Un aforisma di Pasteur afferma: “La Fortuna aiuta la mente preparata”. Una premessa latente dell’aforisma è che la prima non dipende da noi, la seconda invece dalla nostra capacità di giudizio e dalle nostre ambizioni, nel senso di ciò che si intende raggiungere.
Questa considerazione richiama esplicitamente un noto libro di antica saggezza, ispirato dalla filosofia stoica, il Manuale di Epitteto (Einaudi, 2006): “Tra le cose che esistono, le une dipendono da noi, le altre non dipendono da noi. Dipendono da noi: giudizio di valore, impulso ad agire, desiderio, avversione, e in una parola tutti quelli che sono propriamente fatti nostri. Non dipendono da noi il corpo, i nostri possedimenti, le opinioni che gli altri hanno di noi, le cariche pubbliche, e in una parola tutti quelli che non sono propriamente fatti nostri”.
L’aforisma di Pasteur e l’antica saggezza stoica dovrebbero ispirare le élites politico-istituzionali, elette con voto popolare, quando si apprestano a tradurre le loro visioni in azioni strategiche reali, specie tenendo presenti le conseguenze di medio-lungo termine.
Qualora si scelga prevalentemente un orizzonte di breve periodo e non si tenga presente l’aforisma iniziale, le probabilità di innescare dinamiche caotiche aumentano in modo esponenziale. Il quadro finora delineato diviene ancora più complesso e ifndeterminato se proiettiamo le considerazioni di Epitteto su volontà non di singoli individui, bensì su aggregati eterogenei di persone con prospettive molto differenti tra loro, per non dire in qualche caso opposte. Ciò non deve indurre a ritenere che si sia destinati all’inazione, al contrario occorrerebbe incrementare gli sforzi per distinguere quanto suggerisce Epitteto, facendo leva su meccanismi di intelligenza collettiva. Quest’ultima potrebbe infatti aiutare da un lato a comprendere vincoli e potenzialità, sintonie e contraddizioni, e dall’altro a porre limiti alle proprie ambizioni che, data la natura defettibile degli esseri umani, tendono di tanto in tanto a superare l’immaginabile.
Le considerazioni finora svolte sono indotte dalla lettura dei recenti documenti governativi: Documento di Economia e Finanza (DEF), Nota di Aggiornamento del DEF (NADEF), Legge di Bilancio (LB). La lettura richiede la dovuta pazienza e una esplicita propensione all’auto-flagellazione a causa talvolta dell’elevato, ma inevitabile, tecnicismo giuridico e della universale tendenza, comune un po’ a tutti i Governi succedutisi negli anni, a comporre un racconto minuzioso dell’Universo-Paese, per cui alla fine i dettagli contano molto più delle enunciazioni generali. Comunque sia, al di là di ogni stima e valutazione, dobbiamo cercare di tenere fermi alcuni capisaldi, tra cui in primo luogo la distinzione tra le cose in nostro potere e quelle che non lo sono.
Fattori destabilizzanti sullo scenario internazionale
Riferendoci al quadro macro-economico tracciato nel DEF, tra le seconde sono certamente da annoverare i fattori di livello internazionale, che rendono problematica l’elaborazione di stime molto positive a livello nazionale. Siamo infatti nell’era dell’incertezza globale, come sostengono autorevoli Centri di Ricerca Internazionali:
- guerra dei dazi USA-Cina;
- esplicito avvio di una nuova corsa al riarmo nucleare e all’impiego di nuovi, sempre più sofisticati strumenti bellici;
- un volume di attività finanziarie globali superiore a 10 volte il Pil mondiale;
- progressivo esaurirsi dell’efficacia anticiclica delle politiche di Quantitative Easing delle Banche Centrali più importanti;
- probabili effetti dirompenti dell’imminente rialzo dei tassi di interesse sul debito pubblico di Paesi come il nostro e sui Paesi asiatici fortemente indebitati in dollari.
