La valutazione complessiva delle politiche industriali e di quelle per l’innovazione nel nostro Paese dell’attuale Governo non è del tutto negativa. Al contrario, si rileva una linea di continuità con quanto avviato dal procedente Governo, che ha favorito una significativa ripresa degli investimenti. Manca però, soprattutto, un quadro strategico definito, che vada al di là delle politiche orizzontali, basate su incentivi.
È logico che la componente cruciale sia costituita dalle azioni ipotizzate in relazione a ciò che nel linguaggio diffuso va sotto il nome di Industria 4.0 (d’ora in poi I40), divenuta espressione passe-partout, o variabile “portmanteau”, impiegata per indicare un insieme variegato di fenomeni.
Industria 4.0, una sintetica definizione
Non manca chi considera I40 un “orientamento”, quasi uno sguardo verso un magico orizzonte. Senza alcuna pretesa di esaustività, prima di discutere le misure governative nelle linee generali finora enunciate, è opportuno chiarire che per I40 intendiamo lo scenario incentrato su una completa rappresentazione digitale (“digital twin”) di processi e prodotti, dalla nanoscala degli input alla scala ordinaria degli output e alle interazioni con i mercati globali. Questa sintetica definizione di I40 è utile, perché delinea in termini abbastanza precisi l’orizzonte di riferimento per valutare il grado di evoluzione dell’apparato produttivo, quindi la potenziale efficacia delle visioni di politica industriale e degli strumenti necessari per realizzarla.
Il punto di partenza per esprimere un giudizio ponderato è costituito dal mutamento radicale della frontiera tecnico-produttiva: siamo in presenza di un loop dinamico tra crescita esponenziale della potenza computazionale e creazione di sistemi di software, cioè di conoscenza umana trasformata in algoritmi incorporati in oggetti, attività, processi e ambienti sociotecnici. Ne consegue uno scenario ad alta intensità evolutiva nei flussi di informazioni e conoscenze.
Le implicazioni di tutto ciò sono immediate e davanti agli occhi di tutti:
- la pervasività di dispositivi in grado di elaborare informazione dà luogo a quelli che sono definiti “sistemi fisico-cibernetici” (cyber-physical systems) e alla connessa possibilità di creare nuovi materiali non esistenti in natura. Di qui la necessità di ripensare le basi concettuali e operative di processi e prodotti.
- La dinamica tecnico-scientifica, insieme alle tecnologie dell’informazione, consente di combinare atomi per ottenere molecole e materiali con proprietà all’inizio ignote o solo in parte conosciute. Si pensi al fullerene, grafene, borografene, stanene e così via. La scoperta delle proprietà dei nuovi materiali è generata dal loro impiego molteplice in vari campi ed è il risultato di attività sperimentali progettate in modo sistematico.
- L’attività produttiva di beni e servizi diviene necessariamente processo di ricerca e scoperta di nuove conoscenze o di applicazione di queste ultime, prodotte da altri (imprese, Centri di ricerca) in un set non definibile a priori di processi produttivi.
- Tutte le fasi della sequenza necessaria per ottenere un qualsiasi output sono interessate da cambiamenti conoscitivi, sempre più trasversali a molti settori di attività.
- La pervasività delle tecnologie e degli strumenti in cui si esprimono domini di conoscenze in continua evoluzione porta con sé la necessità che si sviluppino strutture interattive dinamiche tra imprese, centri di ricerca, agenzie istituzionali.
Le sfide dell’industria
Il quadro delineato attraverso questi cinque punti crea uno spazio della conoscenza globalizzato e in perenne trasformazione. Ciò richiede agli operatori economici, sociali e istituzionali un frequente scanning della frontiera tecnico-scientifica e produttiva, la ricerca e “messa a fuoco” di coordinate strategiche, sulla cui base sviluppare modelli manageriali e piani operativi intrinsecamente dinamici. È chiaro che la possibilità di modificare il patrimonio genetico (si pensi alla tecnica CRISPR/Cas9) e gli sviluppi della progettazione dei materiali a partire dalla configurazione atomica delineano uno scenario tale da imporre una incessante ridefinizione delle basi delle tradizionali attività produttive. Ciò avviene proprio perché da quanto prima esposto si deduce che la dinamica tecno-economica crea un enorme potenziale creativo per nuovi prodotti o nuove funzionalità da far svolgere a tradizionali output, grazie a sistemi di algoritmi finora riprogrammabili e ora sempre più in grado di apprendere in modo “autonomo”. Per catturare questo potenziale, in linea teorica di grande estensione, occorre sviluppare visioni, strategie e strumenti appropriati per misurarsi con le sfide, partendo da un’assunzione di fondo: siamo in presenza di una serie di discontinuità tecnico-produttive. Per affrontare le sfide generate da queste ultime sono necessarie strutture interattive di alto livello ed elevate capacità di coordinamento strategico.
