Finalmente la lunga marcia verso Bruxelles del PNRR si è conclusa. Il documento è stato depositato presso la sede della Commissione europea all’ultimo momento, nella tarda serata del 30 aprile. Il rispetto delle scadenze permetterà all’Italia di ricevere già a luglio un anticipo di fondi che, tra prestiti e sussidi, dovrebbe aggirarsi intorno a 25 miliardi di euro. Il piano prevede investimenti per un totale di 191,5 miliardi di euro (68,9 dei quali in sovvenzioni e 122,6 in prestiti), ovvero il massimo delle risorse che sarebbe stato possibile richiedere a Bruxelles, ulteriori 30,6 miliardi sono parte del Fondo complementare statale.
Cosa faremo con tutti i denari messi a disposizione dalla UE? Conoscere il termine resilienza aiuta a mettere a fuoco la lettura del PNRR da vari punti, strategici, aspettative, ecc., visto che parliamo di qualcosa di straordinario. Per resilienza si intende “capacità di affrontare e superare un momento di difficoltà” e questo vale per le persone ma anche per un Paese. Importante capire questo aspetto, comprendere cioè, se il sistema Paese nella sua interezza e in particolare il decisore politico e non solo, perseguiranno la giusta via per arrivare in meta secondo questo principio di, appunto, resilienza. Magari iniziando dall’ascolto, coinvolgendo tutti coloro che sono in grado di dare un contributo e non lasciare questo compito e responsabilità ai soliti noti.
PNRR, serve lungimiranza
Un primo esempio, se parliamo di semplificazione, ascoltare anche noi e non solo professioni riconosciute nell’ambito di ordini professionali che sembra, come indicato più volte dal Ministro Renato Brunetta, avranno il compito di partecipare alla trasformazione della PA con l’obiettivo di renderla semplice e snella, efficiente e performante. Tutto dovrà essere valutato con lungimiranza guardando da qui a trent’anni e non solo all’oggi per la raccolta, magari, di un facile consenso opportunistico e non potremo affrontare in modo efficace i prossimi passi se, subito, non si sgombra questo punto prima ancora di parlare di progetti e loro esecuzione, sempre che riusciremo a produrli. Si perché è nota la nostra incapacità, molto spesso, anche nello spendere risorse è risaputa.
Un primo importante aspetto da osservare è che il Recovery Plan nello stile di Draghi si distingue da quello del suo predecessore per l’inquadramento complessivo che fa da premessa al documento. Una cornice che risulta coerente, senza ambiguità, reticenze e omissioni, con le raccomandazioni della Commissione europea su come promuovere la crescita, gli investimenti e il lavoro in maniera compatibile con l’equilibrio economico e finanziario complessivo del sistema paese. E che fa onestamente i conti con la realtà in cui ci troviamo all’avvio di questo nuovo percorso.
PNRR, ecco la formula per innovare la PA e sostenere le imprese
Un passo avanti seppur piccolo rispetto alle bozze del Piano licenziate dal governo Conte bis, se si considera che queste ultime inquadravano la situazione critica in cui si trova il nostro paese riconducendone le cause alla linea di rigore adottata nell’ultimo decennio dall’Unione Europea, secondo una visione accomodante, oltre che pericolosamente irrealistica, delle difficoltà e dei ritardi strutturali che caratterizzano la nostra situazione attuale, non a caso unica realtà europea che prima della pandemia non era ancora riuscita a superare le pesanti conseguenze della crisi economico – finanziaria del 2008. Troppo spesso ci lasciamo ammaliare dagli annunci in cui si parla di colpe che si annidano negli altri ma senza guardare prima di tutto al nostro interno e alla nostra incapacità di essere concreti ed efficaci nella nostra azione, colpe che in questo caso non potremo più dare all’Europa per esempio ma solo a noi stessi se non riusciremo ad arrivare in meta.