- Per non parlare poi delle imprese global player, che hanno effettuato investimenti a debito denominati in dollari e quindi rischiamo di avere profili di redditività insufficienti per il rimborso.
Potrebbero essere aggiunti ulteriori fattori destabilizzanti, ma ci limitiamo a sottolineare questi aspetti, che sono certamente tra le cause più importanti del rallentamento in atto in molte economie, persino di quella tedesca.
I paradossi dell’economia Usa
Al tempo stesso non deve sorprendere la significativa ripresa USA, alimentata nel breve dall’imposizione di dazi e soprattutto da una riforma fiscale generosa per le imprese, ma forse nel medio-lungo periodo detonatore di un deficit pubblico denso di rischi. Qualcuno ricorda i twin deficit (pubblico e conti con l’estero), che hanno agito da potenti fattori causali dell’esplosione delle bolle crescenti del 2011 e del 2007-08? L’economia USA è peraltro densa di paradossi: c’è la piena occupazione (3,7% di disoccupati), ma non si manifestano tensioni eccessive su salari e prezzi, per non parlare del boom in atto dell’occupazione di persone anziane, che preferiscono all’ozio della pensione dopo decenni di lavoro un allettante job in catene di fast-food in sostituzione dei giovani (Bloomberg, 5-11-2018). Non è questa la sede per approfondire le vicende americane, ma bisognerebbe cercare di inquadrare bene lo scenario generale, ricco di elementi che esulano dalla portata delle nostre azioni e implicano che sarebbe necessario limitare le (giuste) ambizioni a una crescita economica più sostenuta che negli ultimi anni, ponderando attentamente le variabili in gioco, specie data l’importanza dell’export per il nostro Paese.
La conseguenza è che espone a rischi incontrollabili l’immaginare una possibilità autonoma di rilancio interno senza considerare potenziali effetti di retroazione di sequenze causali quali: aumento della spesa interna per consumi, aumento delle importazioni, aumento del debito pubblico e dei tassi di interesse, deflussi di capitali, contrazione degli investimenti, minore occupazione, riduzione della spesa per consumi. Naturalmente questa rappresentazione semplificata può dare origine ad una consistente quantità di modelli econometrici, a seconda delle assunzioni e delle ipotesi di stima delle varie sensibilità delle variazioni (in gergo: elasticità dell’import, degli investimenti rispetto al tasso di interesse, e così via).
Le scelte “anti europee” del Governo italiano
Un elemento rimane però indiscusso: pensare di poter isolare un’economia rispetto al contesto internazionale di interdipendenze è illusorio e dannoso. Qualche autorevole esponente del nostro Paese ha già avuto una significativa esperienza a riguardo. Yoram Gutgeld, allora definito “the most high profile economic mind behind Matteo Renzi” (Financial Times, 6-11-2014) dichiarava allo stesso autorevole giornale che la massiccia riduzione di tasse prevista dal Governo costituiva una vera e propria “atomic bomb”, insieme alla liberalizzazione del mercato del lavoro. Gutgeld tendeva a minimizzare le preoccupazioni europee per il debito pubblico italiano, fino ad affermare nel corso di un’intervista alla Reuters il 12-11-2015 che “l’economia italiana è immune rispetto alle difficoltà che potrebbe incontrare l’economia mondiale nei prossimi 12-24 mesi grazie ai tagli fiscali e alle riforme attuate” (trad. nostra). Wolfgang Munchau, importante editorialista del Financial Times tre giorni dopo (Italy’s recovery is not what it seems,15-11-2018) esprimeva un giudizio severo circa la “stupefacente affermazione di Gutgeld”: “The idea that a G7 club of rich nations is immune to global economy is ludicrous”. E’ difficile ipotizzare che Munchau sia stato ispirato dal Manuale di Epitteto, ma è però certo che pensare la dinamica di un solo Paese prescindendo da quanto accade negli altri è quantomeno velleitario e certamente dannoso nel medio periodo sul piano economico e politico. Anche a questo proposito l’Italia ha fatto recenti esperienze.
