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PNRR, manca una vera strategia per la Ricerca: tutti gli errori (che pagherà il Paese)

Se, come ha detto Mario Draghi, “non si spendono bene i soldi senza riforme”, la mancata implementazione sostanziale del Piano Amaldi nel PNRR è un grave errore che il Paese pagherà negli anni a venire. Vediamo perché

Pubblicato il 07 Mag 2021

Federico Ronchetti

ricercatore presso Istituto Nazionale Fisica Nucleare, attualmente responsabile delle operazioni dell'esperimento ALICE al CERN

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Il Piano nazionale di ripresa e resilienza preparato dal Governo di Mario Draghi è stato finalmente approvato dal Parlamento italiano. Sebbene diverse analisi mettano in evidenza miglioramenti rispetto alle bozze che erano circolate sotto il Governo Conte, non possiamo dire lo stesso per quanto riguarda la cosiddetta Missione 4 – Componente 2, ossia quella che tratta della ricerca scientifica di base e applicata. La nota negativa è relativa all’impianto di questa parte del Pnrr: esso mantiene essenzialmente inalterata la struttura della bozza redatta dal Governo Conte e non recepisce minimamente la proposta programmatica contenuta nel Piano Amaldi. Infatti, il Piano Amaldi, oltre alla parte meramente finanziaria, mirava a una profonda riforma del sistema della ricerca scientifica pubblica, articolata in quattro punti:

  • Aumento del numero dei ricercatori e allineamento degli stipendi agli standard Eu; sburocratizzazione del sistema ricerca attualmente soggetto a tutti i vincoli della Pa.
  • Istituzione di bandi competitivi per progetti di grande rilevanza scientifica sia individuali (sul modello Erc) che istituzionali.
  • Potenziamento delle infrastrutture di ricerca esistenti e costruzione di nuove infrastrutture.
  • Creazione di un network territoriale per il trasferimento tecnologico verso le imprese sul modello del Fraunhofer tedesco.

Ricerca pubblica: perché l’Italia deve accelerare sul #PianoAmaldi

Chiaramente il Piano di rilancio non può essere un disegno di legge di riforma della ricerca scientifica pubblica tuttavia, come detto sopra, nella strutturazione dei capitoli e nel profilo temporale di spesa non si riflette assolutamente nessuna delle linee guida previste dal Piano Amaldi malgrado questo si sia consolidato in una proposta programmatica precisa anche attraverso un lungo dibattito pubblico che ha visto protagonisti alcuni tra i maggiori scienziati italiani. Sembra poco comprensibile che né l’ex ministro dell’università e della ricerca Gaetano Manfredi prima, né la ministra Maria Cristina Messa poi si siano fatti carico di portare in modo forte e deciso questa istanza al ministro dell’Economia e allo stesso Presidente del Consiglio.

Mario Draghi ha infatti dichiarato che “non si spendono bene i soldi senza riforme” e quindi la mancata implementazione sostanziale del Piano Amaldi nel PNRR è un grave errore che il Paese pagherà negli anni a venire.

È stato infatti ripetuto infinte volte che la ricerca scientifica è il motore principale dello sviluppo economico e non a caso i paesi che hanno crescite sostenute investono il 3% del Pil in ricerca, come infatti raccomanda la commissione EU (senza contare paesi come Israele e la Corea del Sud che investono in ricerca cifre ancora maggiori). A oggi l’Italia investe in ricerca solo l’1.4% del Pil e in ricerca pubblica di base e applicata circa lo 0.5% (9 miliardi di cui 6 in ricerca di base e 3 in ricerca applicata).

Ricerca nel PNRR: manca una vera strategia

Il Piano Amaldi si proponeva di arrivare in sei anni a investire l’1% del Pil (circa 20 miliardi l’anno) per agganciare in termini relativi la spesa in ricerca pubblica tedesca. A ottobre, l’allora Ministro Manfredi si impegnò per allocare risorse, in 5 anni, per arrivare a 15 miliardi/anno ma poi, come si è detto, nella Bozza del Pnrr prodotta durante il suo mandato (e sostanzialmente ereditata dalla Ministra Messa) non si trovano cifre confrontabili. Nella versione approvata dal Parlamento, se si sommano le voci mappabili sul Piano Amaldi, si arriva, per la ricerca di base, a circa 5 miliardi fino al 2026 di cui molto poco rimane come spesa strutturale: si stima che si passerebbe dall’attuale 0.5% del Pil allo 0.57%. Gli altri 5 miliardi del Pnrr vengono destinati alla ricerca applicata e al trasferimento tecnologico, ma anche qui senza un vero e proprio modello e una strategia chiara. Risorse cospicue vengono messe sui Competence Center che si sono rivelati un modello poco efficiente per il trasferimento tecnologico essendo molto mirati al project management e mancando di infrastrutture proprie e soprattutto di personale tecnologo specializzato ad interfacciare il mondo dell’accademica con quello delle imprese.

