Come spesso accade in momenti come quello attuale, caratterizzato da una grave crisi economica ed occupazionale, torna a montare l’allarmismo riguardo il rapporto tra innovazione e occupazione. Saremo tutti rimpiazzati dai robot? E’ vero, come stimano Benedikt Frey e Michael A. Osborne nel loro “The future of employment: how susceptible are jobs to computerisation?”, che è a rischio il 47% delle professioni (quindi non solo i lavoratori non qualificati, come si tende a enfatizzare, ma anche ingegneri, impiegati di concetto e così via)?
Prima di lasciarsi prendere dal pessimismo, come avvenne ad esempio quando, a metà degli anni ’90 Jeremy Rifkin scrisse “The end of work”, sarebbe opportuno valutare la questione sulla base di un griglia analitica e, innanzitutto, distinguere due tipi di innovazione tecnologica: da un lato quella “labour-saving” che riduce l’impiego di manodopera, dall’altro quella che l’occupazione la crea. C’è, infatti, da una parte, un’innovazione – quella di processo – che in prima battuta crea disoccupazione. E’ quella, per intenderci, in cui il robot sostituisce il lavoro ‘vivo’ o in cui l’impresa introduce il nuovo macchinario completamente digitalizzato che rispetto alla vecchia catena di montaggio richiede molti meno lavoratori. Dall’altra parte c’è invece un’innovazione che crea occupazione ed è l’innovazione di prodotto e cioè l’introduzione di nuovi prodotti e servizi che sostituiscono i precedenti (pensiamo alle automobili che hanno sostituito le carrozze all’inizio del secolo scorso) o che addirittura informano il cambiamento del paradigma tecnologico e il decollo di settori interamente nuovi (pensiamo alle ICT alla fine del secolo scorso o all’intelligenza artificiale ai nostri giorni).
La struttura industriale italiana è purtroppo sbilanciata su settori maturi nei quali è più facile che si introducano innovazioni di processo. Strutture economiche più propense all’innovazione di prodotto, come quella tedesca, statunitense e, per certi versi, cinese, sono invece meno soggette al pericolo di disoccupazione tecnologica.
Ben venga, quindi, che la politica inizi a considerare seriamente i possibili impatti occupazionali delle nuove tecnologie. Occorre tuttavia sottolineare che – sebbene sia essenziale il ruolo della scuola e dell’educazione al cambiamento per garantire il futuro occupazionale di fronte all’avanzare dell’innovazione tecnologica – non è certamente l’approccio più completo quello che tende a risolvere i problemi sempre e solo dal punto di vista del mercato del lavoro, spingendo soltanto su misure che riguardano l’istruzione, la formazione, il training e la flessibilità. Altrettanto fondamentali sono le politiche industriali e dell’innovazione che favoriscano l’innovazione di prodotto piuttosto che l’innovazione di processo e i settori high-tech ed emergenti piuttosto che quelli maturi.
Nel contempo, la politica economica può anche agire con l’obiettivo di facilitare l’operare dei meccanismi di mercato che possono (almeno parzialmente) compensare il formarsi della disoccupazione tecnologica. Se non si può, infatti, negare un impatto diretto negativo dell’innovazione di processo sull’occupazione, è anche vero che la stessa innovazione mette in moto dei processi economici che possono compensare almeno in parte le perdite occupazionali.
Proponiamo due esempi: l’impresa introduce una macchina (robot) che permette di risparmiare sul numero dei lavoratori. D’altro canto, quest’innovazione comporterà un aumento di produttività, una diminuzione dei costi e una maggiore competitività che a sua volta genererà un aumento del fatturato. E’ chiaro che vendendo di più si può creare nuova occupazione. Possiamo quindi concludere che la riduzione dei prezzi connessa all’innovazione può in parte compensare l’iniziale perdita di occupazione. Da questo punto di vista, un ruolo fondamentale è svolto da politiche della concorrenza che facilitino e garantiscano la flessibilità dei prezzi. Un altro esempio riguarda gli imprenditori che accumulano profitti dal guadagno di competitività connesso all’innovazione tecnologica; la politica economica dovrebbe facilitarne il re-investimento – possibilmente in settori emergenti e in innovazione di prodotto – e questo è possibile tramite una detassazione selettiva e mirata degli utili reinvestiti, così da chiudere il cerchio creando nuova occupazione a compensazione di quella persa inizialmente a causa dell’innovazione di processo.Ben vengano quindi tutte le misure che incentivano la flessibilità dei prezzi da un lato e il reinvestimento “virtuoso” degli utili dall’altro.
In conclusione, scuola e università hanno un ruolo fondamentale, ma è altrettanto importante sottolineare che le scelte delle imprese devono essere opportunamente incentivate. Si crea occupazione facilitando la R&S e l’innovazione di prodotto in settori come quello farmaceutico, delle nanotecnologie, delle biotecnologie o anche nella stessa produzione di macchine e robot. Ed è in questa direzione che bisognerebbe andare, sostenendo in maniera selettiva le iniziative imprenditoriali nei settori hi-tech e in quelli emergenti, dove gli investimenti in innovazione e R&S si traducono non già in disoccupazione tecnologica ma in un aumento dell’occupazione, come mostrato dalla recente letteratura empirica.