Lungo l’Alzaia del Naviglio Grande, a Milano, si possono ancora facilmente vedere i piani inclinati di cemento o pietra presso i quali fino alla prima metà del Novecento centinaia di lavandaie si inginocchiavano per svolgere il loro lavoro. Un lavoro durissimo, con le mani nell’acqua gelida proveniente direttamente dal Ticino, fatto di fatica fisica difficilmente immaginabile oggi.
Solo nella seconda metà del secolo, con l’avvento delle lavatrici (nel senso degli elettrodomestici) le lavandaie sono scomparse. Quasi da un giorno all’altro. Che fine hanno fatto quelle donne? La fine della domanda di lavoro per le lavandaie comportò anche la fine delle lavandaie? Ovviamente no! Si riconvertirono in operaie di fabbrica, dattilografe, cameriere o altro.
Perché questo è ciò che accade quando una tecnologia si sostituisce, in tutto o in parte, al lavoro umano o ad una tecnologia preesistente (che diventa rapidamente obsoleta): le persone imparano presto a presidiare le nuove tecnologie e a riconvertire le proprie competenze in modo da avere un ruolo e occasioni nel nuovo mercato del lavoro. Certo, è possibile che vi siano delle resistenze: i tempi per effettuare questa riconversione non sempre coincidono con le necessità dei lavoratori ed è ovviamente difficile conciliare le diverse esigenze.
Molti lavori sono scomparsi, insieme a quello delle lavandaie: i tagliaghiaccio, figura abituale prima della diffusione del frigorifero, i lampionai, che si occupavano di accendere e spegnere i lampioni dell’illuminazione sulle strade. Persino la mitica figura dell’operaio di fabbrica, quello della catena di montaggio, non se la passa granché bene.
Ma, nel complesso, il tasso di occupazione non è diminuito. Anzi è aumentato. E dove si sono viste delle riduzioni del tasso di occupazione, ben difficilmente queste sono attribuibili ai processi tecnologici. Esiste ovviamente una disoccupazione tecnologica, ma si tratta di un evento che può essere governato e che non va subìto.
Oggi la questione si pone con particolare urgenza: l’introduzione delle tecnologie informatiche e telematiche, ma ancor più la robotizzazione di molti processi produttivi e lo spostamento di valore dal “reale” al “virtuale”, dagli “atomi ai bit” per usare la felice (e ormai vecchia) espressione di N. Negroponte, rischiano di far fare a molti lavoratori la fine delle lavandaie o dei tagliaghiaccio.
Occorre ben comprendere cosa sta succedendo. E, una volta compreso, fare in modo di essere preparati all’evoluzione. Qual è la caratteristica dell’oggi? E che sviluppi avrà nell’immediato futuro? Non si tratta di fare gli indovini ma di prefigurare gli scenari di domani osservando lo stato dell’arte di oggi.
Siamo di fronte ad un cambiamento il cui focus è centrato sull’innovazione digitale in cui l’Internet of Things ha un ruolo essenziale, perché ha reso possibile l’incorporazione negli oggetti di uno strumentario tecnologico in grado di processare i dati e di adeguare il loro funzionamento ad esigenze di volta in volta diverse: e, paradossalmente, la lavatrice che “sente” il tipo di sporco della biancheria e predispone il ciclo di lavaggio più adeguato è più vicina alle lavandaie che al tradizionale elettrodomestico.
L’essenza dell’intelligenza artificiale è data da tecnologie in grado di processare una gran quantità di dati e di adeguare i processi produttivi in base ai risultati che emergono da questo processamento. Si tratta di passaggi davvero epocali, ma occorre prestare attenzione al modo con cui spesso percepiamo questa “rivoluzione”: di rivoluzioni tecnologiche ne conosciamo diverse; gli storici dell’economia ne hanno contate tre o quattro a partire dalla “gloriosa” rivoluzione industriale del Settecento; poi un paio nell’Ottocento-primi del Novecento; infine l’ultima (penultima?): quella informatica.
Ogni volta i segnali di allarme non sono mancati. Per dirla con Dante: “quivi sospiri, pianti e alti guai risonavan per l’aere senza stelle, per ch’io al cominciar ne lagrimai. Diverse lingue, orribili favelle, parole di dolore, accenti d’ ira“. Tutto giustificabile, ma le orribili favelle o gli accenti d’ira non servono a molto. Tanto più se si considera che la nuova rivoluzione è parente piuttosto alla lontana rispetto a quella informatica.
