertura a Wall Street, ha raggiunto un valore di Borsa di oltre 51 miliardi di dollari contro i 50,89 della Gm (pure in rialzo dell’1% a 34 dollari nei primi scambi); una settimana fa Tesla aveva superato i circa 46 miliardi di capitalizzazione di Ford, e ora si lascia alle spalle – in una corsa che sembra inarrestabile – anche il numero uno dell’auto americana. Fiat Chrysler, con i suoi 15,5 miliardi di dollari, vale meno di un terzo rispetto all’azienda californiana. Tutti parlano dei 2800 posti tagliati da Tesla, GM ne ha tagliati oltre 15.000 negli scorsi mesi.
Non sappiamo oggi se Tesla riuscirà nella sua impresa, ma una vittoria l’ha già ottenuta: ha spinto tutti i vecchi costruttori sul proprio terreno, quello della propulsione elettrica e della guida autonoma. Tesla
Quanto sta avvenendo nell’automotive dovrebbe essere di esempio ma pure di monito per un Paese che fatica a raccogliere la sfida del cambiamento, limitandosi invece al solito approccio ideologico che contraddistingue il dibattito intorno al lavoro in Italia. Un dibattito alla cui polarizzazione contribuisce in modo determinante il clima di perenne campagna elettorale in cui siamo immersi. L’auto e la mobilità in genere rappresenteranno uno dei settori dove le tecnologie ICT avranno nei prossimi anni i maggiori impatti sul piano tecnologico ma anche di occupazione. Farsi trovare impreparati, per un paese che vive di esportazioni (22 miliardi di euro in valore l’anno scorso), potrebbe essere un autentico dramma.
Più ecosistemi intelligenti per dare una svolta alla mobilità
Se vogliamo dare veramente una svolta alla mobilità non abbiamo bisogno di irreggimentare le scelte dei consumatori con un approccio dirigistico, ma di costruire quell’ecosistema intelligente che rappresenta la conditio sine qua non dello sviluppo nell’era delle rivoluzione digitale, di Industry 4.0 e delle smart city.
Purtroppo su questa materia si fanno dei gran convegni ma di fatti se ne vedono veramente pochi. Perché l’auto elettrica divenga un’alternativa davvero concreta servono alcuni interventi di sistema: va organizzata la rete per la ricarica, vanno posate le colonnine su tutto il territorio nazionale, va organizzato lo smaltimento delle batterie. Cosa fondamentale, va gestita la transizione senza produrre disoccupazione, compito non impossibile a patto di puntare seriamente sulle competenze dei lavoratori.
Il ruolo del digitale nella spinta al cambiamento
Quello che accade nell’industria dell’auto, accade purtroppo in tutti i settori: non è un caso che il nostro Paese, nonostante la sua storica capacità di innovazione, fatichi tanto a tradurre quest’ultima in nuovi progetti d’impresa. Senza scomodare i grandi inventori del passato, (Leonardo, Galileo, Meucci, Marconi…) pensiamo a invenzioni divenute di uso quotidiano come il touchpad, un’idea del vicentino Federico Faggin, oggi tecnologia base di gran parte dei device che utilizziamo (tablet, smartphone, navigatori satellitari) o l’estensione mp3 che ci permette di trasferire e ascoltare musica, alla cui messa punto ha contribuito con un ruolo di primo piano un altro italiano, Leonardo Chiariglione.
Come scrive De Toni “l’innovazione è una disobbedienza andata a buon fine”; il problema è che poi le condizioni di fondo in cui il “genio” si trova a muoversi – che sono le condizioni di fondo di un paese fondamentalmente restio al cambiamento in ogni campo, non solo quello dell’economia -non consentono spesso e volentieri all’intuizione di andare oltre la fase del prototipo e tradursi in impresa e lavoro.
Un ruolo positivo potrebbe rivestirlo il digitale. Non solo nel caso delle grandi aziende, ma anche del sistema delle PMI e artigiane, che sono circa il 90% del nostro tessuto imprenditoriale. Ciò attraverso qualcosa di diverso dal fenomeno dei “markers” americani, che nelle sue forme più schematiche, tende a ridurre l’artigianato ad un sistema di servizi on-line di prodotti da personalizzare e stampare in 3D.
Progresso tecnologico e evoluzione culturale
E’ chiaro che tutto questo implica il completo ripensamento del sistema formativo. Il progresso tecnologico e l’evoluzione culturale sono due processi che devono essere inscindibilmente connessi. Perché senza competenza non c’è innovazione.
Un dato interessate emerge da uno studio della Cisl scuola e Legambiente: oltre il 60%, dei 40.151 edifici scolastici italiani è stato costruito prima del 1976, anno di emanazione della prima normativa antisismica. Parliamo di edifici molto vecchi, spesso costruiti prima della guerra, e concepiti anche sul piano architettonico secondo una visione e un impostazione della società e del lavoro dell’epoca. Secondo Daniel Leising l’architettura condiziona il nostro comportamento e rappresenta il nostro sentire attraverso la forma degli spazi in cui viviamo. Ciò dovrebbe indurci a riflettere sulla portata della sfida che abbiamo di fronte perché anche i “luoghi”, che nella società pre-fordista e fordista abbiamo pensato per formare, organizzare, gestire, con il digitale stanno profondamente cambiando.
Il digitale cambia e rimodella la relazione tra conoscenza e lavoro, gli spazi di apprendimento e le modalità. Ma non si tratta tanto di sostituire i percorsi didattici, quanto piuttosto di arricchirli, come ci ricorda Massagli, sfruttando il giacimento culturale ed educativo del lavoro e l’alternanza scuola-lavoro, con un approccio di consilienza, che se messo a regime coinvolgendo a matrice i servizi per l’impiego, le organizzazioni sindacali, le scuole, le imprese e le famiglie dei ragazzi, può rappresentare un modello molto redditizio.
Mi capita spesso di dire, nelle numerose conferenze e convegni su lavoro e tecnologia a cui partecipo in Italia e all’estero, che non siamo più alla vigilia della “next big thing”, la grande rivoluzione digitale; ci siamo già dentro con tutti e due i piedi.
Continuare a pensare di vivere nelle sontuose sale del Palazzo Salina, rimirando gli affreschi che testimoniano le glorie passare e pensando che, proprio come nel romanzo di Tomasi di Lampedusa, tutto cambi senza che nulla cambi, è pura illusione. Tutto sta cambiando e con una velocità esponenziale e che raddoppia a ogni giro di boa. Bisogna uscire dal ricatto del breve termine, avere una visione integrale del cambiamento e ragionare dentro un progetto umano in grado di coinvolgere tutti nella sfida che abbiamo davanti.