I punti cardine nella Manovra 2019
Le considerazioni svolte finora delineano il quadro di riferimento essenziale per valutare la logica generale, le linee strategiche e gli interventi ipotizzati in tema di politica industriale e innovativa contenuti nella Legge Finanziaria per il 2019. Cerchiamo allora di proiettare le linee generali del suddetto documento, sia pure nella versione non ancora definitiva. Poiché i contributi di Barbara Weisz su Agendadigitale.eu sono del tutto esplicativi del complesso e dei dettagli della manovra, possiamo così sintetizzare i punti essenziali della logica di fondo espressa dal Governo in carica:
- riduzione dell’ammontare di risorse complessivamente destinate all’incentivazione di progetti innovativi.
- Mutamento del focus del disegno generale, con una maggiore attenzione verso le piccole e medie imprese rispetto a quelle più grandi.
- Introduzione della novità di un manager dell’innovazione, destinato solo alle piccole imprese.
- Cambiamenti del trattamento fiscale delle spese in Ricerca e Sviluppo.
- La dotazione finanziaria complessiva per i Competence Center è di 75 milioni, ancora lontana dai 100 milioni indicati quando sono stati ipotizzati per la prima volta.
L’ultima versione della Legge di Bilancio, nella versione analizzata dall’Ufficio Parlamentare di Bilancio il 22-12-2018, prevede infine un significativo taglio degli investimenti per il 2019, più di un miliardo in meno, contro l’ipotesi iniziale di un aumento di 1 miliardo, mentre un fondo di 9 miliardi per investimenti nel triennio viene ridotto a 3,6. Anche se non è del tutto chiara la portata effettiva della riduzione e quindi le stime degli effetti lasciano qualche dubbio, resta il fatto che uno dei meccanismi propulsivi di una eventuale crescita quantitativa e qualitativa viene fortemente depotenziato.
Aspetti positivi e criticità dell’azione di governo
Alla luce delle riflessioni iniziali e dei cinque punti appena descritti, possiamo avanzare alcune valutazioni di merito. Tralasciando questioni relative alla dotazione di risorse, che ovviamente riflette vincoli generali di finanza pubblica e fattori condizionanti di natura macroeconomica, in queste note effettueremo una sorta di analisi della congruenza tra il quadro dell’analisi iniziale e la logica generale evidenziata nei punti precedenti, cercando di mettere in luce aspetti positivi ed elementi a nostro avviso inadeguati o contraddittori.
Un primo spunto di valutazione, di segno positivo, riguarda l’esplicita focalizzazione sulle piccole imprese. Questo giudizio deriva dalla considerazione che, per affrontare quelle che abbiamo in precedenza definito discontinuità tecnico-produttive, gran parte dell’apparato di produzione nazionale, costituito appunto da imprese meno strutturate, richiede particolari sforzi e attenzioni.
PMI: intenti lodevoli, strumenti inadeguati
Al lodevole intento non corrisponde però, a nostro avviso, un’appropriata strumentazione. Questa tesi è motivata dalla seguente considerazione: se lo scenario tecno-economico odierno, come affermato all’inizio, genera la necessità di ripensare le basi dei processi e prodotti, grazie all’innalzamento del livello degli input tecnico-scientifici, la logica implicazione è che occorre una profonda trasformazione dei modelli strategico-manageriali delle imprese e dei modelli mentali degli operatori. Mentre in un regime sociotecnico basato su tecnologie elettro-meccaniche le dinamiche di apprendimento possono essere basate sull’accumulazione di conoscenze on situ con il learning by doing, attualmente e nel prossimo futuro non sarà più così. Le capacità di reazione ad un ambiente tecno-economico e competitivo profondamente cambiato sono molto differenti per tutte le imprese, soprattutto quelle appartenenti alle fasce dimensionali minori.
