Secondo le indiscrezioni apparse nei giorni scorsi su alcuni organi di stampa, il Governo starebbe riflettendo su alcune modifiche al piano Transizione 5.0, con l’obiettivo comune di aumentare l’appetibilità dello strumento e dunque incrementare il numero delle imprese che vi faranno ricorso.
Dunque, dopo un lungo periodo di attesa concluso solo in estate con il varo del decreto attuativo del piano Transizione 5.0 approvato a febbraio 2024 dal Consiglio dei Ministri, è già tempo di pensare a una correzione di rotta per quello che di fatto è il principale intervento di politica industriale messo in campo con i fondi del PNRR. Il programma è dotato di risorse pari a 6,3 miliardi di euro, di cui però solo 3,78 miliardi di euro per i beni strumentali (materiali e immateriali) e 630 milioni per la formazione. Il resto (1,89 miliardi di euro) va all’autoproduzione e all’autoconsumo di energia prodotta da fonti rinnovabili. I 4,4 miliardi di euro effettivamente disponibili per progetti che includono l’innovazione digitale vanno inoltre suddivisi per i due anni di durata del programma.
Detto questo, se dopo oltre un mese dall’attivazione della piattaforma del GSE per la prenotazione dei crediti d’imposta e a circa due mesi dalla fine dell’anno, ferie di Natale incluse, tra crediti relativi a progetti in bozza e quelli completati si è superata di poco la cifra complessiva di 200 milioni di euro, in attesa della possibile mannaia del soggetto gestore, è chiaro che il livello di preoccupazione tra gli addetti ai lavori non possa che essere piuttosto elevato.
Transizione 5.0, i nodi da sciogliere
In effetti, per altre misure, prima di procedere a cambiamenti, che in realtà non è poi detto che producano effetti positivi ma che certamente aumentano l’incertezza degli operatori economici, si sono attesi tempi di attuazione decisamente più lunghi. In questo caso, si è ritenuto che non ci sia da aspettare oltre per almeno tre buoni motivi.
Innanzitutto, si tratta di uno strumento finanziato come detto con fondi del PNRR che vanno spesi entro la fine del 2025. Nella peggiore delle ipotesi, si può chiedere uno slittamento al 2026, l’anno in cui termina il programma europeo, ma l’intenzione più volte dichiarata dal Ministro sarebbe quella di aggiungere in questo orizzonte di tempo altri fondi, anziché spalmarli su più anni.
In effetti, il contesto esterno suggerirebbe un’accelerazione nel sostegno alle imprese e in particolare a quelle manifatturiere, visto il calo continuo negli ultimi due anni della produzione industriale, che è in buona parte dietro alla crescita zero del PIL certificata nei giorni scorsi dall’Istat relativamente al terzo trimestre 2024.
Infine, è vero che la piattaforma del GSE è partita solo a metà settembre ma il provvedimento è retroattivo, riguardando i progetti messi in atto a partire dal primo gennaio di quest’anno. Inoltre, al di là del decreto attuativo, che ha ampiamente sforato la deadline di aprile, la ratio del provvedimento era ben nota fin da febbraio. Dunque quei poco più di 200 milioni di euro potenzialmente impegnati sembrano davvero riflettere uno scarso interesse delle imprese, che al momento appaiono preferirgli la vecchia Transizione 4.0, che ha senz’altro aliquote più basse ma quantomeno può essere cumulata con altri incentivi, nazionali e regionali, provenienti da risorse UE.
Le principali misure di Transizione 5.0 ad oggi
Il cuore del programma, ed anche la principale novità rispetto al suo predecessore Transizione 4.0, che come detto resiste in parallelo sia pure con aliquote più basse e con un minore grado di copertura dei progetti finanziabili, consiste nella differenziazione del regime di incentivazione in ragione del risparmio energetico previsto. A seconda di quest’ultimo, si prevede un credito fiscale compreso tra il 35% e il 45% fino a 2,5 milioni di euro di investimento, dal 15% al 25% da 2,5 a 10 milioni di euro, dal 5% al 15% da 10 a 50 milioni di euro.
Sulla carta si tratta di incentivi che possono arrivare fino al 50% in più rispetto al regime precedente per gli scaglioni di investimento medio-alti. Non solo: i crediti (sia pure con decalage via via più basso) vanno a premiare investimenti fino a 50 milioni di euro contro i 20 precedenti. Considerata anche l’inflazione piuttosto elevata di questi ultimi anni, si tratta a tutti gli effetti almeno di un raddoppio. Inoltre, l’elenco dei software eleggibili viene esteso a quelli che monitorano i consumi energetici, l’energia autoprodotta o l’efficienza energetica, nonché se acquistati congiuntamente a questi ultimi quelli per la gestione d’impresa: in pratica, i software di tipo ERP.
