l'analisi

Nuova politica industriale: che fare rilanciare la competitività dell’Italia

Incoraggiare la “demografia virtuosa” del tessuto produttivo; incentivare le imprese a orientare i propri investimenti; favorire il passaggio di conoscenze dai centri ricerca alle imprese; darsi una vision di medio-lungo termine. Sono queste le sfide per una nuova politica industriale italiana

Pubblicato il 24 Gen 2020

Fabrizio Onida

professore emerito, Università

chief information officer

Ha senso parlare oggi di politica industriale? Di sicuro, nel farlo è bene innanzitutto evitare equivoci terminologici e chiarire bene quali sono le linee essenziali di una sana moderna “politica industriale in senso stretto” e le sfide che sarà necessario affrontare per promuovere la competitività.

Il dibattito sulla politica industriale

Negli anni ‘80-90, sull’onda della “rivoluzione” liberista Reagan-Thatcher fautrice dello Stato minimale, la risposta alla domanda sarebbe stata negativa o almeno fondamentalmente scettica su entrambe le sponde dell’Atlantico. A partire dagli inizi del 21° secolo, con il sovrapporsi di diversi cambiamenti epocali (tra cui la rivoluzione Internet, l’ingresso della Cina nella WTO, la nascita dell’euro, la crisi finanziaria post-Lehman, le tensioni geopolitiche in Africa e Medio-Oriente), il termine “politica industriale” non è più una ‘parola oscena’ in Europa, come dalla famosa battuta di Romano Prodi in uscita dal suo ruolo di presidente della Commissione Europea. Il dibattito si è rapidamente arricchito di documenti ufficiali (OECD, IMF, World Bank, Commissione e Parlamento Europei, Banche internazionali di sviluppo, Banche centrali etc.), articoli accademici e interventi giornalistici nella Triade (Usa, Europa e Giappone) con la partecipazione di economisti come Rodrik, Krugman, Stiglitz, Nelson, Aghion, Chang e diversi altri.

Parlando di “nuova politica industriale” conviene innanzi tutto evitare equivoci terminologici. Vi è tutto un arco di politiche economiche che hanno notoriamente un profondo impatto sulla competitività internazionale e sulla crescita dell’industria e dei servizi di un paese e dei suoi diversi territori, ma che sarebbe una forzatura ricondurre alla categoria della politica industriale. Si potrebbe parlare dei “confini limitrofi” della politica industriale. Di seguito un elenco essenziale di tali aree confinanti, sia pure declinato in forme che riflettono le diverse caratteristiche culturali dei paesi.

  • Politica della concorrenza e dei mercati (legislazione antitrust), a garanzia del mantenimento di mercati con libertà di entrata e uscita che stimolano efficienza e prezzi competitivi a vantaggio dei consumatori e degli utilizzatori intermedi. Regole del gioco che favoriscano profitti e capacità di crescita dimensionale ma impediscano i tanto diffusi fenomeni di estrazione di rendite monopolistiche palesi o nascoste (tariffe, servizi).
  • Investimenti pubblici e in partnership col settore privato convergenti su infrastrutture critiche per l’economia e la vita civile come interconnessione e mobilità nei trasporti terrestri-marittimi-aerei, logistica, reti digitali (5G…) di comunicazione, sicurezza e ordine pubblico.
  • Quadro giuridico legislativo-amministrativo-regolamentare (inclusa la giustizia civile e penale) sufficientemente trasparente, semplice e non vessatorio nei confronti dell’ordinario e straordinario “doing business” delle imprese e dei connessi soggetti pubblici, che devono formarsi aspettative credibili e prendere decisioni tempestive. Oltre l’avvicendamento rapido di ministri in carica con visioni contrastanti e scarsa competenza in merito, una delle cause del fallimento del coraggioso tentativo dell’allora ministro Bersani (ultimo governo Prodi) di lanciare alla fine degli anni ’90 una nuova politica industriale fortemente orientata all’innovazione (Industria 2015) è stata proprio la complessità e non trasparenza delle regole di accesso agli incentivi.
  • Politiche dell’istruzione tecnica e superiore che sviluppino il potenziale del “capitale umano”: senza un continuo aggiornamento delle competenze e delle pratiche manageriali restano inconcludenti molti appelli del governo e molti declamati propositi delle organizzazioni datoriali e sindacali per promuovere la competitività del paese.
  • Politiche del lavoro che favoriscano la mobilità aziendale, settoriale e territoriale, evitando di creare le condizioni socioeconomiche e culturali di impoverimento del suddetto capitale umano, con rincorsa verso il basso (race to the bottom) nella vita delle famiglie e dei territori.
  • Politica del commercio estero non troppo condizionata da lobbies settoriali protezionistiche, che danneggiano la più ampia platea dei consumatori e produttori nazionali, spesso favorendo produttori fortemente concentrati (prevalentemente di beni intermedi come acciaio, metallurgia, fibre plastiche fino alla componentistica elettronica) a scapito degli utilizzatori a valle della filiera.
  • Un sistema di intermediari bancari e finanziari volto primariamente al finanziamento degli investimenti e dei consumi reali, non alla crescita incontrollata di innovazioni finanziarie autoreferenziali di assai dubbia trasparenza (per non dire irragionevole opacità).