E’ probabile che quelle più strutturate abbiano le condizioni necessarie ma non sufficienti per affrontare le nuove sfide, mentre quelle meno strutturate, molto spesso basate su singole figure imprenditoriali e un gruppo molto ristretto di operatori, devono invece effettuare un salto qualitativo sul piano dell’organizzazione e della cultura manageriale, non tanto nel senso di un inevitabile salto dimensionale, quanto nella direzione di elevare la dotazione di conoscenze dinamiche incorporate nei loro processi, prodotti e addetti, mediante l’appartenenza a reti dinamiche. In breve, devono realizzare una trasformazione pervasiva e profonda, che non possono effettuare con le loro sole forze, data l’assenza di componenti sistematicamente orientate alla Ricerca e Sviluppo. Quest’ultima funzione viene, infatti, molto spesso esercitata in forma sporadica e su base empirico-osservativa, solo raramente con una progettazione stabile, magari in relazione a partnership progettuali con altre entità.
Trasformazione digitale delle PMI: gli incentivi non bastano
Da queste considerazioni deriva la tesi che l’impostazione strategica della Legge Finanziaria, in continuità con il Piano Calenda, ha un limite di fondo: fare affidamento solo su una struttura di incentivi (fiscali e monetari), anche se potenziati, non è appropriata per entità che devono fronteggiare discontinuità come quelle indicate all’inizio, a meno che non si attribuisca, illusoriamente, un ruolo taumaturgico al manager per l’innovazione, formato con voucher di 40000 euro. È difficile che una singola persona, per di più esogena rispetto a microambienti aziendali, possa innescare rapidi ed estesi cambiamenti tecnico-produttivi e manageriali. Non è peraltro da escludere l’eventualità che microambienti, basati su interazioni circoscritte ad alta frequenza, siano inizialmente refrattari verso impulsi esogeni. Il punto arrivo di questa riflessione è, in sostanza, che il focus dell’attenzione sul futuro della piccola impresa è certamente un aspetto positivo, ma l’idea che essa possa affrontare efficacemente problemi e sfide emergenti solo con una struttura di incentivi pone di fronte al rischio di creare effetti distorcenti.
Superare la logica del trasferimento tecnologico
Sarebbe dunque necessaria una strategia più articolata, al cui centro vi sia la creazione di strutture interattive multilivello verso le realtà meno strutturate, attraverso anche la formazione di competenze di livello superiore (universitario e para-universitario, come i validi IFTS) opportunamente organizzate in team multidisciplinari. Un primo passo in questa direzione è sicuramente, a nostro parere, il superamento – da parte degli operatori pubblici e privati – della logica incentrata sul cosiddetto trasferimento tecnologico, oggi assolutamente prevalente, e la parallela adozione di un mindset interdisciplinare. Cerchiamo di spiegare. Il trasferimento tecnologico implica una visione per cui vi sono i possessori di conoscenze teoriche e sperimentali, che comunicano alle imprese, non di rado in Italia distanti dalla frontiera, specie negli apparati produttivi tradizionali. Non sono sorprendenti a questo riguardo i risultati di recenti indagini (Indagine MET per il MISE; Indagine RISE dell’Università di Brescia, discussa su Agendadigitale.eu da Bacchetti e Zanardini, per citarne solo alcune), dalle quali risulta una relativa arretratezza di una parte non irrisoria del sistema delle imprese, anche in territori tradizionalmente più dinamici.
Superare l’ottica del trasferimento significa non concepire l’evoluzione delle imprese come mero processo di assorbimento di conoscenze di più alto livello, elaborate all’esterno. La pervasività dei sistemi fisico-cibernetici e l’intelligenza dinamica, incorporata nelle macchine che si connettono tra loro e processano informazione senza l’intervento umano diretto, cioè l’enorme espansione della rappresentazione digitale dei processi e prodotti reali, comporta che questi ultimi debbano essere ripensati e progettati congiuntamente da team di competenze multiple, interne ed esterne alle aziende.