Nuovi centri di eccellenza vengono creati con probabili sovrapposizioni con enti già esistenti come CNR, ENEA, INFN e IIT. Ancora, i Campioni Territoriali di R&S (ben 9 centri) che dovrebbero assomigliare agli High Performance Centers del Fraunhofer tedesco in realtà sembrano entità a sé stanti non inserite in un vero network di cui non si capisce nemmeno a chi spetterebbe la governance. Sembra che i 5 miliardi per questa componente siano spesi senza una vera strategia, o comunque siano insufficienti se si prendono seriamente le implicazioni insite nel dispiegamento di una simile quantità di nuovi enti e centri di ricerca. In definitiva, la mancata ricezione da parte del Governo del Piano Amaldi, come base programmatica di riforma e proposta di allocazione delle risorse del comparto ricerca, è ingiustificabile visto l’excursus temporale (la campagna del Piano Amaldi partiva giusto un anno fa) del dibattito pubblico e l’autorevolezza dei proponenti.

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La (frammentata) rete della ricerca italiana

Lungi da avere un vero e proprio sistema della ricerca, l’Italia presenta una serie di stratificazioni che si sono accumulate negli anni senza una vera logica di sistema perché ogni volta si è pensato di intervenire all’interno di un singolo “dominio” con una logica tutto sommato clientelare. Infatti, in Italia ci sono 97 Università, di cui 67 statali, 19 non statali ma legalmente riconosciute e 11 Università non statali telematiche legalmente riconosciute.

Inoltre ci sono ben 23 Enti Pubblici di Ricerca (EPR) con 14 enti vigilati dal Mur (tra i quali, il Consiglio Nazionale delle Ricerche – CNR, l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare – INFN e l’Agenzia Spaziale Italiana – ASI); 6 vigilati da altri ministeri (tra i quali, l’Istituto Superiore di Sanità – ISS vigilato dal Ministro della Salute e l’Agenzia Nazionale per le Nuove Tecnologie, l’Energia e lo Sviluppo Economico Sostenibile per le Energie – ENEA vigilata dal Ministero dello Sviluppo Economico); 3 non vigilati direttamente (tra i quali, la Fondazione Istituto Italiano di Tecnologia – IIT sottoposta alla vigilanza congiunta del Mur e del Ministero dell’Economia e delle Finanze e Human Technopole – HT sottoposto alla vigilanza del Ministero dell’Economia e delle Finanze, del Ministero della Salute e del Mur). Oltre agli Epr troviamo 51 Istituti di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico (IRCCS), di cui 21 sono pubblici e 30 privati, tutti sottoposti sotto la vigilanza del Ministero della Salute. Alla composizione della “rete” della ricerca partecipano anche i 10 Istituti Zooprofilattici Sperimentali (IIZZSS) e i 23 Parchi Scientifici e Tecnologici che sono presenti su tutto il territorio nazionale.

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Trasferimento tecnologico, questo sconosciuto

Al contrario, manca invece un attore coordinato centralmente ma dispiegato territorialmente che si occupi in modo strutturato di trasferimento tecnologico verso il mondo delle imprese. In passato si è tentato di attribuire questo ruolo a Epr come CNR e IIT che chiaramente non hanno questa mission nel loro Dna come è facile capire analizzando la struttura dei loro finanziamenti quasi tutti provenienti da fondi pubblici e ben poco da servizi alle imprese. Per un confronto, il network tedesco del Fraunhofer vede solo 1/3 del suo bilancio provenire da stato centrale e lander mentre 1/3 deriva da bandi competitivi nazionali (che l’Italia non ha) e 1/3 da servizi alle imprese.