Le linee essenziali per una moderna politica industriale

Veniamo ora a tracciare le linee essenziali di una sana moderna “politica industriale in senso stretto”, mirata a promuovere la competitività del proprio tessuto produttivo in un contesto di mercati aperti e soprattutto di forte turbolenza tecnologica che obbliga a rivedere in continuazione la struttura dei vantaggi comparati del paese ereditati dalla storia.

Obiettivi e strumenti di tale politica industriale ottimale sono riconducibili alle seguenti (non facili!) sfide.

  • Affrontare le inevitabili crisi di imprese e interi distretti che faticano a reggere la mutata concorrenza dei mercati con interventi (inclusi i controversi “aiuti di Stato”) che promuovano l’ingresso di nuove imprese, soggetti imprenditoriali (domestici o a controllo estero) con produttività più elevata delle imprese in declino. Si incoraggia così una “demografia virtuosa” del tessuto produttivo, anche accompagnando il trapasso generazionale nel controllo e nel management delle imprese meno giovani e la mobilità sul mercato del controllo proprietario. Si evita la dissipazione di preziose risorse umane tecniche che discende dal voler mantenere aziende (private e pubbliche) decotte con scarse probabilità di recupero competitivo. Attenzione: per il semplice effetto di sostituzione sul mercato di imprese meno produttive con altre imprese più produttive si genera un benefico effetto statistico di innalzamento della produttività media del sistema, che si accompagna sperabilmente ad un aumento dei salari e delle retribuzioni medie. Un contributo importante al ringiovanimento del tessuto produttivo viene anche dalle iniziative del sistema bancario e finanziario nell’alimentare il mercato del Venture capital nelle sue varie accezioni (early stage, scaleup ecc.). Altrettanto vale per lo sviluppo del Private equity che nelle sue migliori espressioni facilita ricambio manageriale e crescita organizzativa dell’impresa spesso legata ai trapassi generazionali e alla ricerca di opportunità di aggregazione societaria. Al tempo stesso va delegato ai meccanismi dello Stato sociale (non alla politica industriale!) il compito di disegnare e applicare appropriati ammortizzatori sociali a difesa dei disoccupati e in generale delle fasce deboli di occupazione.
  • L’Italia dispone di una fitta rete di università e centri pubblici-privati di ricerca e al tempo stesso è caratterizzata da un tessuto estremamente frammentato di micro, piccole e medie imprese. In questo contesto, come suggerito dalla ricca letteratura teorica ed empirica sulla dinamica evolutiva dei settori e dei distretti innovativi in diversi paesi e sistemi (da Nelson-Winter in poi), è importante che il disegno degli incentivi fiscali e finanziari di politica industriale (a bando o automatici) induca processi di aggregazione organizzativa (non necessariamente societaria) tra imprese che partecipano a progetti di ricerca e sviluppo in cooperazione con altre imprese e con centri indipendenti di ricerca (ricerca “pre-competitiva”). In tal modo si realizzano economie di scala di progetto e si accelera la formazione di eco-sistemi di innovazione industria-servizi, a loro volta fattore di attrazione spaziale e settoriale di altre imprese. Al di là dei famosi casi americani come Silicon Valley e Boston Route 128, diverse esperienze di tali eco-sistemi innovativi si sono sviluppate in paesi come Giappone, Germania, Francia, Regno Unito, Olanda, Svezia. Nessuno ha nostalgia di ritorni velleitari a forme di “programmazione settoriale” stile anni ’70 dominate dalle architetture ministeriali. Servono però governi e amministrazioni che diano segnali chiari di indirizzo delle energie innovative del paese verso soluzioni all’altezza delle grandi sfide sociali e tecnologiche nel mondo globalizzato (“Industrie del futuro” secondo un linguaggio diffuso nei documenti ufficiali). Si tratta cioè di incentivare le imprese di tutte le dimensioni a orientare i propri investimenti, scoprendo e testando le proprie capacità di contribuire ai grandi drivers dello sviluppo economico e sociale del paese.