Il realismo del PNRR di Draghi
In questo senso, leggendo le prime pagine del nuovo Piano si respira un’aria diversa, un sano realismo che non nasconde né travisa le gravi condizioni in cui si trova il nostro paese, che è il presupposto più adeguato all’inevitabile presa di responsabilità necessaria per imprimere alla nostra rischiosa attuale direzione di marcia una decisa quanto definitiva sterzata. Raccogliere senza indugi, come si fa nel Piano di Draghi, l’invito della Commissione europea a concentrare gli sforzi e gli investimenti su ricerca e innovazione, infrastrutture digitali per garantire la fornitura di servizi essenziali a cittadini e imprese, e riforma della Pubblica amministrazione (per citare solo alcuni degli obiettivi contenuti nelle raccomandazioni di Bruxelles) significa mettere a fuoco i punti deboli che il paese deve rimuovere per riconquistare concretamente un orizzonte di crescita e sviluppo, assumendosi chiaramente la responsabilità di un loro definitivo superamento.
La governance del Piano
La governance del Piano, come proposto da Draghi e confermato nelle audizioni in Parlamento da parte del Ministro dell’Economia e delle Finanze Daniele Franco, sarà in capo al MEF, affiancato da un gruppo ristretto di consiglieri (interni ed esterni alla PA) e da due Comitati interministeriali, allo scopo di raccordare i programmi di azione con i due obiettivi trasversali del Piano, la transizione ecologica e quella digitale, a cui si aggiungeranno le diverse amministrazioni competenti per i diversi settori di intervento. Un modello tutto interno alla macchina amministrativa dello Stato.
Il governo Conte bis, nella Legge di Bilancio 2021, aveva viceversa ipotizzato di affidarne la gestione a una non meglio precisata “cabina di regia” di 300 esperti, cosa che ovviamente aveva del surreale: in un sistema nel quale vogliamo semplificare e controllare affidiamo a una pletora di pseudo esperti, chissà come selezionati. Questo aspetto è in parte superato anche se comunque vogliamo capire bene in cosa consiste, cabina, azione, ancorché canalizzata presso la Presidenza del Consiglio. Una scelta, quella del precedente Governo, che aveva destato non poche perplessità e molte polemiche ma che con questo passaggio superiamo e auspichiamo per sempre.
E questo è già un primo segno positivo, poiché l’implementazione di una piattaforma di riforme e investimenti così articolata e complessa non poteva per nessuna ragione al mondo essere “delegata” (con quale assunzione di responsabilità, poi?) a uno staff esorbitante per numero di componenti e totalmente estraneo alla Pubblica amministrazione. Sarebbe stato un fallimento in partenza. In primo luogo, perché ciò avrebbe sostanzialmente decretato l’incapacità della classe politica e della burocrazia a gestire il cambiamento del paese. In secondo luogo, perché avrebbe rappresentato il presupposto migliore per favorire un’implementazione delle politiche costellata da ostacoli giuridico-formali derivanti dalla separazione che si sarebbe nel frattempo consumata fra attuazione e amministrazione.
Un’occasione per rinnovare la macchina pubblica
Viceversa, seguendo un’indicazione che Sabino Cassese aveva suggerito un pò di tempo fa, sarà la stessa macchina politica, istituzionale e amministrativa dello Stato, ai suoi più alti livelli di direzione e indirizzo, a essere responsabile e dover rispondere dell’attuazione delle riforme e degli investimenti previsti dal Piano. E ciò permetterà di sapere chiaramente a chi dovremo rivolgerci se qualcosa non dovesse andare per il verso giusto. L’auspicio, a questo punto, è che tale governance rappresenti anche un’opportunità per accrescere il grado di responsabilità della macchina pubblica nei confronti di tutti noi, per innescare quel cambiamento, anzitutto culturale, nelle prassi e nei linguaggi, che dovrebbe permettere alla Pubblica amministrazione di avvicinarsi concretamente alle esigenze reali di cittadini e imprese, come da sempre avviene in ossequio alla tradizione del Civil service nei paesi anglosassoni.
Se infatti è vero che nel Recovery Plan tutti noi riponiamo grandi speranze e aspettative, e che nella ripresa del paese agevolata da questi fondi dovremmo ritrovarci tutti con idee e proposte per quanto possibile condivise, sarebbe opportuno fare di questa occasione un’opportunità per inaugurare un nuovo approccio al funzionamento della macchina pubblica, motore indispensabile del cambiamento che potrà risultare decisiva per la nostra ripartenza.
