Il vero sconfitto del referendum costituzionale del passato 4 dicembre è l’agenda digitale e l’attività di innovazione ad essa connessa, dalle iniziative sulle startup a smart cities e industria 4.0. La vicenda del referendum rappresenta l’ennesimo strappo istituzionale dove ancora una volta si è tentato di ridisegnare l’architettura delle istituzioni parlamentari e governative a colpi di maggioranza. La mancata condivisione con le altre forze politiche, e l’ostinata personalizzazione della campagna referendaria ha inevitabilmente spaccato il Paese in fazioni; da una parte i sostenitori del si, che nel merito si ritenevano innovatori, di fatto però avanzando una logica del NO al sistema della navette tra le due camere e all’immobilismo del passato, e dall’altra tutti coloro che prescindendo dal merito hanno voluto dire NO alle politiche del Governo.
Il Governo di transizione attuale poco potrà fare per placare gli animi, abbassare i toni e far convergere le forze politiche sulla condivisione di obiettivi strategici per il Paese, tra i quali il digitale, per dare ulteriore impulso alle positive iniziative di cambiamento e correggere quelle che sin sono dimostrate poco efficaci. Temo che con la dipartita di Renzi sia iniziata la corsa agli armamenti in vista delle future elezioni, dove i partiti non si risparmieranno scontri a colpi di NO, con un alto rischio (se non quasi certezza) di derive populistiche, dall’una e dall’altra parte.
Eppure il populismo è quanto di meno necessita il Paese in questo momento. Si avverte invece forte, più che mai, l’esigenza di positivismo e pragmatismo, uniti alla straordinaria capacità sognatrice tipica italiana, quella che ha ispirato i nostri padri costituenti ed aperto al miracolo italiano, e che ha reso grandi nel mondo gli imprenditori rappresentativi del made in Italy che diversamente sarebbero oggi solo dei piccoli artigiani di prodotti di qualità.
C’è insomma bisogno di una visione del futuro che tracci le linee guida che tengono insieme le varie singole iniziative di cambiamento e digitalizzazione.
Presi singolarmente alcuni provvedimenti sono giusti e necessari. Il problema però è che spesso le singole iniziative cozzano con il contesto burocratico, il sistema contrattualistico e tributario, e l’intero sistema capitalistico nostrano. Le varie iniziative finiscono per non trovare efficacia nei fatti perché mancano di un’azione sistemica da parte dei vari operatori del settore che possa produrre un certo impatto sull’economia. Il decreto Crescita 2.0 e successivi provvedimenti su startup ne sono un esempio.
Per sostenere l’innovazione si è creato un nuovo soggetto giuridico, le startup innovative, beneficiarie di una serie di incentivi fiscali e non, questo allo scopo di favorirne la creazione e investimenti per la loro crescita. Nonostante la lodevole ratio della normativa, i dati ci consegnano una realtà con diverse sfumature.
Oltre 7 mila startup innovative sono nate ad oggi. Però, da analisi dei dati finanziari a disposizione in una serie di studi condotti sotto la mia direzione, emerge che:
– solo ¼ delle startup innovative ricevono investimenti da parte di fondi venture capital. Trattandosi di “startup innovative”, tutti i progetti dovrebbero essere altamente innovativi appunto, e meritevoli di investimenti da parte degli investitori specializzati. Cosi non è stando ai dati. Un’interpretazione di questo risultato è che la definizione di startup innovativa in realtà cosi come concepita non è in grado di filtrare i progetti innovativi e di valore da altri progetti imprenditoriali dal valore dubbio. Occorre quindi forse rivisitare questo strumento.
– La maggior parte delle startup che raccolgono capitali da VC si concentra su settori tradizionali e ha tra i soci società industriali. Un’interpretazione di questo risultato è che queste startup si basano su innovazioni che fanno leva sul digitale e nuove tecnologie per offrire nuovi beni e servizi in settori tradizionali e che quindi possono intercettare anche l’interesse delle aziende operanti in tali settori. Questo è un dato importante. Da un lato mostra che i progetti di startup più legate al tessuto imprenditoriale del Paese hanno maggiore probabilità di raccogliere capitali di investimento. Dall’altro, offre lo spunto per la considerazione di un nuovo strumento congiunto di investimento, forse meritevole di adeguata incentivazione. Viste le migliori performance delle startup a capitale misto VC-aziende rispetto a quelle partecipate solo da VC o da aziende, andrebbero riconsiderati gli attuali schemi di incentivazione fiscale degli investimenti in startup, premiando la co-partecipazione all’investimento in startup da parte di investitori dedicati quali fondi di venture capital, e di aziende industriali. Questo potrebbe contribuire ad attivare meccanismi virtuosi di maggiore collaborazione ed integrazione del mondo startup (con i vari attori dell’ecosistema) e del mondo delle aziende manifatturiere, e sensibilizzare maggiormente le aziende tradizionali ad aprirsi verso le nuove opportunità offerte dal digitale e nuove tecnologie.
