L’introduzione del temporary digital manager per aiutare le imprese a interpretare correttamente il paradigma di Industria 4.0, la continuità degli incentivi, magari rimodulando l’iperammortamento, l’importanza di non abbandonare la formazione 4.0.
Sono diverse le istanze che arrivano dalle imprese e dal mondo del lavoro in vista delle misure su Industria 4,0 che il Governo intende inserire nella manovra 2019. «Tenuto conto del riscontro positivo del Piano Impresa 4.0, il Governo lavora per confermarne le misure cercando comunque di migliorarne alcuni aspetti, raccogliendo istanze anche dalle associazioni di categoria», si legge nell’aggiornamento al Def di fine settembre. Quindi, l’esecutivo dichiara attenzione nei confronti delle richieste che arrivano dal mondo produttivo. «La cosa più importante è la continuità, per gli imprenditori è fondamentale avere certezze», segnala Paolo Valvason, direttore generale di API, il quale non solo ritiene quindi importante che gli incentivi vengano prorogati anche nel 2019, ma saluta con soddisfazione il nuovo focus sulle piccole e medie imprese, che in effetti stanno rischiando di restare indietro.
Stessa considerazione da parte di Paolo Manfredi, responsabile digitale di Confartigianato, secondo il quale però la sfida fondamentale è quella di fare awareness nei confronti delle realtà imprenditoriali di minori dimensioni. Che sono cruciali, perché rappresentano la spina dorsale del panorama produttivo italiano. «Estendere la platea delle imprese che innovano» è prioritario anche secondo Andrea Bianchi, direttore politiche industriali di Confindustria. «I temi fondamentali sono formazione e politiche attive» segnala invece Massimo Bonini, segretario generale della Camera del Lavoro di Milano.
Lavoro in Industry 4.0: sfida su competenze, politiche, contratto sociale
Interessante notare come fra i rappresentanti delle associazioni imprenditoriali ci siano visioni diverse sul fronte della rimodulazione degli incentivi. Manfredi è favorevole all’ipotesi di una revisione dell’iperammortamento a scaglioni che privilegi gli investimenti delle piccole imprese (per le quali l’incentivo potrebbe arrivare al 280%), mentre Valvason ritiene che l’agevolazione si potrebbe addirittura ridurre dal punto di vista economico, in cambio di una minor rigidità dei parametri relativi agli investimenti.
Il riferimento è a una delle ipotesi allo studio dei tecnici dell’esecutivo, che vede l’iperammortamento diviso in quattro scaglioni: 280% per investimenti fino a 500 mila euro, 250% (l’aliquota attuale) tra i 500mila e i 2 milioni di euro, ammortamento al 200% trai 2 e i 10 milioni e infine un’agevolazione più contenuta, al 150%, fra 10 milioni e 30 milioni. Come si vede, verrebbero maggiormente premiati gli investimenti di minor entità, a vantaggio quindi delle piccole imprese. «E’ un’ipotesi che ci vede d’accordo» spiega Manfredi, secondo il quale uno dei nodi che bisogna sciogliere con questa manovra riguarda proprio la correzione dello squilibrio degli anni precedenti a favore dei grandi investitori. E’ quindi importante concentrarsi «sull’inclusione in questa partita di più soggetti, in un quadro comunque di equilibrio dei conti». Valvason, invece, sottolinea che «il 250% è già alto come livello di incentivazione, non c’è bisogno di renderlo più appetibile. Punterei invece verso un’altra direzione. Si può ridurre il contributo, allargando però le maglie all’accessibilità, rendendolo quindi meno selettivo». In questo modo, si allarga la platea di imprese facilitando il processo di digitalizzazione». L’attuale normativa prevede sette parametri relativi alla tipologia di investimento, che secondo API rischiano di essere troppo rigidi. Bianchi estenderebbe l’ambito di applicazione degli incentivi prevedendo «uno strumento specifico dedicato ai software e ai sistemi e servizi IT erogati in cloud o via piattaforma web», tipologie di servizio tipologie di servizio che attualmente non beneficiano dell’iperammortamento, ma che sono ampiamente utilizzate dalle PMI.