PNRR, serve confronto tra le parti
Una governance chiaramente delineata e ai massimi livelli di responsabilità non deve tuttavia significare una centrale operativa autocratico-verticistica. Ma deve risultare in grado di coinvolgere anche i livelli più direttamente esecutivi delle policy, in una logica di stretta interdipendenza fra i diversi soggetti coinvolti, speriamo tutti anche i meno noti ma vivi che sono presenti nel sistema economico del Paese, ciascuno rispetto al proprio ruolo e ai compiti che gli competono. Solo così sarà possibile determinare le condizioni necessarie a un’efficace implementazione del Piano. I problemi, infatti, non si risolvono semplicemente scrivendo un piano strategico o delineando una governance a tavolino.
Una governance è anzitutto una modalità di coordinamento concreto ed effettivo fra diversi attori, ciascuno chiaramente impegnato rispetto alle sue specifiche responsabilità esecutive. Sappiamo bene quanto ancora limitata sia la capacità della macchina amministrativa del nostro paese di spendere in maniera efficace ed efficiente risorse pubbliche anche quando queste ci sono: solo per fare un esempio, dei Fondi strutturali arrivati in Italia dall’Unione Europea fra il 2014 e il 2020 ne sono stati spesi poco meno della metà (46%), mentre circa un terzo (30%) non sono stai mai nemmeno impegnati. Come purtroppo l’esperienza ci insegna, dobbiamo quindi evitare il rischio che una macchina burocratica troppo lenta e pesante possa rendere assai complicato e difficile mettere a frutto i 191,5 miliari di euro che ci saranno assegnati. Quella contro il Covid-19 è una guerra e poiché il Recovery Plan è la nostra occasione unica e straordinaria per una ricostruzione paragonabile a quella post-bellica non possiamo e non dobbiamo sbagliare. Non possiamo tollerare errori e sconti, su questo fronte; non possiamo più consentirli.
Una buona governance dovrebbe permettere sia un più efficace coordinamento delle azioni sia l’insorgere di quegli intoppi burocratici, frequentemente addotti ad alibi, che troppo spesso abbiamo visto avere la meglio sulla realizzazione dei progetti di riforma. Anche per questo abbiamo il bisogno estremo di avere persone che sappiamo guardare avanti di decenni. Si, dico persone, perché poi sono le persone che fanno le rivoluzioni e questa, dobbiamo considerarla tale, una rivoluzione di sistema prima ancora che di contenuti e dove questi diventano solo il metro di misura sul quale poterci misurare alla fine.
PNRR e innovazione
“Innovazione” è una parola chiave del Piano, ma è anche un concetto semanticamente molto ampio, che talvolta viene inteso più in termini strumentali che culturali. Innovare è anzitutto cambiare la prospettiva, per creare nuovo valore, non semplicemente avvicendare uno strumento tecnologicamente ormai obsoleto con uno nuovo. Può corrispondere a cambiare una linea produttiva per migliorare un prodotto o un servizio e di conseguenza la performance di un’impresa, ma può voler dire anche eliminare del tutto una linea produttiva per far posto a un’altra che si ritiene possa rispondere meglio ai bisogni e alla domanda di una società che cambia. E non bisogna mai dimenticare che l’impatto dell’innovazione ricadrà comunque e sempre sulla persona.
Per fare un esempio, “delocalizzare” può corrispondere a un’innovazione per qualcuno, ma ciò non sempre equivale a creare nuovo valore. Visto che siamo in gioco per costruire un nuovo futuro, dobbiamo farlo a partire da solide basi. Dobbiamo perciò indicare regole precise, stabilire quali saranno i destinatari che, direttamente o indirettamente, fruiranno al meglio di questo straordinario piano di investimenti. E ciò andrà fatto quanto prima, cioè non appena da Bruxelles arriverà il via libera definitivo al nostro Piano. Fondamentale ai fini dell’innovazione, a maggior ragione rispetto al suo reale impatto dal punto di vista culturale, sarà aggiornare le competenze delle risorse umane. E su questo terreno la spinta verso la transizione digitale, che nel nostro paese in questo ultimo anno di pandemia ha sperimentato un’utile anche se forzata accelerazione, rappresenta certamente una grande opportunità da cogliere. Anche se tale opportunità può rappresentare un momento di avanzamento e crescita per il nostro paese soltanto qualora non si lasci indietro nessuno, qualora le potenzialità di portali e algoritmi vengano dispiegate al servizio di tutti, a partire da coloro che ancora oggi sono costretti a scontare ritardi in termini di digital divide. Va tutto bene, purché innovare non sia un alibi per dimenticare qualcuno sulla spinta di questa grande opportunità che l’innovazione ci dà.