– Mentre il decreto Crescita 2.0 ha enfatizzato il titolo di studio e le privative industriali come elementi caratterizzanti una startup innovativa, l’analisi del campione di startup innovative ci restituisce un’evidenza empirica diversa. Tra i vari fattori che impattano sulla performance della startup, il team risulta essere l’elemento più determinante. Dallo studio, dove abbiamo analizzato diversi fattori quali tecnologia (brevetti, tipologia ecc..), tipologia dell’offerta, modello di revenue e caratteristiche del team, controllando per i diversi settori di appartenenza e tipologia di attività, il team risulta essere quello più determinante. Ma più che la tipologia del titolo di studio, è l’eterogenea composizione e competenze del team ad essere fondamentale. Unitamente all’esperienza pregressa in altri progetti imprenditoriali, sono i fattori che statisticamente spiegano di più le differenze di performance tra le varie startup. Mentre i brevetti, nella maggior parte dei casi, hanno una correlazione negativa con la performance della startup. Come mai? Incrociando questo risultato con quelli sull’importanza dell’esperienza ed eterogeneità di competenze del team, una possibile spiegazione è che le startup con privative hanno per la maggiore team con background tecnico scientifico, sono poco eterogenei in quanto a competenze, e con limitata esperienza imprenditoriale. Questi risultati, ancorché parziali, dovrebbero spingerci a riflettere sulla bontà dei parametri identificativi della startup innovativa, e sulla necessità di interventi a favore dello sviluppo di capitale umano della startup, ovvero del team. Sul primo dei due punti, è possibile ed opportuno definire i criteri di innovatività e potenziale valore di una startup ex ante, per decreto?
Il secondo punto, il capitale umano di una startup, ha ricevuto scarsa attenzione. Ci si è principalmente focalizzati sul capitale finanziario, prevedendo varie forme di incentivazione agli investimenti ed alcuni meccanismi di tutela degli stessi. Poco è stato fatto invece per potenziare il capitale umano a disposizione di una startup, ad eccezione di alcuni provvedimenti atti a facilitare il rapporto collaborativo di lavoro in una startup secondo lo schema del work for equity. Come emerge dai risultati, un aspetto critico è la composizione del team. Ad oggi non esiste un mercato “liquido” di figure manageriali per integrare i vari ruoli all’interno del team imprenditoriale della startup. In parte questo è dovuto ad un problema di coordinamento, ovvero alla mancanza di infrastrutture che facilitino il matching tra domanda e offerta, in parte ad un problema di carenza di offerta adeguata. Al primo problema i vari incubatori, acceleratori e gli stessi investitori cercano di sopperire attingendo al proprio network di contatti; un palliativo, più che una soluzione efficiente. Al secondo problema, diverse università hanno cominciato a dare risposta attraverso una crescente offerta di corsi sui temi startup. Tuttavia, si tratta per lo più di insegnamenti basici e generalisti, e che possono quindi non rispondere alle esigenze specifiche di molte startup. Occorre quindi fare una riflessione in merito all’opportunità, ad esempio, di creare programmi di formazione dedicati e specializzati con la co-partecipazione di università tecno-scientifiche e di business, incubatori/acceleratori, investitori, ed aziende, sulla base delle necessità di quest’ultime. Invece che lasciare ai singoli l’iniziativa, sarebbe utile coordinare le forze in campo, e creare dei poli tematici di eccellenza; un tema che inevitabilmente si lega a quello delle smart cities.
Ma tutto questo richiede anzitutto la formulazione di una visione dell’Italia digitale del futuro, alla luce della quale declinare le varie iniziative. Diversamente continueremo a dibattere dei singoli punti e dei singoli provvedimenti, in uno sterile scambio di “no”, perdendo di vista gli obiettivi aggregati di sistema. Molto probabilmente non sarà il 2017, l’anno dei “no”, a salutare questa nuova visione e la svolta definitiva verso il digitale; l’augurio è che pur in assenza di tale leadership, startup, imprese, investitori e i vari promotori dell’innovazione e del digitale possano costruire su quanto di buono vi è nell’impianto attuale e contribuire dal basso alla digitalizzazione e progresso del Paese.