Il World Economic Forum ha cambiato idea: la quarta rivoluzione industriale creerà nuovi posti di lavoro. Ma su questo i dubbi degli esperti – anche quelli intervistati dalla nostra testata – continuano a permanere.
Vediamo la piega che sta prendendo il dibattito sul rapporto tra occupazione e sviluppo tecnologico.
Le nuove stime del WEF
Intanto, la sorpresa. Nel giro di due anni, uno dei più accreditati think tank del mondo, ha drasticamente rivisto la propria stima sull’impatto che Industria 4.0 è destinata ad avere sull’occupazione globale. Per la precisione, il report sul futuro del lavoro in Industry 4.0 del 2016 stimava che entro il 2020 a causa della trasformazione digitale del mondo del lavoro sarebbero andati persi 5,1 milioni di posti di lavoro.
L’edizione 2018 dello stesso report, The future of jobs, prevede invece che entro il 2022 di posti di lavoro se ne guadagneranno 58 milioni. Diciamolo, c’è una bella differenza. Non solo perché le due previsioni indicano trend opposti rispetto al lavoro 4.0, ma anche per la forbice che c’è in termini quantitativi. A prenderli alla lettera (esercizio evidentemente poco sensato), si dovrebbe pensare che nei prossimi due anni si perderanno 5,1 milioni di posti di lavoro, e nei due successivi se ne creeranno oltre 50mila.
Al di là delle battute, è lo stesso Klaus Schwab, fondatore e presidente del Wef, a mettere in guardia su due fattori fondamentali: «la nostra analisi – scrive nella prefazione del report – rileva che la crescente domanda di nuove professionalità è destinata a controbilanciare il calo che invece riguarda altre mansioni lavorative. In ogni caso, questo incremento non è scontato. Comporta anzi una difficile transizione per milioni di lavoratori e la necessità di investire su formazione e talento a livello internazionale». In parole semplici, la sfida è molto difficile, perché lo scenario positivo può trasformarsi rapidamente nel suo opposto: «cambiamento tecnologico accompagnato da carenza di talenti, disoccupazione di massa, ineguaglianza crescente».
E riguarda tutti: le imprese, che devono insistere su reskilling e upskilling dell’attuale forza lavoro, i lavoratori, che devono continuamente aggiornare le proprie competenze, e i governi, che devono creare un ambiente adeguato a questi cambiamenti, in modo «rapido e creativo». In questi termini, come si vede, il discorso va oltre i numeri, a fornisce spunti per un dibattito articolato sul “Futuro del lavoro“, per riprendere il titolo del report del Wef.
Le stime degli esperti sul lavoro in Industry 4.0
Perché il punto, secondo Mauro Lombardi, economista dell’università di Firenze, è che «non si possono prevedere, con numeri precisi, i posti di lavoro che vengono creati o distrutti. Industria 4.0 è ancora un mondo tutto da scoprire e sviluppare, che presenta molte variabili. Fra l’altro, la dinamica dell’occupazione dipende anche dal tipo di politiche macro che vengono fatte, piuttosto che da trend internazionali in atto (penso all’incertezza, alle politiche protezionistiche). Per cui direi che si tratta di un’operazione molto difficile, forse addirittura eccessiva».
Anche secondo Massimo Bonini, segretario della Camera del Lavoro di Milano, «il buon senso indica che è complicato fare previsioni. La mia sensazione – prosegue -, è che nel breve periodo si possano distruggere posti di lavoro, che poi si ricostruiranno nel medio-lungo termine». Più nel dettaglio: «nell’immediato si perdono posti perché non ci sono competenze adeguate nell’attuale mondo del lavoro, mentre nel futuro ci si riprende attraverso l’istruzione». Francesco Seghezzi, direttore di Adapt, che già due anni fa avvertiva che su Industry 4.0 per avere scenari misurabili e compiuti bisogna aspettare il 2030, ritiene che «il Rapporto del 2018 sia più esaustivo e condivisibile in quanto calcola anche i nuovi lavori che la tecnologia potrà generare. Questo però a patto, come il rapporto sottolinea, che si accompagnino gli investimenti in tecnologia con formazione di una serie competenze soprattutto trasversali che il rapporto elenca. Infatti se la distruzione di molti posti è quasi scontata in concomitanza dell’introduzione di alcune tecnologie, la creazione di posti di lavoro è profondamente legata alla formazione delle competenze e alla creazione di nuovi modelli di business e nuovi mercati che creino conseguentemente nuovi lavori oggi non esistenti». Molto simile la posizione di Teodoro Valente, prorettore al Trasferimento tecnologico della Sapienza di Roma: «diciamo che è un esercizio sensato se contestualizzato. E’ indubbio che la digitalizzazione ha un impatto negativo, nel senso che con il controllo in automazione dei processi di fabbricazione alcune attività manuali sono a rischio. Però la digitalizzazione creare anche nuove figure professionali». Quindi la sfida vera è sulla formazione.