PNRR e rivoluzione della PA
Le politiche di innovazione nel campo della Pubblica amministrazione e a favore delle attività produttive, la Prima missione del Piano (M1), relativa a “Digitalizzazione, innovazione, competitività e cultura”, si riscontrano alcune sensibili variazioni rispetto all’ammontare delle risorse destinate. In generale, all’intera Prima Missione sono assegnati 40,32 miliardi di euro, tre miliardi in meno rispetto alla versione del Recovery Plan proposta dal governo Conte bis. Rispetto al dettaglio relativo alle tre componenti funzionali della missione, alla digitalizzazione e innovazione della Pubblica amministrazione vengono assegnati 9,75 mld di euro, contro gli 11,45 miliardi riconosciuti dal precedente esecutivo; mentre alla digitalizzazione, ricerca, sviluppo e innovazione del sistema produttivo vengono attribuiti 23,89 mld di euro, rispetto ai 26,73 miliardi di prima; e 6.68 miliardi alla cultura. Sebbene occorra sottolineare che si tratta semplicemente di adeguamenti di stima e non di cambiamenti motivati sulla base di scelte politiche del governo.
PA e cittadinanza digitale, la svolta (con il PNRR) è davvero possibile
L’Italia, infatti, ha sempre inteso richiedere il massimo delle risorse possibili, che tuttavia per una parte sono determinate in base all’andamento del PIL nel biennio 2020/2021, secondo quello che sarà il suo ammontare reale per come verrà a suo tempo stabilito (entro il 30 giugno 2022) dalle statistiche ufficiali, ma che ovviamente in questo momento è ancora l’esito di stime (che per l’Italia equivalgono al limite massimo del 6,8% del reddito nazionale lordo, secondo gli accordi presi con la Commissione europea). La Prima missione viene quindi declinata secondo tre Componenti fondamentali: digitalizzazione, innovazione e sicurezza nella Pubblica amministrazione; digitalizzazione, innovazione e competitività nel sistema produttivo; turismo e cultura.
L’importanza di Transizione 4.0
Per quel che concerne il sostegno all’innovazione digitale ai fini di una maggiore competitività del sistema produttivo, cioè la seconda Componente (M1C2), centrale resta il programma Transizione 4.0, con i relativi obiettivi già previsti da questo piano di azione in passato, ossia l’aumento della propensione all’investimento delle imprese in nuovi beni capitali tecnologicamente avanzati, l’incentivazione della spesa privata in ricerca e sviluppo e il sostegno alle attività di formazione rispetto alle competenze digitali. Così come vengono confermate le previsioni dell’ultima Legge di Bilancio, rispetto all’aumento delle aliquote e dei massimali di agevolazione fiscale.
Sempre in linea con quanto già previsto nella bozza precedente del PNRR, oltre che con le previsioni della Legge di Bilancio, anche le disposizioni relative al credito di imposta per gli investimenti in ricerca e sviluppo, impresa 4.0 e design. Da ultimo, sono stanziati 6,71 miliardi di euro per portare entro il prossimo decennio a una connettività da 1 Gbps e alla piena copertura 5G tutte le aree popolate del paese, in modo tale da ridurre il digital divide, e altre importanti risorse per potenziare i sistemi a tecnologia satellitare (1,49 mld) e per l’internazionalizzazione delle imprese italiane (2 miliardi circa).