Ciò non significa che bisogna rassegnarsi all’impotenza, né lasciarsi condizionare da potenze aliene, bensì avere consapevolezza di ciò che è impossibile e del ventaglio di possibilità realmente esistenti, purché non si riducano anzitempo a causa di comportamenti non strategici, orientati a successi effimeri di breve periodo. Alla luce delle considerazioni finora svolte, appare innanzitutto fondato ritenere che nell’impostazione dei vari Documenti Governativi e nelle relazioni con le “vituperate” autorità europee siamo molto lontani anche dalla cultura strategica millenaria della Cina: “La politica migliore consiste nell’usare la strategia, il prestigio e l’andamento degli eventi per far sì che il nemico si sottometta spontaneamente” (Sun Tzu, L’Arte della Guerra, Ubaldini Editore, p. 67). E ancora: “L’abile comandante soggioga gli eserciti senza combattere, conquista le città senza assediarle, sconfigge le nazioni senza impegnarsi in operazioni eccessivamente lunghe” (ivi, p. 73). Questi frammenti vengono in mente quando si pensa alla preparazione del DEF e al rapporto con i “burocrati” dell’Unione Europea.
La scelta e l’enfatizzazione di ipotesi di uno scontro immediato è controproducente da molti punti di vista, ma ne sottolineiamo solo uno: hanno depotenziato un’alternativa di potenziale successo senza combattere, oppure con una battaglia minima, ai fini del raggiungimento di un consenso su un DEF più espansivo di quanto accettabile in sede europea. Le probabilità di successo di un’impostazione meno conflittuale e maggiormente strategica potevano essere maggiori se si pensa a quanto è scritto in una recente pubblicazione del Bruegel Institute, prestigioso think tank di Bruxelles. Un paper redatto da Andrè Sapir (High public debt in euro area countries: comparing Belgium and Italy, settembre 2018) mostra come politiche differenti abbiano prodotto in Belgio e in Italia risultati opposti: negli anni post-crisi del 2008 il rapporto deficit/Pil è sceso dal 140% al 100% in Belgio ed è rimasto sostanzialmente invariato in Italia. Nel primo sono state attuate strategie di politica economica meno conflittuali verso l’Europa e leggermente espansive; in Italia è avvenuto praticamente l’opposto, con un’accentuazione sulle politiche di austerità. Per inciso, il Bruegel Institute era fino all’anno scorso presieduto da Mario Monti, attualmente presidente onorario.
Una riflessione più attenta e una ricognizione sistematica avrebbe consentito alla nostra élite politico-istituzionale di avere menti più preparate e quindi di adottare comportamenti di maggiore efficacia nel confronto serrato con l’Europa. La Fortuna avrebbe poi sicuramente aiutato ai fini di un’accettazione meno contrastata di previsioni un po’ ottimistiche in merito al quadro macroeconomico. In questo caso possiamo parafrasare Epitteto e affermare con solido fondamento che ci è sfuggito qualcosa che era in nostro potere, mentre altri fattori da noi non controllabili possono rendere molto difficili i processi decisionali, togliendo essenziali spazi di manovra.
Def, Nadef e Legge di Bilancio
Veniamo allora a quanto nel DEF, NADEF e LB dovrebbe essere sotto il diretto controllo delle autorità nazionali. Ci soffermeremo soprattutto su temi inerenti alle politiche strategiche in materia di innovazione e investimenti. Una valutazione di ordine generale è che vi sono molti elementi del tutto condivisibili ed altri molto meno, in qualche caso addirittura discutibili. E’ innanzitutto doveroso mettere in evidenza che l’impostazione generale è in linea di continuità con quella del passato più e meno recente, con direttrici strategiche orizzontali, incentrate su tecnologie da introdurre mediante flussi di risorse materiali e immateriali. Non è ovviamente in discussione la rilevanza strategica delle tecnologie indicate (Intelligenza Artificiale, Blockchain, Internet of Things, 5G, ecc.) quanto il fatto che sarebbe a nostro avviso molto più efficace esplicitare un assetto strategico focalizzato (mission oriented, se si preferisce usare questa terminologia), che parta da grandi problemi del Paese, tra i quali su tutti i seguenti:
- riassetto idro-geologico.