  • Più in generale, anche prendendo esempi da paesi europei a noi vicini e superando la retorica di molte velleitarie “cabine di regia” destinate a restare sulla carta e nei verbali ministeriali, è fondamentale che il governo imponga alle proprie amministrazioni di competenza (principalmente, ma non solo Industria e Ricerca-Istruzione, di volta in volta anche Sanità, Trasporti, Agricoltura) di lavorare fianco a fianco per colmare la cosiddetta “valle della morte” che impedisce un continuo efficace trasferimento di conoscenze ed esperienze organizzative dalle istituzioni di ricerca (accademiche e non accademiche, queste ultime spesso nascoste negli organogrammi di enti come CNR, ENEA, INFN) al mondo variegato di migliaia di imprese grandi medie e piccole. Si richiama spesso il caso della ONG tedesca Fraunhofer Gesellschaft, fondata nel 1949 e oggi operante tramite quasi 70 istituti e unità operative indipendenti di ricerca, con oltre 22.000 addetti, un bilancio annuale di ricerca di circa due miliardi di euro finanziato al 70% da contratti di ricerca con enti pubblici e privati e al 30% da contributi del governo federale e dei Länder. A ragione o a torto questo è considerato in Italia un caso inarrivabile, anche per la potente sinergia con la gloriosa Max Planck Society, un’altra ONG articolata in 83 istituti e centri di ricerca di base, dove lavorano altri 22.000 ricercatori e scienziati con un bilancio intorno a 2 miliardi euro finanziato per l’80% da governo federale e Länder, da cui sono usciti 18 premi Nobel. Ma sono interessanti anche esperienze altrove. In Francia operano più di 70 “poli di competitività” a valenza nazionale e internazionale, 38 Istituti Carnot, grandi programmi tecnologici nazionali come Ariane e Galileo, sotto la regia del Conseil National de l’Industrie articolato in 14 “Comitati strategici di filiera”. Il Regno Unito sta gradualmente mettendo a regime un folto gruppo di “Centri catapulta” dotati di infrastrutture di ricerca, sperimentazione, prototipazione e testing di prodotti e servizi nell’ottica della ricerca pre-competitiva mirata ad accelerare la conquista di vantaggi competitivi in un’ampia gamma di filiere e comparti a maggior dinamismo tecnologico, dalla manifattura additiva alle terapie cellulari, allo sfruttamento energetico offshore, alle applicazioni satellitari.
  • Un complemento sempre più importante della politica industriale nazionale è infine la capacità di attrarre investimenti esteri produttivi e commerciali nel paese, mantenendo voce in capitolo del governo centrale e dei governi locali sul rispetto delle regole di governance e sulla salvaguardia degli obiettivi di sicurezza nazionale e di sviluppo delle tecnologie. Spesso i centri decisionali dei grandi gruppi mondiali, nel loro continuo processo di selezione delle regioni del mondo e dei settori (manifattura e servizi) dove puntare per la propria crescita e la propria solidità patrimoniale, cercano di cogliere la direzione in cui i governi nazionali e regionali intendono muoversi, con una visione di medio-lungo periodo. Come emerge da alcune ricerche sul campo, tra cui una promossa anni fa dal Comitato Investitori Esteri di Confindustria, un elemento che sistematicamente frena la propensione dei grandi e medi gruppi multinazionali a spostare in Italia una quota significativa di ricerca e sviluppo, e anche di attività produttiva, è costituito proprio dall’assenza di un quadro comprensibile e credibile di programmi governativi in partnership pubblico-privata di sviluppo, con una visione a medio e lungo termine. Ovviamente la cronica instabilità dei governi non aiuta a fornire agli investitori esteri un tale quadro.

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