Non più solo trasferimento di conoscenze, quindi, bensì creazione di nuove basi conoscitive partendo dall’analisi dei problemi e dei contesti reali, grazie alle intersezioni tra differenti dotazioni conoscitive.
Due esempi concreti per cercare di chiarire meglio. Un Centro di nanotecnologie non può semplicemente trasferire la propria conoscenza delle nanoparticelle per produrre un filtro depurativo, né il recentissimo annuncio di nanotecnologie applicate a pneumatici interattivi con asfalto arricchito da grafene può essere semplicemente comunicato ad un’azienda produttrice degli stessi pneumatici.
Il perseguimento dell’obiettivo indicato non può essere il risultato di una struttura di incentivi, perché è necessario organizzare meccanismi e centri di interazione sistematica.
Potrebbe a questo punto sorgere l’obiezione che gli Hub per l’innovazione e i Centri di Competenza per I40 dovrebbero servire proprio a tale scopo. In effetti, però, potranno essere davvero efficaci se riescono a superare lo schema concettuale e operativo incentrato sul “trasferimento tecnologico”.
Ripensare Università e Centri di ricerca
La cultura universitaria, predominante in Italia, induce ad un ottimismo molto temperato. Bisogna poi osservare che, tranne qualche felice esperienza, i Centri di Competenza hanno un processo di gestazione con un ritmo molto più lento di quello dell’intensità della dinamica innovativa e iniziano ad operare con una certa vischiosità, non attribuibile solo alla tradizionale staticità burocratica del vituperato “Pubblico”. A questo punto è forse ineludibile che si avvii una profonda riflessione sul funzionamento delle Università e dei Centri di Ricerca, insieme ad un’analisi seria e sistematica delle esigenze formative idonee per la dinamica tecno-economica del XXI secolo. Non si tratta di elaborare l’ennesima, deludente riforma dell’Università con tardiva imitazione di modelli stranieri, bensì di trarre le conseguenze dopo aver risposto in modo non stereotipato ad alcuni quesiti basilari:
- quali i contenuti tecnico-economici e socioculturali per formare figure ben identificate a livello internazionale (essenziali, dinamiche, propulsive).
- Come innescare processi di osmosi continua tra evoluzione tecnico-scientifica ed apparato produttivo?
- In quale modo fronteggiare le emergenze formative che una dinamica di transizione sociotecnica e ambientale come quella odierna comporta?
Non è un caso che l’ASME (American Society for Mechanical Engineering) e il VDMA (l’analoga associazione tedesca) abbiano nel 2015 iniziato a collaborare per delineare professionalità e skills per il XXI secolo (A Discussion of Qualifications and Skills in the factory of the Future: A German and American Perspective, April).
Alla luce delle riflessioni svolte finora la valutazione complessiva delle politiche industriali e di quelle per l’innovazione nel nostro Paese non è del tutto negativa. Al contrario, si rileva una linea di continuità con quanto avviato dal procedente Governo, che ha favorito una significativa ripresa degli investimenti. Manca però, soprattutto, un quadro strategico definito, che vada al di là delle politiche orizzontali, basate su incentivi
. A titolo di esempio, sembra non emergere nel nostro Paese la capacità di definire uno scenario strategico all’altezza delle sfide, come quello delineato nel Rapporto redatto da Cedric Villani per la Francia (Donner un Sens à l’Intelligence Artificielle, 2018). A meno che non si pensi che le politiche strategiche in tema di innovazione si possano fare con la Cassa Depositi e Prestiti e la sua abbondante, ma non illimitata, liquidità. Si tratta di una tentazione ricorrente dell’élite politica italiana. Nell’ambiente competitivo odierno potrebbe rivelarsi distruttiva, tenendo presente che le politiche strategiche, attuate in tutti i Paesi più dinamici del mondo (Usa, Germania, Corea, Giappone) non si realizzano puntando solo alle quote di controllo societarie, ma anche e soprattutto alla chiarezza di un orizzonte strategico per determinare scelte progettuali ed operative.