Importante anche il sostegno alla formazione, sulla quale si era perso dal primo gennaio 2023 qualsiasi tipo di credito fiscale contenuto nel piano Transizione 4.0, anche se le spese agevolabili dedicate dai progetti 5.0 presentati dalla imprese non possono andare oltre il 10% degli investimenti totali e devono comunque essere comprese entro un tetto massimo di 300.000 euro. La formazione dovrà essere assicurata da soggetti esterni dotati di determinati requisiti. Il decreto attuativo ha giustamente collocato di fatto su un piano di parità le due transizioni, prevedendo che i percorsi individuati, che devono erogare corsi per una durata complessiva di almeno 12 ore, sono liberi di sviluppare 12 competenze in ambito green e altrettanto nell’alveo di quelle digitali ma debbono necessariamente comprendere almeno 4 ore afferenti all’altro ambito, scelte tra le prime quattro classi tematiche individuate: per la transizione energetica, integrazione di politiche energetiche volte alla sostenibilità all’interno della strategia aziendale, tecnologie e sistemi per la gestione efficace dell’energia, analisi tecnico-economiche per il consumo energetico, l’efficienza energetica e il risparmio energetico, impiantistica e fonti rinnovabili; per la transizione digitale, integrazione digitale dei processi aziendali, cybersecurity, business data analytics, intelligenza artificiale e machine learning.
Transizione 5.0, i punti critici emersi
Come detto, il programma è di fatto operativo da meno di due mesi, dunque non è scontato capire con precisione quali tasselli del puzzle manchino all’appello per tenere meglio conto delle esigenze delle imprese e assicurare un adeguato livello di successo alla misura, sulla falsariga di quanto avvenuto ai piani precedenti, fino a Transizione 4.0.
La doppia certificazione di Transizione 5.0
Certamente, un elemento che già secondo i primissimi commenti avrebbe potuto rappresentare un grosso ostacolo sta nelle procedure burocratiche ben più gravose. Per Transizione 5.0, le imprese devono infatti presentare una doppia certificazione, una ex ante sulla riduzione dei consumi conseguibili e una ex post sull’effettiva realizzazione degli investimenti. In particolare quella ex ante rischia di scoraggiare anche i meglio intenzionati, anche perché avviene nell’assoluta incertezza sulla ricezione futura dei benefici fiscali, a fronte di spese certe legate alla domanda di finanziamento. È vero che il decreto attuativo ha previsto un contributo fino a 10.000 euro a favore delle PMI per la copertura delle spese derivanti dalle certificazioni tecniche e fino a 5.000 euro a favore dei soggetti non obbligati per legge alla revisione legale dei conti per la copertura delle spese derivanti dalle certificazioni contabili ma, specie per chi deve ancora presentare la domanda relativa a un progetto, la misura può non risultare particolarmente efficace. Stessa cosa per il rispetto stringente delle tempistiche di svolgimento delle istruttorie e per le relative comunicazioni da parte del GSE previste dall’art.12 del decreto attuativo e che riguardano in particolare proprio i controlli ex ante.
Il mancato cumulo
Oltre agli oneri burocratici, l’altro elemento che sembra pesare parecchio è il già ricordato divieto di cumulo con altri incentivi di fonte comunitaria, erogati a livello nazionale e regionale. Le pur buone aliquote previste dal programma Transizione 5.0 rischiano dunque di perdere il loro appeal, a fronte della rinuncia preventiva a fondi potenzialmente molto interessanti (specie quelli amministrati dalle regioni).
C’è poi un fattore di fondo che chi scrive ha sollevato più volte nell’ultimo anno su queste colonne. Transizione ecologica e digitale, pur essendo spesso definite gemelle e potendo essere caratterizzate certamente da estese complementarietà, sono due fenomeni distinti, che necessitano di strumenti ad hoc (pensiamo all’intelligenza artificiale e all’analisi dei dati, che peraltro richiedono processi energivori oltre a porre questioni tecniche di estrema complessità già per proprio conto, specie per le Pmi). Per questo, appare difficile immaginare che un piano come Transizione 5.0 possa essere il meccanismo principale per accompagnare le imprese, e in particolare le imprese di dimensione più ridotta, nella transizione digitale.
Su cosa si potrà (realisticamente) intervenire
Secondo i rumor, si starebbe dunque immaginando di aumentare le aliquote, ad esempio alzando fino al 50% quella prevista per il primo scaglione di investimento, che al momento attuale arriva fino a 2,5 milioni di investimento ma che sempre secondo i rumors di questi giorni potrebbe essere raddoppiata a 5 milioni di euro. Una duplice mossa che favorirebbe soprattutto le imprese di taglia medio-piccola ma che ovviamente avrebbe impatti più limitati per quelle più piccole, che rappresentano oltre il 90% del tessuto produttivo nazionale, o per le imprese di dimensione maggiore.
Più interessante, per aumentare considerevolmente la platea di soggetti interessati, l’estensione degli interventi finanziabili agli impianti di raffrescamento/raffreddamento e agli impianti di illuminotecnica, se asserviti al processo produttivo, oppure l’inclusione delle società di servizi energetiche (le cosiddette Esco) tra i soggetti beneficiari. Anche se meno chiaro in questo caso apparirebbe l’intento di modernizzazione che conseguirebbe dall’accoppiamento delle due transizioni, visto che di innovazione digitale ci sarebbe poco o nulla. Ecco dunque che, lasciata probabilmente da parte la questione del mancato cumulo, sulla quale Bruxelles non sembra disponibile a demordere, occorrerebbe forse concentrarsi soprattutto sulla semplificazione delle procedure, limitandone al massimo l’impatto nella fase ex ante.
Perché al momento sembra questa la barriera decisiva, la cui rimozione (o quantomeno significativa mitigazione) potrebbe permettere di non snaturare troppo la filosofia originaria del piano. Sperando che come al solito si faccia presto e bene, anche perché dover poi provvedere alla revisione della revisione in uno spazio temporale di pochi mesi rischierebbe di suonare il de profundis per uno strumento atteso quanto imperfetto ab origine come Transizione 5.0.