In buona sostanza, la rilevanza che assume Transizione 4.0 nel Piano sembra sia intesa confermare l’indirizzo scelto dagli ultimi governi, indipendentemente dal loro colore politico, nel sostenere gli investimenti in progetti di innovazione digitale attraverso l’accesso ai fondi di investimento e l’incentivazione fiscale. In una prospettiva che trova ulteriori conferme nella linea di intervento relativa al Fondo di Garanzia e alla digitalizzazione delle Piccole e medie imprese, dove peraltro ci si propone anche un obiettivo ambizioso, quale il superamento di quella frammentazione del sistema imprenditoriale italiano che da molto tempo costituisce un evidente freno alla crescita. Ma poiché tale frammentazione è di fatto un dato strutturale del nostro sistema produttivo, per superarla occorre anche eliminare le distorsioni del sistema amministrativo che, per esempio, consolidando procedure di autorizzazione simili attraverso prassi profondamente diverse (spesso da comune a comune), finiscono col produrre sull’economia effetti che interagiscono negativamente con la frammentazione del sistema produttivo, rendendolo ancor meno efficiente.
PNRR e la sfida di Transizione 4.0: innovare per il rilancio del Paese
Il fronte Ricerca e sviluppo
Tuttavia, sul fronte decisivo della ricerca e sviluppo, sarebbe anche necessario rendere più chiaro e determinato il concetto di software, che troppo spesso rinvia a interpretazioni non sufficientemente estensive. In un’epoca in cui l’ICT è sempre più diffusa, il software non è solo uno strumento, ma diventa anche un servizio. E solo riconoscendone la natura anche come servizio sarà possibile incentivarne l’uso e controllarne seriamente gli esiti rispetto alla destinazione di risorse, superando così quegli ostacoli che ancora oggi permangono, a causa di un’utilizzazione che in troppi casi resta appannaggio esclusivo di grandi organizzazioni strutturate, a scapito di un libero e semplice accesso e, di conseguenza, della produzione di maggiore valore e crescita.
I fattori della ripresa
Più in generale, risulta chiaro come la Seconda componente della Prima missione (M1C2) si inquadri in una prospettiva di rigenerazione della catena di valore del nostro sistema delle imprese nella fase post Covid-19. La ripresa dipenderà in larga misura dalla capacità di essere veloci, flessibili e resilienti di fronte al nuovo scenario economiche che avremo davanti e il fattore tempo risulterà decisivo per la sopravvivenza delle imprese. E per quanto riguarda il nostro paese sarà ancora più in salita. Non dobbiamo infatti dimenticare come in questo momento la nostra economia si trovi in una sorta di “bolla”, sospesa fra un passato che non l’aveva ancora vista uscire dalle conseguenze negative della crisi economico-finanziaria del 2008 e un futuro ricco di asperità e incognite (molte imprese che in questi mesi sono state costrette a rallentare o sospendere le loro attività saranno, con il ritorno alla normalità, al di sotto del loro break-even point). Di fronte alle sfide della ripresa post pandemia il fattore tempo potrà anche essere decisivo.
Per rigenerare la catena del valore sarà perciò necessario sfruttare in maniera sinergica l’insieme delle misure che, dai voucher per gli Innovation Manager a Transizione 4.0, sono state messe in campo nel corso degli ultimi tre anni. E su questo elemento ci permettiamo di sollecitare il Governo e il Mise, direttamente competente su questo registro che lo stesso Mise ha istituito. Un sistema che ha consentito di accelerare la progettazione ed esecuzione di migliaia di progetti che forse senza questo nuovo sistema di gestione non sarebbero stati portati avanti dalle imprese, spesso rallentate dall’accedere a finanziamenti, dalla difficolta burocratica più che dall’impresa stessa. Pertanto sollecitiamo una rivalutazione di quello schema che può e deve essere migliorato, certamente, ma sicuramente potrebbe esser un modello vincente per essere veloci e pratici.