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Formazione e contratto sociale
Anche se, insiste Lombardi, «non possiamo comunque sottovalutare il fatto che su Industry 4.0 ci sono ancora molte variabili che rendono le previsioni troppo incerte. Un tema grosso è il seguente: quale tipo di contratto sociale ci vuole per affrontare la digitalizzazione del mondo del lavoro? Bisogna probabilmente pensare a nuove tipologie di intervento pubblico, che abbiamo impatto positivo su occupazione e posti di lavoro». E indubbiamente possibile che «con Industria 4.0 si creano nuovi fabbisogni e competenze che porteranno a un incremento dei posti di lavoro», ma al momento questo non può rappresentare una certezza. «Facciamo un esempio: la ristrutturazione intelligente delle città ha un potenziale enorme anche sul fronte occupazionale. Però tutto dipende dalle politiche pubbliche».
Bonini insiste sull’importanza, e sull’urgenza, della formazione («è uno sforzo che andava fatto da qualche anno»), e delle politiche attive, con un percorso che «si fa carico di chi è stato espulso dal mondo del lavoro, e lo riqualifica, lo forma e lo reinserisce. Senza questa azione, le politiche attive non servono a nulla». Il Jobs Act, invece, «ha fatto il contrario, prevedendo prima gli incentivi e poi le politiche attive». E «anche le imprese dovrebbero ragionare in termini di riqualificazione dei propri lavoratori, anche in considerazione del fatto chi ha già innovato, ha creato occupazione, mentre chi non l’ha fatto ha perso posti di lavoro, o addirittura ha chiuso». Dunque, c’è anche la sfida di «orientare l’imprenditore verso il futuro». Lombardi spezza una lancia a favore degli imprenditori, sottolineando che si trovano in una situazione molto difficile, proprio a causa della grande complessità e incertezza che caratterizza la trasformazione 4.0. «Io non vorrei essere un imprenditore oggi, lo scenario è veramente molto difficile, offuscato da problemi rilevanti non solo per la dinamica tecnologica, i cui trend non sono facilmente prevedibili, ma anche per le variabili politiche, culturali, sociali». Uno dei punti critici che Bonini rileva, parlando dell’attività che la Cgil svolge per la formazione nelle imprese riguarda l’atteggiamento delle imprese, «è la tendenza a formare chi ha già skill avanzate, abbandonando invece coloro che non ne hanno. Bisognerebbe invece concentrare gli sforzi non solo su chi parte già da un livello elevato, perché il rischio è che l’innovazione allarghi la forbice e tagli forza lavoro». Il risultato è che si crea uno svantaggio competitivo per la stessa impresa, che prima scarica costi sulla collettività e poi, nel tempo, assume».
La formazione, conclude Valente, deve basarsi sulla collaborazione fra pubblico e privato. «Ci sono molti strumenti, dalla classica laurea a corsi sempre a livello universitario ma targettizzati sulle imprese. Bisogna fare attività di orientamento, insieme ai digital innovation hub. Bisogna coinvolgere i grandi player del privato. E va differenziata la formazione a seconda del target: quadri, esperti, impiegati, operai a via dicendo».
Le tabelle su trend di mercato e competenze al 2022
Il protezionismo, citato da Lombardi, è fra gli elementi che anche secondo il report del World Economic Forum incidono negativamente sulla crescita dell’occupazione al 2022. Ecco in tabella quali sono le strategie che, se messe in pratica, avranno un impatto positivo e quelle che, invece, hanno un effetto negativo sulla crescita delle imprese.
Trend con un impatto positivo al 2022 | Trend con impatto negativo al 2022 |
adozione di nuove tecnologie | protezionismo |
big data | attacchi informatici |
mobile Internet | instabilità governativa |
intelligenza artificiale | climate change |
cloud | invecchiamento della popolazione |
cambiamenti delle dinamiche di crescita dell’economia | fuga dei cervelli |
espansione del benessere nelle economie emergenti | cambiamenti delle dinamiche di crescita nazionali |
istruzione | mentalità delle nuove generazioni |
new energy | cambiamenti nella crescita macroeconomica |
crescita della classe media | intelligenza artificiale |
Come si vede, in alcuni casi ci sono gli stessi elementi, (ad esempio, l’intelligenza artificiale), che possono essere visti sia come driver di crescita che come elementi critici. Vediamo invece quali sono, sempre secondo il report, le soft skill che verranno più richieste nel 2022. La top ten:
- Pensiero analitico e propensione all’innovazione: in prima posizione anche nel 2018.
- Active learning e strategie di apprendimento: oggi è in quarta posizione.
- Creatività, originalità e spirito di iniziativa: oggi è in quinta posizione.
- Technology design and programming: nuova competenza, non presente nella top ten 2018.
- Pensiero critico: in discesa, oggi è in terza posizione.
- Problem-solving complesso: i discesa, oggi è il seconda posizione.
- Leadership e influenza sociale: oggi è in nona posizione.
- Intelligenza emotiva: in discesa, oggi è in ottava posizione.
- Ragionamento, problem solving e ideazione.
- Analisi dei sistemi e valutazione: nuova competenza, non presente nella top ten 2018.