A sentire gli addetti ai lavori, sembra proprio che non ci sia da stare allegri: il mondo del lavoro 4.0 avanza molto più velocemente delle istituzioni, che hanno già perso vent’anni a fare e disfare legislazioni sul lavoro, mentre i contratti sono spesso fermi agli anni ’50 e ’60. Il Piano Industria 4.0 (ora Impresa 4.0), che deve accompagnare il sistema produttivo del paese nella trasformazione digitale, affronta troppo poco la questione. E comunque nel mercato italiano esiste un problema di cultura del lavoro che va risolto alle radici. Vincenzo Ferrante, giuslavorista dell’Università Cattolica di Milano, pensa addirittura a una sorta di servizio civile, di tre mesi, per tutti i giovani, come forma di educazione al mercato del lavoro. In generale, gli esperti sottolineano il duplice problema, tutt’altro che risolto, dell’inserimento dei giovani e della necessità di convertire le competenze del capitale umano già presente in azienda.
Lavoro 4.0, la sfida (trascurata) del piano Industria 4.0
Sul fatto che il piano Industria 4.0 affronti poco il problema si registra un generale accordo. «Il piano affronta il tema con logiche antiche, di sostegno all’impresa e non al lavoro» segnala Aurora Notarianni, vicepresidente dei giuslavoristi italiani, che sottolinea la preponderanza nel piano di misure rivolte all’incentivazione degli investimenti delle imprese. Sul lavoro, ci sono il credito d’imposta ricerca e sviluppo e gli incentivi al salario di produttività, oltre al nuovo capitolo sulla formazione. Su questo fronte, secondo Notarianni, bisogna potenziare «il collegamento fra mondo del lavoro e istituti tecnici professionali, andando a rivedere le politiche di alternanza scuola-lavoro, con l’obiettivo dell’inserimento immediato di chi ha finito studi nel mondo del lavoro».
Quindi, prima sfida rimasta irrisolta, la preparazione in chiave 4.0 dei giovani. L’Italia resta un paese ad alta disoccupazione giovanile, mentre Industria 4,0 non può perdere il treno delle nuove competenze. «Siamo il paese dove i giovani laureati sono peggio pagati al mondo – lamenta Ferrante -, e infatti vanno a lavorare all’estero». Bene le agevolazioni sulla formazione on the job, in particolare in una fase caratterizzata da imprese che fanno ingenti investimenti tecnologici, e in cui è quindi importante che le risorse umane seguano percorsi di formazione interna. Ma anche questa formazione andrebbe collegata al mondo della scuola superiore, e delle università tecniche, instaurando un ciclo virtuoso di innovazione. «Penso alla grossa industria che commissiona ricerche agli studenti da assorbire poi nelle imprese. Ad esempio, un ingegnere che lavoro in un’impresa ha bisogno di creare un nuovo modello, si rivolge all’università e forma persone che a questo punto è molto facile inserire nella propria struttura». Innovazione tecnologica e digitalizzazione impongono un nuovo, e continuo, rapporto università-impresa.
Altra cosa fondamentale: ridurre il costo del lavoro. Per il momento, sottolinea Notarianni, le misure hanno ridotto il costo delle imposte sull’impresa, e non il costo del lavoro. Qui, parzialmente alcune risposte arrivano dal mercato del lavoro, con la firma da parte di Confindustria e sindacati confederali del cosiddetto patto perla fabbrica, che riscrive le regole di rappresentanza e contrattazione, anche in chiave 4.0.
La soluzione individuata è il potenziamento della contrattazione di secondo livello, che orienta le intese aziendali verso il salario di produttività, ovvero trattamenti economici legati alle perfomance di produttività, qualità, efficienza, ma non solo. La contrattazione decentrata «valorizza i processi di digitalizzazione», e favorisce forme e modalità di partecipazione di lavoratrici e lavoratori».
Un richiamo, questo alla partecipazione dei lavoratori, salutato favorevolmente da Francesco Seghezzi, direttore di Adapt, che però avverte: adesso ci vogliono i fatti. Il punto è che il piano Industria 4.0 e in generale le politiche previste fino ad oggi, hanno lasciato sullo sfondo il tema dell’organizzazione del lavoro, che invece secondo Seghezzi rappresenta una sfida primaria. Un’impresa, grazie agli incentivi del piano, può comprare bene tecnologia, e sviluppare competenze (qui, bisogna ancora vedere come andranno le agevolazioni fiscali previste per questo 2018). «Ma poi le serviranno nuovi modelli organizzativi». Ci vuole «flessibilità per produrre prodotti personalizzati, non più quindi un’organizzazione del lavoro basata su mansioni e ruoli ripetitivi, o su controllo e gerarchie, ma che punti su partecipazione, lavoro in team, performance, premialità». Se con certe tecnologie si possono fare prodotti personalizzati, ma i modelli di lavoro sono poi basati su una linea unica, non si digitalizza in modo corretto. Il punto, prosegue Seghezzi è che «non è facile passare da un modello all’altro, ci vuole un nuovo modello organizzativo». Un’operazione che si potrebbe incentivare fiscalmente, come già fatto con macchinari e competenze: chiaro che se incentivando chi fa questi modelli, avremmo un ritorno su produttività delle imprese e complessiva del sistema».
Contrattazione di secondo livello fondamentale anche per Notarianni, così come altri strumenti di welfare aziendale. La giuslavorista però ritiene manchi un adeguato sostegno al Made in Italy. Bisogna convertire molti saperi artigianali, tessitori, maglierie, corallo in Sicilia, agricoltura, e su questo ci vorrebbe una progettualità specifica. Anche qui, l’obiettivo è creare nuovi modelli, partendo però dalle vocazioni italiane e dai territori. E la sfida, sia per la politica, sia per le parti sociali, è per la giuslavorista la stessa: «la conoscenza del territorio e delle persone. La riscoperta di una rappresentanza reale, sia per la politica, che per il sindacato e imprese. Partendo dal territorio».
Il problema del contratto collettivo
Il problema fondamentale, secondo Ferrante, sta nel contratto collettivo: «abbiamo un sistema di inquadramento vecchio di 40 anni». E qui, la sfida riguarda le parti sociali, che devono meglio definire livelli di inquadramento, equilibri retributivi, modelli di lavoro adeguati all’innovazione. E’ un vero e proprio lavoro di riforma sul campo quello che secondo il giuslavorista va fatto, che parta da una mappatura dei profili professionali, affidando poi alle parti collettive il compito di stabilire il valore delle conoscenze professionali. In prati,ca le sfide per la politica sono di natura strutturale: politiche attive, mappatura professionalità, una «buona scuola seria», potenziamento raccordi con il mondo produttivo serio. E’ qui la proposta provocatorio: «un servizio militare con finalità civili, una sorta di servizio civile nazionale, per la cultura del lavoro, una sorta di palestra per l’organizzazione produttiva». Poi, ci sono le parti sociali, a cui spetta invece il compito di promuovere il cambiamento nel mondo del lavoro, su tutti i fronti (contrattazione e rappresentanza). Ferrante approva una serie di punti del Patto per la Fabbrica, come quello sulla rappresentanza, è favorevole all’introduzione di un salario minimo, anche per legge, e in generale insiste sulla necessità di riorganizzare il lavoro, semplificando le regole e avvicinandole alla realtà. Per esempio, sul fronte degli orari di lavoro: in questo senso, la flessibilità può ad esempio andare immediatamente incontro alle esigenze delle donne.