In particolare per quanto riguarda le sue conseguenze sul mercato del lavoro. Niente a che vedere, poi, con i precedenti sviluppi, quelli per restare in tema dell’epoca delle lavatrici o dei frigoriferi: non perdono il lavoro solo le lavandaie o i tagliaghiaccio, e neppure solo gli operai dell’industria degli elettrodomestici, ma anche coloro che erano impiegati fino a pochi anni fa in mansioni di concetto: andate in banca per una qualunque operazione e fateci caso; quante operazioni prima affidate agli impiegati di sportello sono automatizzate?
La paura delle “vecchie” rivoluzioni industriali era quella che sparissero le mansioni legate alle tre D: dull, dirty, dangerous (noiose, sporche, pericolose), cioè, per intenderci, i lavori manuali a bassa qualificazione. In questo scenario c’era chi prefigurava anche la fine del lavoro operaio. E persino del lavoro tout court, come i catastrofisti à la Rifkin amavano ripetere.
Ma ciò che il bruco chiama la fine del mondo, per il resto del mondo è una farfalla. Occorre guardare oltre il proprio naso. Tanto più che se si considera che il panorama dalle parti del proprio naso è alquanto allarmante: stanno diminuendo gli impiegati di banca, ma anche gli agenti assicurativi, i commercialisti, i radiologi.
Quali sono le caratteristiche del processo cui stiamo assistendo? Semplice: perdono appeal tutte quelle mansioni suscettibili di automazione digitale in cui ci sono molti dati da processare, regole seriali da applicare e il cui risultato è un prodotto con elevate caratteristiche di standardizzazione. Se poi si considera che i processi di traduzione di immagini e suoni in informazioni digitalizzate stanno diventando sempre più affidabili ed economici grazie all’intelligenza artificiale, allora si comprende perché debbano sentirsi minacciati anche i tassisti, i camionisti e in generale i conducenti di mezzi di trasporto.
Dunque, che si fa? Il mitico Ned Ludd (già, perché di un mito sembra trattarsi…) una soluzione l’aveva trovata: distruggiamo i telai meccanici che tolgono lavoro agli operai! Ma la cosa non ha funzionato granché bene. Perché il problema non è ritardare o, peggio, arrestare il progresso tecnologico, ma semmai fare in modo che se redistribuiscano i benefici. Ci sono lavoratori che perdono il lavoro a causa dell’introduzione dei robot? Sì, certamente! Non sono pochi e probabilmente saranno ancora di più nel prossimo futuro. Ma si dovrà fare in modo che essi non entrino nel circuito dai disoccupati cronici e che grazie ad un’adeguata formazione possano dedicarsi ai molti (moltissimi!) altri lavori che la società richiede e che sono vacanti già oggi (quindi senza allontanarsi troppo dal proprio naso…). Oltre naturalmente a tutti quei lavori oggi non presenti sul mercato del lavoro ma di cui si può prefigurare la nascita.
Allo stato attuale delle tecnologie vi sono molti lavori che le macchine non sono in grado di svolgere. E molti di questi non potranno essere svolti dalle macchine neppure nel prossimo futuro (sul lungo periodo meglio non azzardare previsioni…): elettricisti, infermieri, falegnami, artigiani di vario genere. Come mai questi lavori restano scoperti? Non si può realisticamente dare la responsabilità ai processi tecnologici, ma a storture del mercato del lavoro d’altro genere.
Queste storture hanno un riflesso nella impreparazione sistemica ad affrontare il futuro del lavoro. Su questo hanno un ruolo insostituibile le pubbliche amministrazioni: analizzare gli sviluppi tecnologici, cercando di intravederne le evoluzioni future è il primo compito; contemporaneamente occorre mettere in campo strumenti adeguati alla formazione dei nuovi lavoratori, sia di quelli che vengono espulsi dal mercato del lavoro a causa della crescente automazione dei processi produttivi, sia quelli che saranno necessari per presidiare quei lavori che le macchine, neppure quelle più sofisticate, possono fare.