Non esiste alcuna integrazione reale tra industria e ricerca scientifica capace di interconnettere le due gambe del sistema (ricerca pubblica di base e applicata) e ricerca industriale mirata all’innovazione. La barriera è bi-direzionale e ostacola un efficace processo di trasferimento tecnologico e valorizzazione economica della ricerca da parte del sistema industriale.

L’unica esperienza di carattere nazionale, ma a vocazione specificamente locale, che rappresenta un tentativo di coinvolgere la ricerca pubblica nello studio delle esigenze dell’impresa, è la sperimentazione dei Competence Center con tutti le limitazioni che sono già state illustrate sopra.

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L’elevato numero di tentativi in relazione di realizzare un vero trasferimento tecnologico in Italia ha sempre fallito perché si è tentato di cambiare la mission di realtà esistenti o si sono aggiunte ulteriori realtà senza una logica di sistema. Spiace dire che nel Pnrr si continua a commettere lo stesso sbaglio creando nuovi Enti o Centri che vanno a sovrapporsi in gran parte a ciò che già esiste e i cui scarsi risultati raggiunti sono dovuti l’assenza totale di coordinamento tra gli stessi.

Al riguardo ricordiamo le principali esperienze di carattere nazionale nell’ambito del trasferimento tecnologico:

• 2016 – Istituzione della “Fondazione Amaldi” da parte dell’ASI – Agenzia Spaziale Europea e il Consorzio Hypatia – Consorzio di ricerca sulle tecnologie di sviluppo sostenibile, che opera come advisor per il Fondo “Primo Space” nato da un investimento di Cassa Depositi e Prestiti e Fondo Europeo per gli Investimenti (stanziamento 58 milioni di euro);

• 2017 – Istituzione del programma “ITAtech” da parte di Cassa Depositi e Prestiti e Fondo Europeo per gli Investimenti (stanziamento 200 milioni di euro);

• 2019 – Istituzione del “Consorzio per la valorizzazione dei risultati della ricerca pubblica e il trasferimento tecnologico” da parte del Ministero dell’Università e Ricerca, CNR, CRUI e Confindustria (stanziamento 4 milioni di euro);

• 2019 – Istituzione del “Bando per il finanziamento di progetti di potenziamento e capacity building degli Uffici di Trasferimento Tecnologico (UTT) delle università italiane, degli enti pubblici di ricerca italiani e degli istituti di ricovero e cura a carattere scientifico” da parte del Ministero dello Sviluppo Economico e del Ministero della Salute (stanziamento 7 milioni di euro);

• 2019 – Istituzione del “Fondo Nazionale Innovazione” da parte di Cassa Depositi e Prestiti e Invitalia su proposta del Ministero dello Sviluppo Economico (stanziamento 1 miliardo di euro);

• 2020 – Istituzione della “Agenzia Nazionale per la Ricerca”, su proposta della Presidenza del Consiglio dei Ministri (focalizzata sul finanziamento e sulla valutazione della ricerca con una dotazione pari a 25 milioni per il 2020, 200 milioni di euro per il 2021 e 300 milioni di euro annui a decorrere dal 2022 come stabilito dalla Legge di Bilancio 2020 – L. 160/2019);

• 2019 – Istituzione del “Centro per l’innovazione e il trasferimento tecnologico nel campo delle scienze della vita” da parte della Fondazione Human Technopole vigilata dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri e dal Ministero della Salute (stanziamento previsto con DL n. 34 del 2020 pari a 10 milioni per il 2020 e pari a 2 milioni annui a decorrere dal 2021);

• 2020 – Istituzione della “Fondazione ENEATech” da parte del Ministero dello Sviluppo Economico ed ENEA – Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile (stanziamento previsto con DL n. 34 del 2020 pari a 500 milioni di euro).

Queste iniziative sono solo una parte dell’insieme delle iniziative intraprese nel tema della “valorizzazione” della ricerca e non tengono conto delle numerose stratificazioni dovute a iniziative regionali. Ora che l’occasione del Pnrr sembra persa è necessario che Governo e Parlamento affrontino la questione ricerca in modo strutturale, varando un disegno di legge opportuno che superi sia le resistenze del mondo accademico verso la ricerca applicata e il trasferimento tecnologico che quelle del mondo industriale verso la ricerca di base pubblica.

A sua volta la ricerca pubblica va riorganizzata profondamente eliminando stratificazioni, duplicazioni, inefficienze e dotata di una vera governance di sistema.

Fonte dei dati sul sistema della ricerca: Associazione Spazio Aperto

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