Il valore delle competenze
Ma soprattutto, se la catena del valore dovrà essere riprogettata in una prospettiva ICT, sarà necessario farlo senza aspettare che nel frattempo le competenze digitali di base e avanzate possano diffondersi a sufficienza, ma supportando concretamente la loro progressiva crescita e diffusione nel tempo, ma senza lasciare indietro nessuno visto che non tutti oggi hanno maturato le corrette competenze che vanno aiutati, non dimenticati o esclusi. Stando infatti ai dati dell’ultimo Rapporto DESI (Digital Economy and Society Index), l’Italia occupa complessivamente il terzultimo posto fra i 28 stati dell’Unione Europea, evidenziando un distacco molto ampio soprattutto rispetto al cosiddetto capitale umano, relativo alla diffusione di competenze informatiche. Occorrerà sfruttare tutte le opportunità disponibili, mettendo a sistema le conoscenze digitali di cui il sistema produttivo dispone già oggi, a partire dal mondo professionale, che in questo momento può vantare capacità digitali più avanzate e diffuse rispetto al complesso del mondo delle imprese. Soltanto una stretta alleanza fra sistema produttivo e mondo delle professioni, tradizionali e non, potrà permetterci di imprimere un’accelerazione al lungo percorso che ancora ci resta da compiere sulla strada della transizione digitale.
Verso una PA semplice e connessa
Come abbiamo in più occasioni sottolineato, il completamento con successo della transizione digitale del sistema produttivo implica una altrettanto efficace transizione digitale della Pubblica amministrazione. E anche sotto questo profilo, il PRNN di Draghi ricalca sostanzialmente quello dell’esecutivo precedente. Tutte le linee di intervento relative alla Prima componente della Prima missione (M1C1), finalizzata alla digitalizzazione e innovazione della Pubblica amministrazione, rivestono un’importanza fondamentale, comprese quelle relative al miglioramento del sistema giudiziario. Ma è soprattutto quella inerente alla realizzazione di una “PA semplice e connessa”, per com’era denominata nelle bozze del precedente governo, che nel Piano dell’attuale esecutivo si ritrova soprattutto negli investimenti in servizi digitali, cittadinanza digitale e infrastrutture digitali che risulterà strategica nel favorire la rigenerazione della catena del valore del sistema produttivo.
Come peraltro si può desumere anche dall’entità delle risorse assegnate, rispettivamente pari a 2,01 miliardi per quanto riguarda servizi e cittadinanza digitale e a 900 milioni per quel che concerne le infrastrutture digitali. Semplificazione delle procedure amministrative, soprattutto quelle che prevedono adempimenti autorizzativi, digitalizzazione nei processi di interfaccia con cittadini e imprese, velocizzazione delle pratiche più complesse, da realizzarsi entro un sistema di monitoraggio in grado di misurarne concretamente l’impatto sui destinatari, oltre che gli effetti a medio e lungo termine sulla produttività del sistema delle imprese e sulla competitività complessiva del sistema paese, restano i punti più qualificanti dell’intervento sulla macchina amministrativa dello Stato. Ci stupisce però leggere in rapporto alla Missione 1C1 Semplificazione (2 innovazione alla voce Riforma 2.2 Semplificazione) non ci siano importi stanziati.
Siamo confidenti ciò sia dovuto solo alla scelta espositiva dei numeri e che non sia valorizzata considerando la “riforma” un insieme di azioni che trovano pertanto finanziamento in vari comparti e misurata solo conseguenza di queste, ma certamente non aver quantificato qui un importo chiaro non ci consente di esprimere un parere su un ambito che conosciamo molto bene. Ad esempio per quanto attiene il Decreto Semplificazione nr. 76/2021 che all’articolo 15 prevedeva espressamente una ricognizione degli adempimenti, tra l’altro imponendo una prescrizione, sentite le associazioni di categoria e professionali, che fine ha fatto all’interno di questo imponente piano?
L’intermediazione
Ad esempio sul tema adempimento, la nostra proposta, introdurre un elemento, l’attestazione di buona gestione di una pratica, quando si parla di intermediari come nel nostro caso. Risorsa, l’intermediazione, che dobbiamo utilizzare e non demonizzare come avviene fin troppo spesso e in primo luogo dalla stessa p.a. che probabilmente vede in queste figure degli antagonisti, senza invece capire che sono collaboratori e possono concorrere a migliorare la stessa PA.
