Il Piano Industria 4.0 è stato presentato per la prima volta nel 2017 quando, accompagnato da una grande campagna mediatica e da una comunicazione a tappeto, venne promosso per farlo conoscere a tutte le imprese. Inizialmente destinato in via prioritaria al manifatturiero, negli anni ha assunto una dimensione sempre più ampia, estendendo gli strumenti agevolativi anche agli altri settori così da venir ribattezzato Piano Impresa 4.0 e poi, a partire dal 2020, Piano Transizione 4.0.
Pur nella sua evoluzione semantica e con progressivi aggiustamenti, alcuni caposaldi sono rimasti invariati. Innanzitutto il suo approccio di sistema, nella consapevolezza che problemi complessi richiedono soluzioni articolate. Il Piano si compone infatti di azioni complementari che si sono arricchite e trasformate nel corso del tempo, ma che hanno da subito definito un approccio olistico in grado di supportare gli investimenti delle imprese lungo l’intero ciclo di vita: dall’acquisto dei beni strumentali, alla riorganizzazione dei processi produttivi, fino alla riqualificazione delle competenze necessarie a cogliere appieno i vantaggi della quarta rivoluzione industriale.
Transizione 4.0, quale futuro per il piano italiano: ecco le opportunità 2022
Sarebbe infatti riduttivo interpretare il Piano come una sommatoria di agevolazioni fiscali tra loro slegate o ricondurlo, come troppo spesso e semplicisticamente viene fatto, a un mero beneficio per l’acquisto di beni strumentali.
Dal 2017 in poi i vari Piani si compongono prevalentemente di misure fiscali generali, non selettive e come tali non classificabili quali aiuto ai sensi del regolamento europeo sugli aiuti di Stato; si caratterizzano per una piena neutralità in termini di dimensione di impresa, di settore di attività economica, di forma giuridica, di ubicazione e, dal 2020, anche per quanto attiene al regime fiscale di determinazione del reddito d’impresa, grazie alla trasformazione del super e iper ammortamento in credito d’imposta. Infine, in questa cornice nessuna specifica tecnologia avanzata viene privilegiata, ma le imprese possono ricorrere indifferentemente a uno o più ambiti tecnologici tra i tanti previsti.
Transizione 4.0, i dati
La risposta del mondo imprenditoriale in questi anni è stata estremamente favorevole.
Dalle dichiarazioni dei redditi dell’anno d’imposta 2020 è emerso che quasi 14 mila imprese hanno effettuato investimenti in beni strumentali materiali tecnologicamente avanzati. Da notare è soprattutto la distribuzione degli investimenti sia per dimensione di impresa – gli investimenti 4.0 sono effettuati per il 13,3% dalle micro imprese, per il 33,7% dalle piccole, per il 31,6% dalla media e per il 21,3% dalla grande impresa – che per settore – nel manifatturiero soprattutto fabbricazione di prodotti in metallo; produzione macchinari; alimentari; gomma e plastica; nei servizi commercio e sanità. Anche i dati sulle compensazioni da modello F24 confermano il diffuso apprezzamento delle misure del Piano: nel 2021 sono oltre 51 mila i soggetti che hanno beneficiato del credito per i macchinari 4.0 (il dato è relativo agli investimenti effettuati nel biennio 2020-21), oltre 4 mila quelli che hanno acquistato software avanzati e, rispettivamente, poco più di 12 mila e poco meno di 13 mila le imprese che hanno fatto ricorso al credito ricerca, sviluppo e innovazione e al credito formazione 4.0.
L’importanza delle competenze
La digitalizzazione è un percorso complesso, per essere interamente compiuto presuppone anche nuovi processi di organizzazione aziendale e un cambio culturale. Richiede costi ingenti per l’acquisto di nuove infrastrutture informatiche e nuovi macchinari, come software gestionali o ERP, sistemi IoT, soluzioni cloud, connessioni ultraveloci e altro, tutti elementi indispensabili ma non sufficienti a realizzare l’auspicata digitalizzazione.
Occorre un avanzamento di chi è a capo dei processi produttivi e gestionali: ci vogliono opportune competenze tecniche e manageriali.
Nell’Unione europea, a causa della mancanza di competenze, attualmente sono ancora vacanti ben 756.000 posti nel settore ICT (Tecnologie dell’informazione e della comunicazione). In Italia – fonte Rapporto Excelsior – entro il 2025 una quota pari al 60% dei lavoratori dovrà avere competenze green o digitali: il mercato del lavoro avrà bisogno di almeno 2,2 milioni di nuovi lavoratori in grado di gestire soluzioni e sviluppare strategie ecosostenibili e di 2 milioni di lavoratori in grado di saper utilizzare il digitale. Secondo il World Economic Forum (The Future of Jobs Report 2020) nove lavori su dieci nel 2030 richiederanno digital skills avanzate.
La sfida delle competenze è pertanto cruciale ed è ancora aperta: su questo fronte molto resta ancora da fare. Investire sulle competenze digitali non rappresenta più una scelta legata ai settori ad alta intensità tecnologica, ma è indispensabile anche per quelli tradizionali, oramai condizionati pienamente dalla digitalizzazione, come dimostrano per esempio l’agricoltura o la ristorazione.
Come rendere più efficace il Piano Transizione 4.0
Il Piano ha previsto tra le sue misure anche lo strumento del credito formazione 4.0 che, dopo un avvio lento, ha registrato una significativa diffusione nel corso dell’ultimo biennio. Dall’osservatorio del MiSE, tuttavia, appare ancora caratterizzato da significative inefficienze, soprattutto tra le PMI.