- Realizzazione di sistemi infrastrutturali intelligenti ed energy saving (anche e soprattutto per prevenire disastri).
- Ristrutturazione del patrimonio edilizio esistente con finalità di consolidamento antisismico e risparmio energetico.
- Progettazione di living cities, mediante nuove tecnologie e modelli manageriali orientati al systems thinking.
E’ evidente che i quattro punti costituiscono veri e propri “dispositivi di focalizzazione” – per usare i termini introdotti da un autorevole studioso americano di processi innovativi – di tutte le tecnologie assunte “orizzontalmente” dai documenti governativi, ma che rischiano di disperdersi in mille rivoli, potenzialmente utili e al tempo stesso privi di direttrici organizzative. Peraltro sulla base di priorità strategiche ben definite si evita la onnicomprensività delle enunciazioni, foriere di risultati scarsamente misurabili.
Una ipotesi di architettura di governance tecnico-scientifica
Un ulteriore notevole vantaggio della presenza di dispositivi di focalizzazione progettuale sarebbe che le condivisibili ipotesi di creazione di una serie di task-force potrebbero costituire una vera e propria architettura di governance tecnico-scientifica, nel senso di coordinamento strategico multi-livello, dal nazionale al regionale e comunale.
Per tale via ciascuna task-force e la loro rete multi-livello svolgerebbero funzioni molto importanti:
- realizzazione e consolidamento delle direttrici strategiche focalizzate.
- Accelerazione di osmosi tra culture tecnico-scientifiche e manageriali all’altezza delle sfide emergenti nel XXI secolo: inquinamento, scarsità delle risorse energetiche, obsolescenza infrastrutturale, governo di realtà sempre più complesse come i sistemi urbani.
- Innesco di processi di riforma sostanziale della Pubblica Amministrazione, di cui autorevoli studiosi (su tutti il compianto Massimo Severo Giannini) dibattono da decenni senza risultati apprezzabili.
La specie di architettura qui abbozzata avrebbe un altro vantaggio: favorirebbe lo sprigionarsi di una forza propulsiva endogena all’apparato pubblico in merito ad un altro punto basilare e condivisibile del DEF, cioè il Partenariato Pubblico \Privato (PPP) che, senza un’adeguata tecno-struttura pubblica all’altezza, rischia di essere un “bipede implume alla mercé delle volpi”, come dimostrano molti episodi accaduti in Italia. Riprendendo ancora una volta gli elementi di saggezza stoica introdotti all’inizio, queste scelte dipendono da noi e potrebbero generare un effetto espansivo di notevole potenza: si pensi ai 150 miliardi in infrastrutture che non inciderebbero sull’indebitamento netto, 118 dei quali immediatamente attivabili (NADEF, p. 70, ma si veda anche la nota 3 nella stessa pagine, dove si afferma che da una ricognizione effettuata risulta che tra gli stanziamenti di somme superiori a 100.00 euro e l’effettiva consegna delle opere attualmente occorrono almeno 10 anni).
E’ evidente il depotenziamento strutturale degli investimenti pubblici, che potrebbero essere invece accelerati da un’architettura di task-force focalizzate, senza la quale le misure di rilancio attraverso investimenti pubblici rischiano di essere ininfluenti nel breve periodo. Proprio la consapevolezza di quest’ultimo punto spinge attualmente verso azioni immediate sul lato dei consumi che, pur importanti sul piano individuale e collettivo, perché possono alleviare condizioni precarie di vita, nel medio-lungo periodo possono avere effetti deleteri, sui quali il dibattito teorico e politico è molto acceso.