L’impatto sugli enti pubblici
È chiaro che, come viene riconosciuto dallo stesso PRNN, la costruzione di una Pubblica amministrazione moderna all’altezza delle esigenze di una società moderna richiede non soltanto l’introduzione di piattaforme e servizi digitali, oltre a interoperatività e scambio di dati, ma anche un radicale cambiamento rispetto ai profili di competenza presenti nel personale amministrativo. Un terreno sul quale siamo ancora oggi in evidente ritardo, così come lo siamo nella diffusione di conoscenze digitali anche di base, non soltanto all’interno della burocrazia pubblica ma anche fra cittadini e imprese. Solo in anni recenti alcune amministrazioni pubbliche particolarmente lungimiranti hanno iniziato a tenere concorsi per la selezione del proprio personale indirizzandosi, verso la ricerca selettiva di competenze tecniche o specialistiche, rispetto alle quali le conoscenze amministrative e generaliste dell’attuale capitale umano della funzione pubblica risultano del tutto inadeguate.
Non sarà perciò una cosa facile da fare, soprattutto se si considera che l’apparato amministrativo dello Stato italiano, al di là dei Ministeri e degli enti centrali, conta più di ottomila comuni e 110 province, distribuite in 20 regioni. Se guardiamo le scadenze indicate nelle Schede tecniche del PNRR per la realizzazione delle linee di azione per la transizione digitale della PA (e – detto per inciso – dobbiamo rallegrarci che finalmente il PNRR preveda la declinazione dei suoi obiettivi secondo chiare tempistiche), i tempi sono complessivamente abbastanza stretti: per fare un esempio, la creazione dei cosiddetti “presidi digitali” nelle aree del paese dotate di minore connettività è prevista per il primo quadrimestre del 2024, cioè fra circa tre anni. È quindi chiaro che si tratta di realizzare un netto cambio di marcia, rispetto al quale non è affatto detto che l’amministrazione pubblica del nostro paese sia sufficientemente attrezzata. Ma allora, anche in questo caso sarà necessario mettere a sistema tutte le competenze digitali di cui il nostro paese può disporre.
Il ruolo dei professionisti delle pratiche amministrative
Su questo fronte, i professionisti delle pratiche amministrative possono da subito risultare particolarmente utili, nel processo di autorizzazione, svolgendo una funzione importante: quella di veri e propri “acceleratori” della transizione digitale, così come avvenuto negli ultimi oramai due decenni distribuendo firma digitale qualificata, Spid dal 2016 e vivendone la fase di avvio più complessa, gestendo pec, ma ancor più trattando adempimenti telematici a migliaia, sono l’esperienza che porta questo settore che per primo si è cimentato con applicazione pratica di cosa voglia dire digitale. Certo poi siamo caduti nella trappola, se parliamo di burocrazia, di pensare che innovare sia solo cambiare una attrezzatura, rendere un modulo cartaceo digitale, senza invece cambiare il metodo di gestirlo, pensarlo, organizzarlo quel modulo.
Innovare prevede un cambio radicale di paradigma per progettare a misura d’uomo, cioè pensando all’utente e non alla stessa PA, così non si farà semplificazione e il timore che ciò avvenga per noi è molto forte non avendo ad oggi avuto modo di esprimere le nostre idee e proposte. Abbiamo l’occasione di fare ordine ma spesso per fare ciò si parte dal tetto mentre dovremmo partire dalle fondamenta e in queste, assai spesso, ci sono cose semplici da fare e a costo zero.
La proposta: un procuratore telematico
A tale proposito, la nostra proposta resta quella del procuratore telematico. Una soluzione che ha già in diverse occasioni ricevuto l’attenzione del Parlamento, ma che non è ancora riuscita a concretizzarsi definitivamente. Il ricorso a competenze digitali e amministrative qualificate, già oggi attestate dal riconoscimento professionale conferito in virtù della Legge n.4/2013 a determinati servizi in grado di fungere da ausilio a cittadini e imprese nel loro rapporto quotidiano con le Pubbliche amministrazioni, potrebbe rappresentare un contributo concreto ed efficace ad assicurare maggiore celerità e certezza al cambiamento.