Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), pubblicato e distribuito ai partner europei da qualche giorno, è – a mio avviso – un documento straordinariamente completo, che mette in evidenza le tante aree su cui l’Italia deve lavorare per ripartire, e lo fa con onestà intellettuale.
Queste aree sono collegate nella giusta prospettiva: non esiste una Italia 4.0, protagonista nella scena internazionale in questa quarta era del nostro sviluppo industriale, senza una giustizia che funzioni, o senza una pubblica amministrazione dotata di risorse e competenze che abilitino la capacità innovativa dei territori (lo abbiamo visto tante e tante volte, ad esempio, nei nostri Osservatori sul tema Smart City).
PNRR, un elemento di discontinuità
Devo ammettere che ho riflettuto prima di scrivere questo breve commento al PNRR.
In passato ho preso la penna, o meglio dire allungato le dita sulla tastiera, per condividere le mie riflessioni, spesso positive, qualche volta critiche, sul primo Piano Nazionale Industria 4.0 e sulle sue evoluzioni successive. Ora le condizioni al contorno di questo nuovo Piano sono così diverse, per ragioni sotto gli occhi di tutti (il permanere della pandemia, la disponibilità di risorse di entità straordinaria, la caratura delle persone che hanno indirizzato la sua stesura) che credo che sia necessaria una prospettiva del tutto nuova, nella sua lettura.
Direi anzi che il piano vada analizzato più come elemento di discontinuità, che di continuità.
Tutti, soprattutto i dirigenti nelle imprese private e nella pubblica amministrazione, dovrebbero investire un poco di tempo, in prima persona e non solo mediato da mezzi stampa o da commercialisti e consulenti fiscali, per leggere il documento, per capirne trama e ordito, e tutti dovrebbero (e dovremmo) rimboccarsi le maniche e, indipendentemente dalle risorse che si riuscirà poi a intercettare, chiedersi se e quanto la propria azienda o l’unità di cui è responsabile sia in linea con la visione dell’Italia che questo documento ci prospetta.
Non di soli sussidi vive l’impresa
Non di rado, infatti, in questi anni, soprattutto lavorando con imprese industriali, mi è capitato di vedere l’avvio del cambiamento condizionato alla o condizionato dalla disponibilità di fondi e incentivi pubblici: quanti progetti Industria 4.0 sono partiti non perché se ne fosse compresa l’intima visione, ma perché vi erano opportunità fiscali da non perdere, per rinnovare il parco macchine con altre più nuove ed efficienti (cosa buona e giusta) ma senza profondere, il management e l’impresa tutta, quello sforzo umano e professionale necessario per avviare il cambiamento profondo rappresentato dalla rivoluzione digitale.
Il mio timore è che, per alcuni versi, si sia parlato troppo di incentivi e sussidi (che comunque erano limitati rispetto all’onere complessivo del percorso di trasformazione che si sarebbe dovuto fare), perdendo di vista cambiamenti più ambiziosi che, a risorse “infinite”, o meglio a fiducia “infinita”, si sarebbero potuti progettare. Mettiamola così: quanti progetti di Smart Factory o di Smart Supply Chain sono stati avviati, con l’obiettivo di recuperare qualche punto percentuale di OEE, o di produttività del capitale circolante, invece di parlare di condivisione delle macchine inutilizzate, di open innovation, oppure di capire i clienti al tal punto da azzerare le vendite perse?
Se si perderà anche questa occasione di ambizioso cambiamento, anche questo piano, per quanto straordinario nella disponibilità di risorse, sarà insufficiente.
Transizione 4.0, investire come e dove serve non in base al mix di sostegni del PNRR
Facciamo un esempio, nel dominio a me più vicino, ovvero quella della Transizione 4.0: come confermato in diverse analisi, su 18 miliardi complessivamente stanziati (RRF + NCF) a favore della Transizione 4.0, 13 circa sono destinati a beni tangibili, di cui tutto il fondo NCF, e solo circa 5 a supporto di investimenti in asset intangibili. Al contrario, avendo maturato qualche rudimento sulla materia, credo di poter affermare con convinzione che l’I4.0 sia prevalentemente SW e investimenti intangibili, più che HW e nuovi macchinari.
Nuovi macchinari, in vecchie architetture, con vecchie competenze annidate in vecchie organizzazioni, faranno ben poco. Quali che siano le motivazioni (impegni di spesa precedentemente sottoscritti, o altro) che abbiano portato a questa destinazione delle risorse, è responsabilità delle organizzazioni e dei suoi decisori capire quale debba essere invece il corretto bilanciamento tra queste voci di spesa, e poi investire come e dove serve: se per avviare appieno la Transizione 4.0 delle imprese manifatturiere servono investimenti intangibili (tanto SW e sviluppatori, ridisegno delle architetture IT/OT, piattaforme dati, formazione e assunzioni, cambio dei modelli organizzativi), perché da lì in questa fase storica passa l’Industria 4.0, allora ciò va fatto, e il mix di sostegni del PNRR non deve essere un alibi. Non c’è bisogno che sia finanziato fino all’ultimo centesimo, per fare la cosa giusta.
Conclusioni
Ecco, parafrasando un slogan di oltreoceano di vecchia memoria, credo che la cosa da chiederci adesso non sia cosa il governo, o “lo Stato” come si soleva dire, può fare per la tua impresa pubblica o privata con il PNRR, ma cosa ogni organizzazione può fare per l’Italia, alla luce della visione descritta nel PNRR.
Un’ultima nota: nella lettura di questo documento, si respira aria di civiltà, di cultura; l’Italia che è descritta guarda al futuro alla luce delle opportunità tecnologiche e dell’innovazione, ma mette al centro valori e bisogni sorprendentemente umani, come il recupero dei giovani, e l’inclusività in tutte le sue forme, valori che spesso sono esclusi da piani di azione che hanno obiettivi di immediato impatto (economico, o di consenso). Una occasione straordinaria, dunque, di crescita e di sviluppo civile: sta a tutti noi non sprecarla.