I paradossi del piano economico del Governo
Riprendendo ancora una volta i punti iniziali, ci limitiamo a segnalare altri due punti deboli, desumibili dal DEF e dalla LB. Ci riferiamo innanzitutto al fatto che il divario troppo elevato tra le visioni della compagine governativa rischia di generare situazioni talmente contraddittorie da portare ad interventi normativi fuori controllo.
In termini espliciti, flat tax, reddito di cittadinanza, incentivi per l’innovazione e il risparmio energetico, misure a tutela dei risparmiatori costituiscono un ”quadrilemma” di elementi non conciliabili, per cui l’impossibilità di realizzarli simultaneamente è destinata a generare l’incontrollabilità dei risultati, quindi esiti dannosi e deludenti. In effetti la struttura degli incentivi per l’innovazione è stata modificata con riduzioni significative rispetto al Piano Industria 4.0, per quanto concerne sia il superammortamento e l’iperammortamento, sia la sostituzione del credito d’imposta per la formazione con agevolazioni per assunzioni di manager per l’innovazione.
Questi aspetti sono già stati efficacemente discussi in numerosi contributi apparsi su Agendadigitale.eu.
Intendiamo mettere qui in luce a un aspetto fondamentale, che attiene non tanto al fatto che le norme in questione avevano già prodotti effetti positivi sul piano degli investimenti, quanto a due elementi cruciali, tra loro strettamente connessi:
- se il DEF sostiene la strategicità delle tecnologie prima indicate e l’importanza delle PPP, l’indebolimento degli incentivi è auto-lesionistico, perché gli assunti di partenza richiederebbero l’opposto.
- Se l’orizzonte strategico è da un lato caratterizzato da Industria 4.0, Smart city, Smart road e così via, mentre dall’altro è accentuata la priorità delle PMI, l’implicazione logica ed economica è che sia necessario un diffuso mutamento della cultura operativa e manageriale.
Allora l’idea che un manager dell’innovazione possa da solo innescare processi granulari di updating tecnico-culturale è quantomeno consolatoria per chi ha una conoscenza diretta di come funzionano le piccole imprese. Qualche analista di formazione andreottiana penserebbe anche all’ennesima incentivazione di corsi universitari e parauniversitari per figure di incerta destinazione.
A mitigare questa troppo pessimistica considerazione c’è però un giudizio opposto: potrebbero almeno essere formate migliaia di persone in grado di sapere cosa c’è dietro i simultaneamente dietro mantra quali “Industria 4.0” e “Smart (….termine a piacere) , ripetuti in ogni occasione, anche in situazioni inverosimili, come è di recente accaduto nel corso di un recente convegno sulle smart cities, tenuto in una città proprio in un luogo situato a 100 metri da una delle aree centrali più ingorgate e irrazionali di un sistema urbano classificato come estremamente smart.
Occorre dunque adottare una visione sistemica multi-livello e al tempo stesso tenere presenti le interazioni tra le diverse sfere di azione, altrimenti si generano situazioni corrosive delle credibilità delle migliori intenzioni. Un esempio a riguardo è desumibile dalla LB (art. 38), dove si pensa giustamente di tutelare il risparmio, ma contemporaneamente si afferma che i risparmiatori penalizzati da comportamenti predatori delle banche hanno diritto ad un “ristoro” del 30%, il quale non è cumulabile con altre forme di tutela. Dalla terminologia giuridica traspare un’involontaria auto-ironia: che ristoro è un rimborso parziale che vincola un risparmiatore tradito? E’ arbitrario ritenere che queste disposizioni dipendano da un cattivo assorbimento della dialettica hegeliana di conciliazione degli opposti (interessi) di risparmiatori e banche. E’ da pensare invece che il tutto sia frutto di una mancata consapevolezza del senso profondo dell’aforisma di Pasteur e dell’antica saggezza di Epitteto. Nulla è senza rimedio se si parte dai fondamentali e con le buone intenzioni. In assenza di queste ultime, prepararsi per l’Arca di Noè, che con la stagione che incombe rischia di trasformarsi da suggerimento ironico in necessità operativa.