In questo periodo è sempre più diffusa una generale soddisfazione per il governo Draghi e per il prossimo avvio del PNRR che, nel sentire comune, sono visti come le basi per una prossima ripresa del Paese. Spicca però, in questo stesso tempo, un certo silenzio sul tema dell’innovazione tecnologica, argomento che, al contrario, appariva come ben più centrale nell’attività dei due Governi precedenti.
Ciò potrebbe preoccupare, perché il declino di produttività che è alla radice della stagnazione ormai più che trentennale del nostro Paese è, essenzialmente, un declino nella sua capacità innovativa, sia come produttore di innovazione, sia come adottatore. Se vogliamo che questo Paese sopravviva al macigno del debito pubblico e alla gravissima “siccità demografica”, la strada maestra consiste senz’altro nel recuperare il terreno perduto sul piano dell’innovazione.
Le priorità per la ripresa
Ciò richiede un livello di ambizione assai alto, ponendosi non l’obiettivo di esser un Paese che fortunosamente galleggia in mezzo ai cambiamenti globali, ma avendo come riferimento quella capacità di trasformazione, e quel dinamismo economico, che caratterizzarono l’Italia durante la Belle Époque e durante gli anni del Boom postbellico. Come nota a margine, è doveroso ricordare che, in Italia, viviamo ancora oggi di rendita sulle industrie che sorsero in quelle due epoche ormai remote (mentre, nel resto del mondo, le imprese maggiori sono quasi tutte di costituzione assai più recente).
Questo relativo silenzio sul tema dell’innovazione ci potrebbe pertanto far un po’ preoccupare. Tuttavia, non dobbiamo confondere le parole con le azioni, gli annunci con la sostanza e, soprattutto, il mero lancio di misure, o l’allocazione di risorse, con una loro “presunzione di efficacia”. “Fare” è importante, ma “fare bene” lo è ancora di più, a meno che non si accetti di cadere nell’inganno, sovente cavalcato dalla politica, dell’”abbiamo messo X miliardi su…”. “Sim sala bim”, e i soldi pubblici diventerebbero causa sufficiente per ottenere miracoli. Magari.
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Su questo punto, ritengo che l’ “era grillina” abbia creato un certo vulnus: sul tema dell’innovazione sono state spese tante parole, si è esercitata tanta capacità di attirare consenso (e forse anche qualche clientela), e sono state allocate risorse indubbiamente importanti. Ma, per contro, si è vista ben poca capacità, o forse desiderio, di andare alla radice delle cause che fanno del nostro Paese un laggard nell’innovazione. Siamo sì un Paese che è abbastanza capace di creatività e di far partire cose nuove, ma che fa poi fatica ad adottarle e a farle crescere a livello industriale. In Italia, purtroppo, domina quella mentalità statalista-corporativista che Edmund Phelps indica come importante nemica dell’innovazione, e che tende a limitare la concorrenza, a proteggere le imprese incumbent da quelle entranti (sovente con la scusa di voler proteggere dei posti di lavoro) e che, alla fin fine, rende assai meno rischioso il non innovare che l’innovare.
I freni agli investimenti
Su questa base culturale, sociale e politica, si innesta poi il disastroso stato della giustizia italiana, civile e penale, che, unitamente a un sistema di norme che costituisce un groviglio incomprensibile ai più, sconsiglia ai più, e non solo agli stranieri, di investire a lungo termine e su iniziative, o con soggetti, nuovi e intrinsecamente rischiosi. Da questo punto di vista, il governo Draghi, pur non spendendo troppe parole sull’innovazione, pare operare una politica quanto mai positiva per favorirla. Spero mi si perdoni l’uso “fuori tema” della parabola evangelica ma mi pare che, anziché spargere costosi semi a casaccio, per poi lasciarli rubare dagli uccelli delle clientele o soffocare dai rovi del corporativismo, si miri per prima cosa a creare un terreno favorevole.
L’importanza di definire obiettivi e strategie
Sempre abusando della parabola, rimane però un punto aperto, ed è quello dell’evitare che “il terreno roccioso e con poca terra” impedisca al seme di mettere radici. Il governo Draghi deve pertanto chiedersi cosa significhi dissodare e concimare un terreno che risulti fertile per l’innovazione. E qui, potrebbe anche chiedersi se non sia il caso di andare coraggiosamente al di là delle azioni condotte dai due precedenti governi, i quali hanno molto insistito e investito su un solo modello: quello del “venture capital”. Probabilmente perché spinti dalle esperienze dei loro più o meno interessati consulenti, la maggior parte delle iniziative, dalla Fondazione Eneatech ai Fondo Nazionale per l’Innovazione, si sono basati sul concetto di un Fondo che (direttamente o tramite altri investitori) esamina una pipeline di progetti grazie a uno stuolo di analisti, sceglie i migliori, vi investe/coinveste e, naturaliter, questo denaro dovrebbe permettere alle tecnologie di trasformarsi in imprese di successo. Un modello attraente nella sua semplicità, ma che evita due domande invece cruciali: “dove verranno spesi questi soldi?”, e “chi concretamente inizierà a comprare questa cosa?”.