Tutto d’accordo sull’attenzione alle PMI 4.0, dichiarata dal Governo. E’giustissima perché «la grande impresa nella maggioranza dei casi ha già investito nel 4.0 – segnala Valvason -. Noi vediamo che invece ci sono piccole imprese (parlo di realtà sotto i 50 dipendenti) che non hanno fatto niente o hanno fatto poco. E’ quindi il momento di dare priorità a questo segmento di imprese, perché si muovano e non rimangano in ritardo. I tempi ormai sono relativamente stretti. La grandi e le medie imprese, che hanno già investito, nel giro di poco tempo diranno ai piccoli: rimani mio fornitore se chiudi la catena che io ho aperto con la mia digitalizzazione». Significa che se le PMI non intraprendono velocemente il processo di digitalizzazione, restano fuori dal mercato. E bisogna avere la consapevolezza che non si tratta di una cosa che si fa dall’oggi al domani, né in termini di investimenti né di formazione del personale».
Manfredi ritiene che per andare incontro alle PMI siano però necessarie altre misure, concentrate in particolare sull’awareness. «Ad esempio, servono figure di temporary digital manager, che facciano consulenza alle imprese. Si può pensare a un meccanismo di voucher come quello previsto per i temporary export manager». Si tratta, lo ricordiamo, di una proposta condivisa anche da Confindustria, e sull’introduzione della quale Manfredi esprime ottimismo. Ma che va inserita in un lavoro di «rimodulazione dell’offerta del mercato, in modo che sia sempre più chiaro per le imprese come devono investire in innovazione». Bisogna in qualche modo superare «la narrazione che c’è stata, e che non ha aiutato perché troppo concentrata sulle tecnologie piuttosto che sull’impresa». Questo non aiuta i piccoli.
Prendiamo ad esempio la blockchain (su cui l’Italia prevede di investire, sempre in base a quanto scritto nel Def): «va benissimo, ma il problema è che bisogna riuscire a vendere le tecnologie a chi non ne sa nulla. Se alle imprese continuiamo a proporre tecnologie nuove, presentandole come se fossero il super-futuro, rischiamo di farle finire fuori strada» Esempio: «un produttore di salumi vuole prima di tutto qualcuno che gli spieghi qual è il futuro del suo settore. E’ possibilissimo che passi anche attraverso l’utilizzo della blockchain, ma bisogna contestualizzare». E questa operazione forse «è troppo seria per farla fare ai venditori di tecnologia. Non bisogna parlare della tecnologia che si vuole diffondere, bisogna dire quello che serve alla specifica impresa».
Infine, il capitolo competenze. Tutti d’accordo nella necessità di prorogare gli incentivi alla formazione 4.0. «L’innovazione porta cambiamenti a livello di tipologie di lavoro, mansioni, competenze. E una fetta dei lavoratori non ha queste competenze, quindi bisogna mettere in campo un piano specifico. Va bene il credito d’imposta sulla formazione, ma va messo in campo un piano più ampio. Noi abbiamo notato un rischio: le aziende formano chi ha già le competenze, lasciando invece indietro altri lavoratori». L’idea, quindi, è quella di prevedere «una forma di coordinamento, di indirizzo, che allarga questi piani formativi, partendo da chi non ha competenze». «Le imprese fanno fatica a trovare persone adeguate, a maggior ragione su innovazione e 4.0. I soldi per la formazione sono ben spesi» segnala Valvason.
Qui, segnaliamo il rapporto del Centro Studi Confindustria sugli scenari di politica economica, secondo cui per l’upskilling e il reskilling (l’aggiornamento e la riqualificazione), è necessario «rendere più agevole il credito d’imposta sulla formazione, ora vincolato alla previsione nel contratto collettivo o territoriale» (già l’anno scorso Viale Astronomia chiedeva di eliminare questo paletto, caro invece ai sindacati). «Per il segmento in ingresso, invece, è necessario uno svecchiamento dell’offerta formativa sia da parte della scuola secondaria sia dell’università, da riprogettare in stretta collaborazione con il sistema delle imprese».