Le ragioni vanno ricercate innanzitutto nella mancata consapevolezza dei fabbisogni di formazione e di innovazione da parte delle PMI. Si stima che circa il 70% dell’innovazione delle piccole imprese origini dai fornitori: ne consegue che in genere i lavoratori non sono inseriti in percorsi strutturati di formazione 4.0, bensì sono sottoposti a training mirati all’apprendimento di una specifica tecnologia o dell’uso di nuovo bene strumentale che entra in fabbrica.
Per quanto si tratti di attività indispensabili, l’ambizione del Piano è più elevata: consentire alle imprese di dotarsi delle competenze necessarie a riconvertire e gestire processi produttivi innovativi in chiave 4.0, assicurando quindi un mix di conoscenze tecniche e cosiddette soft skill per poter lavorare in un ambiente altamente digitalizzato, in cui la capacità di problem solving e l’alfabetizzazione legata agli specifici linguaggi e ai formati dedicati non sono più un’eccezione.
Per formare una generazione di lavoratori qualificati in grado di sapersi muovere agilmente all’interno di un contesto di business digitale, a monte occorre un’analisi puntuale da parte delle imprese delle competenze a disposizione e dei fabbisogni necessari. Tanto più è accurata questa diagnosi tanto più efficiente sarà l’azione di riconversione delle competenze.
Ulteriore presupposto per un’efficace azione sulla formazione e per evitare una frattura tra domanda e offerta di conoscenza è la qualificazione dei soggetti formatori, non sempre adeguati a intercettare e soddisfare pienamente i bisogni delle aziende.
L’impatto del DL Aiuti e del PNRR
Preso atto di questi punti di debolezza, con il DL Aiuti il Ministero dello sviluppo economico ha avviato un nuovo percorso certificato per sviluppare le competenze digitali dei lavoratori. In particolare, è prevista una maggiorazione delle aliquote agevolative per le piccole e medie imprese che sottopongono i propri lavoratori a un assessment iniziale delle competenze, sulla falsa riga di quello utilizzato da anni per valutare la maturità digitale. Il modello, sviluppato sulla base anche di esempi europei, permette di individuare le carenze formative ed è quindi la base per indirizzare l’impresa verso il giusto percorso di recupero delle lacune.
A esito dell’assessment infatti sarà possibile profilare il grado di conoscenza dei lavoratori così da poterli indirizzare verso gli opportuni moduli formativi previsti dalla library predisposta dal MiSE. Le attività di assessment e orientamento non saranno affidate solo ai soggetti formatori ma anche a quelli che operano in una logica di prossimità territoriale alle imprese: i Punti Impresa Digitale delle CCIAA e i Digital Innovation Hub delle associazioni datoriali. Sarà inoltre data centralità alla formazione pratica, in un mix di ore in aula e in laboratorio che intende ripercorrere il modello di successo degli ITS.
L’auspicio è che i soggetti formatori possano avviare collaborazioni per mettere a sistema i rispettivi punti di forza, spesso complementari. L’offerta di formazione si arricchirà, infatti, anche dei 50 soggetti della rete del trasferimento tecnologico previsti dalla misura M4C2 I2.3 del PNRR denominata “Rafforzamento ed estensione settoriale/territoriale dei centri per il trasferimento tecnologico per segmenti di industria”: si tratta dei Competence Center e degli European Digital Innovation Hub che per definizione sono dotati di laboratori e vetrine dimostrative per le attività di test before invest e che sono stati selezionati proprio in virtù delle elevate conoscenze negli ambiti 4.0.
Il credito formazione 4.0
In ultimo, il nuovo credito formazione 4.0 prevede una valutazione delle competenze del singolo: l’assessment e le successive fasi del percorso formativo saranno gestite attraverso una piattaforma informatica appositamente predisposta dal MiSE che consentirà, nel rispetto della normativa sulla privacy, di creare una sorta di banca dati delle competenze 4.0 dei lavoratori.
Come cambia il credito R&S&I
Il Piano, pur nella sua ormai raggiunta maturità e stabilità, apprezzata dalle imprese, si arricchisce di ulteriori novità orientate a integrare le misure e rendere sempre più efficaci le strategie di innovazione. La più recente riguarda il credito d’imposta per gli investimenti in attività di ricerca e sviluppo, innovazione tecnologica, design e innovazione estetica. L’agevolazione è stata oggetto di una profonda riforma e sistematizzazione nel 2020 ed è una delle sovvenzioni a costante sostegno della competitività delle imprese.
Diversamente da quanto comunemente avviene nell’ambito delle altre discipline che incentivano le attività di ricerca e sviluppo, la misura non contempla procedure istruttorie per l’ammissibilità ex ante degli investimenti. Se da un lato questo meccanismo automatico rappresenta un punto di forza dell’agevolazione, dall’altro ha esposto le imprese ai rischi di una non corretta qualificazione degli investimenti ai sensi della disciplina agevolativa.
Al fine di introdurre strumenti utili ad assicurare maggiore certezza nell’applicazione della disciplina, con l’art. 23 del decreto legge 21 giugno 2022, n.73 è stata introdotta la possibilità per le imprese di richiedere una certificazione attestante la qualificazione delle attività effettuate o da effettuare ai fini dell’ammissibilità al credito d’imposta. Per questa finalità sarà istituito presso il MiSE un albo dei certificatori in possesso dei requisiti di onorabilità, imparzialità e professionalità e dotati di una sufficiente esperienza a garanzia delle imprese.
Conclusione
Nel 2022 l’Italia avanza di due posizioni rispetto alla precedente edizione del DESI (Digital Economy and Society Index): occupa il diciottesimo posto su 27 nell’indice generale, contro il 20esimo dello scorso anno. Rispetto all’anno del lancio del primo Piano Industria 4.0 l’Italia ha recuperato ben 7 posizioni. Il percorso è ancora lungo ma la strada intrapresa è quella corretta.