Il nodo dello sviluppo di prodotti innovativi
La prima domanda è particolarmente rilevante quando si parla di innovazione tecnologica in senso stretto, cioè quando si tratta di sviluppare tecnologie portandole dalla ricerca di base “a basso TRL” alla ricerca applicata e, da qui, allo sviluppo di prodotti innovativi “a TRL9”. Anche in presenza di risorse economiche, questa attività difficilmente può essere compiuta in modo efficace in ambito universitario. Per competenze e obiettivi del personale, e per organizzazione interna, le università rimangono naturalmente votate alla ricerca di base. Ancora più difficilmente può essere compiuta da startup o PMI.
Non a caso, si tratta di un’attività che, nei Paesi che potrebbero essere di nostro riferimento, sono svolte da Research and Technology Organisations, ovvero da centri di ricerca applicata che fanno da ponte operativo tra accademia e industria. In Italia non abbiamo un Fraunhofer Institut, ma ne avremmo un forte bisogno. Abbiamo invece una costellazione di attori, alcuni dei quali molto validi, ma altri ben poco performanti, e che operano in modo assai idiosincratico. Attori, soprattutto quelli meno validi, che sovente confondono la loro attività con quella di bridging institutions, ovvero di entità che non attuano le attività di trasferimento tecnologico, ma si limitano a intermediarle (in fondo, rimaniamo un Paese nel quale si preferisce l’essere tifoso e Commissario Tecnico al praticare lo sport…).
Come arrivare dunque a un “Fraunhofer italiano”? Evitando, tanto per cambiare, la creazione di un’entità nuova ma, semmai federando in maniera sempre più stretta le migliori RTO e aiutandole a “gemmare” esperienze simili nei territori meno presidiati, al contempo spingendo gli RTO meno efficaci a migliorarsi in proprio, ad aderire agli RTO-guida, o (azione che riconosco sarebbe poco apprezzata dalle nostre parti) a… chiudere. Ovviamente, lo stesso si potrebbe dire anche per le tante bridging institutions (parchi scientifici, poli di innovazione, competence center, innovation hub, cluster, case delle tecnologie, distretti, ecc.), la cui mission e il cui perimetro operativo sono spesso noti in modo assai confuso alle stesse persone che vi lavorano.
Pochi clienti, troppa burocrazia
La seconda domanda è invece particolarmente rilevante quando si parla di startup o di PMI innovatrici. Dovrebbe infatti venire il dubbio che la sovente lamentata mancata crescita di queste imprese sia dovuta non tanto alla mancanza di capitali, ma soprattutto al fatto che, in Italia, mancano semplicemente i clienti. Chi è disposto a comprare beni e servizi innovativi da una startup mai vista prima? Il mare magnum di PMI un po’ “arcaiche”, e che faticano a capire l’innovazione stessa? Grandi imprese, pubbliche e private, che sovente sentono poca pressione competitiva, e che fanno volentieri naufragare i loro progetti di Open Innovation dietro alle lungaggini con cui i loro uffici tecnici, acquisti, e legali danno seguito alle indicazioni (anche di vertice) di avviare un rapporto di fornitura? La Pubblica amministrazione, i cui funzionari hanno nessun incentivo a sperimentare beni e servizi innovativi ma che, al contrario, sono ingessati dalla paura di contravvenire alle norme, e dallo spauracchio del Ricorso al TAR, dell’ANAC, e del Danno Erariale?
Il ruolo del procurement
Ora, se l’azione pubblica può poco sui primi due versanti, potrebbe tanto sull’ultimo, avviando vere iniziative di Public Technology Procurement. Questo è un terreno sul quale gli USA sono molto avanti, ed è noto a tutti come molte tecnologie e molte imprese si siano sviluppate rifornendo il Governo americano di soluzioni avanzate: il tanto decantato (e tanto malinteso) “Stato Imprenditore” USA è in realtà un grande “Stato committente”. Ed è un committente anche molto oculato, che non compra promesse progettuali sulla base di un presentation deck, ma acquista beni e servizi funzionanti sulla base di risultati concreti: i funzionari del Department of Defence dedicano più tempo alla due diligence tecnica che all’analisi di fatture e timesheet. Fornendo agli innovatori un “primo mercato”, e riducendo pertanto il rischio commerciale, le agenzia pubbliche USA li rendono target di investimento molto più appetibili per i fondi privati di Venture Capital.
Su questo terreno, l’Italia è sicuramente molto indietro: sarà solo un aneddoto, ma mi colpì molto il comportamento del “partito amico delle startup” quando si dovette individuare un fornitore per il sistema di pagamenti del Reddito di Cittadinanza. Anziché metterlo a gara, dando una chance a una fintech, lo si affidò direttamente a Poste Italiane. Tuttavia, se noi siamo indietro, lo è l’intera Unione Europea, e questa è una straordinaria opportunità per il nostro Paese. Adottando opportune misure sugli acquisti pubblici, istituendo centrali di acquisto specializzate, ed evitando (ovviamente) di arenarsi sullo sviluppo di soli “progetti pilota”, sarebbe possibile mobilitare in modo permanente cifre molto importanti: anche solo il 2% dei circa 100 miliardi di Euro di consumi intermedi delle PP.AA. costituirebbero uno straordinario volano di innovazione, tale da rendere l’Italia un Paese attrattivo anche per imprenditori stranieri.